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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

LA NUOVA LOCOMOTIVA D’AFRICA


GRAND RENAISSANCE DAM. (Etiopia). Non c’è altro modo per designare questo luogo che il segno deliberatamente lasciato dall’uomo, la «Grande Diga del Rinascimento Etiopico». Nulla, visto dal cielo, a parte il nastro bruno del fiume che percorre la piana. La gran parte dell’Etiopia è altopiano, fresco, scosceso; ma il piccolo aereo che ci ha portato fin qui è dovuto scendere molto prima di toccare terra nell’aria rovente.
Poi lentamente il cantiere della diga, enorme, titanico, emerge dal bassopiano prendendo corpo attraverso la foschia della calura, totalmente estraneo al paesaggio come una piramide in mezzo al deserto, o alla giungla. La sua muraglia non si eleva ancora che per metà, ma fa apparire gli uomini che sono al lavoro come minuscole formiche e annuncia la sua futura maestà: sarà la diga più grande dell’Africa intera, la decima al mondo. Il sito non sembra ad occhi inesperti il più adatto: il Nilo azzurro, che qui è ancora giovane ma già gagliardo, corposo, con il suo corteo di uccelli a perenne caccia di pesci tra i flutti, non s’incunea attraverso una gola, bensì scorre in un ampio varco tra le colline, prima di oltrepassare poco più in là l’indistinguibile confine sudanese. Lo sbarramento ultimato dovrà essere lungo quasi due chilometri, alto 155 metri. Dieci milioni di metri cubi di calcestruzzo: un’opera immane. Il lago artificiale che ne risulterà sarà lungo 250 chilometri e avrà 1900 chilometri quadrati di superficie (il Garda, per dire, il più grande d’Italia, ne ha 52 di lunghezza e 370 di superficie: cinque volte di meno).
Quest’impresa dalle dimensioni quasi impensabili non sarà soltanto una mirabile realizzazione ingegneristica. Sarà anche un simbolo, voluto per impressionare le genti ed i secoli, il segno di una rinascita nazionale, l’affermazione di un destino storico. La Grand Ethiopian Renaissance Dam, o Gerd, è la più recente sigla data ad un sogno immaginato e accarezzato da decenni: imbrigliare le acque del Nilo, domare il padre delle acque per fare dell’Etiopia il più grande dispensatore di energia rinnovabile del continente africano; forzarlo a passare nelle sedici turbine Francis della diga per far girare la macchina dello sviluppo industriale ed umano, portare elettricità ai villaggi, alle fabbriche, alle città di un quarto dell’Africa.
Nel basso edificio della direzioni lavori, dopo aver illustrato con il suo PowerPoint le meraviglie tecniche del progetto, che per i prossimi due anni continuerà a tirar su la muraglia giocando a rimpiattino con le piene del fiume, l’ingegner Semegnew Bekele, project manager, mostra la raffigurazione del sogno. Una fitta rete idroelettrica che dalla diga s’irradia a nord attraverso il Sudan fino all’Egitto, e perché no all’Europa meridionale; a sud in Kenya e in Somalia; a nord- est, attraverso il Mar Rosso, fino alla Penisola arabica. Un’egemonia di crescita e di pace, anziché di potenza militare.
Ci pensano i conti a riportare il sogno con i piedi per terra. Il costo stimato della diga è di 4,8 miliardi dollari (oggi più o meno equivalenti agli euro), comprese le turbine ma escluse le linee dell’alta tensione. Si dice che 1,8 miliardi per le turbine siano stati finanziati da banche cinesi, anche se non c’è conferma ufficiale; i tre restanti devono essere coperti dalla vendita di bond emessi dal governo etiopico e da una battente campagna che da tempo va chiedendo a tutti i cittadini etiopici, dal più povero contadino ai pochissimi ricchi, di contribuire con i loro risparmi.
Non sarà facile. Ma la vera difficoltà della diga non è tecnica, né finanziaria, bensì geopolitica. L’Etiopia sta sul corso del Nilo azzurro come il lupo nella fiaba di Esopo: a valle ci sono il Sudan e l’Egitto, entrambi allarmati che il rubinetto si possa stringere o chiudere, il flusso alterare, e la vita portata dal fiume venire a mancare. Chi domina il Nilo acquista un potere enorme e temibile. In anni ancora recenti le autorità egiziane proclamavano a chiare parole che per il Nilo erano pronte alla guerra. Ma poi all’Egitto la guerra è arrivata dentro casa, con i suoi fondamentalisti, e anche il Sudan non è che se la passi tanto bene. Così la debolezza dei due Paesi rivieraschi ha favorito l’Etiopia, che con una miscela di fermezza e di rassicurazioni sembra riuscita a ottenere un’intesa. Proprio in questi giorni, il 23 marzo, nella capitale sudanese Khartoum, era in programma un vertice dei presidenti egiziano e sudanese con il premier etiopico per la firma dell’accordo sulla diga.
Queste difficoltà, che a lungo hanno minacciato effetti destabilizzanti per l’intera regione, spiegano in parte perché ben pochi italiani sanno che a fare la grande diga sul Nilo è un’impresa italiana, la Salini Costruttori, oggi Salini Impregilo. L’attività della Salini ha una storia di molti decenni e molte realizzazioni in Etiopia, talora accompagnate da controversie, ma sempre con la piena soddisfazione del committente. Il cantiere Gerd, che dovrebbe chiudersi nel 2017, è di sicuro il più ambizioso per dimensioni e complessità tecnica, ai massimi livelli ingegneristici mondiali in materia. Eppure la diplomazia italiana, anziché esaltarlo, ha preferito tacerne. Per non irritare l’Egitto, di cui l’Italia è il primo partner commerciale; per non sottolineare il ruolo di una nostra impresa in una vicenda geopoliticamente così delicata. È lo stesso motivo per cui nessun organismo di credito internazionale, a cominciare dalla Banca Mondiale, ha voluto impegnare un solo dollaro nel progetto, spingendo l’Etiopia al pieno autofinanziamento.
E tuttavia, un po’ come una gravidanza considerata disdicevole, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, giunta grosso modo a metà delle sue dimensioni finali, è ormai impossibile da ignorare. Nessuno può continuare a fare finta di non vederla, tanto più che l’orgoglio nazionale etiopico non perde occasione di additarne l’esistenza al mondo. E tanto più che, sebbene vada sorgendo in un luogo remoto e pressoché disabitato, essa è pienamente al centro di una fase storica che vede l’Etiopia proiettata verso una crescita impetuosa: economica, umana, di ruolo regionale e internazionale.
Prima ancora che l’elettrificazione dell’intero Corno d’Africa, infatti, i seimila megawatt generati dalle turbine della diga sul Nilo dovranno servire ad alimentare fabbriche ed illuminare uffici di un Paese avidamente avviato sulla strada dello sviluppo. Il tasso di crescita annuale del suo Pil oscilla stabilmente intorno al 10 per cento, i consumi aumentano, Addis Abeba ferve di gru e di cantieri, dalla metropolitana leggera agli alberghi che vengono su a getto continuo con il loro codazzo di ingorghi impazziti. Un numero crescente di imprenditori stranieri decide di fare il salto da un atteggiamento curioso ma guardingo all’investimento diretto in Etiopia. Ad esempio l’italiano Camillo Calamai, industriale tessile di Prato, che ha chiuso gli stabilimenti in Italia e in Romania è si è trasferito qui con famiglia e impresa. E altri. Per non parlare dei cinesi. Gli uffici studi dell’Unione europea e degli organismi internazionali, Banca Mondiale, Fondo Monetario, applaudono esprimendo tutti l’identica perplessità: è un’economia ancora troppo diretta dallo Stato, non sufficientemente liberalizzata.
Il governo di Addis Abeba fa spallucce, risponde additando il cantiere della grande diga sul Nilo: chi altri potrebbe impegnarsi in un progetto così? Chi altri potrebbe? Auguri Etiopia.
Pietro Veronese