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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

FENOMENOLOGIA DI UN ITALIANO VERO


[Matteo Salvini]

MILANO. «Tèl lì, il Salvini! Ma che ci fa sempre qui a Como? Ormai lo vediamo un giorno sì e uno no...» osserva malizioso un vecchio esponente dc, parlamentare di lungo corso, uno che nel capoluogo lariano faceva il bello e il cattivo tempo. Il suo sguardo punta verso l’Arte Dolce, la storica pasticceria di via Cesare Cantù, dove il milanese Matteo s’infila sperando di passare inosservato. «Anche la sorella di Guido Martinelli lo vede spesso e volentieri...» commenta un altro, alludendo ad una tresca che ormai non è più segreta. Siamo negli anni roventi del leghismo di lotta e di governo, Salvini è consigliere comunale di Milano, dove è entrato a vent’anni, nel 1993. Ne aveva diciassette quando era rimasto folgorato, come San Paolo sulla via del Carroccio, raccattando un volantino della Lega e leggendone lo slogan di rozza ma efficace logica: «Sono lombardo, voto lombardo».
«Ho subito capito che quella era la mia strada» dirà «c’era tutto il fascino delle culture e delle lingue locali, dell’identità vera, non quella ideologica che nel mio liceo contrapponeva comunisti e cieliini». I quali, in modalità bipartisan, lo chiamavano fuori della classe e gli davano del razzista: «Ma io mi ci divertivo...».
È spigliato, ha la battuta pronta. L’ha dimostrato davanti alle telecamere. Due volte. La prima, a dodici anni, quando partecipa al quiz Doppio Slalom, trasmissione condotta da Corrado Tedeschi e risponde in un lampo alla difficile domanda: come si chiama il ministro degli Esteri di Gorbaciov? La seconda, nel 1993 a Il pranzo è servito, dove Davide Mengacci gli chiede che fa e lui, con gran disinvoltura: «Nullafacente» poiché studia Storia alla Statale. Risolve al volo un rebus, incassare tangente: «Vengo da Milano, ne so qualcosa».
A confrontarlo col felpato Salvini di oggi, quello di allora fa sorridere: pizzetto, un casco di capelli da far invidia ai chitarristi rock, giacca magari un po’ larga di spalle, cravatta a fiori (molti verdi) e camicia lillà a righini, l’aria da fighetto. Matteo detto Teo ha studiato alle medie coi preti. È stato boy scout, come l’altro Matteo, il Renzi premier. È milanista, se la cava a pallone, frequenta l’oratorio della parrocchia dedicata ai Santi Nabore e Felice di via Gulli, nel quartiere periferico Bande Nere-Primaticcio (forse non lo sa, ma i due martiri erano immigrati dal Nordafrica). Gli piace ascoltare Vasco Rossi e De André, nella cameretta ha le loro foto, vicino a Franco Baresi, mito rossonero. Vorrebbe diventare giornalista. Papà è un dirigente, la mamma casalinga. Ha una sorella.
Nel 1990, dunque, l’infervorato Salvini piglia la tessera della Lega. Si diploma nel 1992 al classico Manzoni di Milano, un istituto non élitario e snob come il Parini ma pur sempre di buon livello: ci sono passati Giorgio Ambrosoli, Tito Boeri, Edmondo Bruti Liberati. Mollerà l’università nel 2008, dopo sedici anni, dodici da fuoricorso. Gli mancano cinque esami, afferma: «Arriva prima la Padania libera che la mia laurea». Una resa strategica. Tanto, è la politica a mantenerlo.
È scaltro. Camaleontico quando e quanto serve. Il celodurismo del Senatùr per lui è prassi politica. Un vero lavoro non ce l’ha mai avuto, salvo qualche mese, a diciotto anni: prima a consegnare le pizze, poi commesso al Burghy in Galleria. Ma davanti alle fabbriche non esita a immedesimarsi: «Io so cosa provano quelli che tirano la lima...». In lega fa gavetta «con un entusiasmo e un’intraprendenza incredibili, lo vedevi onnipresente, megafono alla bocca, ai mercati, alle sagre, alle feste, ai comizi, davanti ai gazebo» ricorda l’amico Massimiliano Romeo, oggi capogruppo della Lega in Regione Lombardia. I due militano nel cruciale movimento dei Giovani Padani, fucina della futura classe dirigente leghista. Sorta di setta in cui vige una regola: tutti per uno, uno per tutti. I giovani di allora sono i capi di oggi. Salvini si conquista il soprannome di Capitano.
Talvolta non resiste ad azioni sintomatiche, direbbe Freud. Nel 1996 torna da militare. Esibisce un orecchino al lobo sinistro. Non se lo toglierà più. Nemmeno quando glielo chiede Berlusconi. Il look ora è leggermente alternativo. Va ogni tanto al centro sociale Leoncavallo, legge Mauro Corona. Diventa responsabile dei Giovani Padani di Milano. E persino giurato nelle selezioni di Miss Padania: non si nega nulla. Nel 1997, in occasione del Parlamento Padano, si presenta a capo di una lista: i Comunisti Padani. Vuole traslare in Lega le idee di Fausto Bertinotti, il segretario di Rifondazione comunista. Dice che destra e sinistra non hanno più senso, che comunque condivide alcuni valori della sinistra come la difesa dell’ambiente, il piccolo contro il grande, la presenza nelle fabbriche. Ottiene appena cinque posti sui duecento a disposizione. Gli va meglio alla Padania: diventa giornalista, ma le sue non sono cronache memorabili. Più bravo a parole. Trasloca quindi a Radio Padania, ed è subito direttore. Ha il senso dell’urlo. Si sta costruendo una personalità politica che non ammette né confronto né spartizione. Per questo ha fatto fuori Flavio Tosi: un avversario interno pericoloso, alle Europee del 2014 se Matteo prende 108.238 voti, Flavio lo incalza a 99.567.
Impalma nel 2001 la pugliese Fabrizia Ieluzzi, giornalista di una radio privata: matrimonio in giacca e cravatta, altro che felpe made in Padania. L’anno dopo nasce Federico. È eurodeputato nel 2004 con 14 mila preferenze (nel 2009 saranno 70 mila): va a Bruxelles ma rimpiange di sacrificare affetti familiari, gli amici delle partite a briscola, le osterie, il Leoncavallo, frontiera dell’underground milanese. Ma la vita, come la politica, spesso è doppio gioco. Figuriamoci l’amore. Quello con Fabrizia appassisce, mentre fiorisce la passione per Giulia: conosciuta grazie al fratello Guido, che sta nei Giovani Padani, esuberante tifoso del Como calcio, pure lui consigliere comunale. La sorella è laureata in giurisprudenza alla Cattolica di Milano. La mamma appartiene ad una dinastia di industriali del tradizionale settore meccano-tessile, il padre è un noto commercialista. Insomma, solida borghesia comasca.
L’avventura europea lo vede ingaggiare come portavoce Franco Bossi, fratello del Capo, e come assistente uno dei figli del Senatùr, Riccardo. Tiene famiglia pure Salvini. Fabrizia viene assunta per chiamata al Comune nel 2003 e poi confermata più volte, prima da Gabriele Albertini poi da Letizia Moratti. Giulia, che diventerà la sua compagna dopo il divorzio da Fabrizia (sarà un caso, ma Salvini si spende molto per tutelare i papà separati) e che nel dicembre del 2013 gli darà una bimba di nome Mirta, otterrà la provvidenziale chiamata dalla Regione Lombardia. Mica briciole: vale circa 70 mila euro l’anno il lavoro nella segreteria di Maria Cristina Cantù, assessore alla Famiglia. Lo rivela il Fatto Quotidiano. Su Google la voce «Salvini tiene famiglia» produce 170 mila risultati. La rete ribolle d’indignazione. Per uno che è stato tra i più strenui critici di Parentopoli, è come un uppercut al mento. Così come s’incrina l’immagine del politico iperattivo. In Consiglio comunale è il Malabrocca delle presenze, la maglia nera delle partecipazioni (757 votazioni sulle 2.930 dal 2006 al 2011). A Palazzo Marino, come a Bruxelles. Tanto che il 14 gennaio del 2014, l’eurodeputato socialista Marc Tarabella, belga di origine italiana, gliele canta: «Sei un fannullone». Colpevole di avere disertato tutte le riunioni della commissione, di preferire la tv al Parlamento europeo. Il video del focoso intervento spopola su YouTube, diventa virale. «Menzogne smentite dai numeri e dalle statistiche» replica Matteo. I numeri lo collocano al 52° posto (su 73 eurodeputati italiani), non all’ultimo. Ma è alla pari con tutti gli altri nell’incassare il lauto stipendio: 7.956,87 euro lordi di base al mese, più l’indennità delle spese generali (4.299 euro) più 304 euro per ogni giorno di presenza, più 21.209 euro per pagare lo staff e i viaggi...

Una giustificazione Salvini ce l’ha: sottrae tempo all’Europa per concentrarsi nel progetto politico a trazione lepeniana che snatura la Lega tradizionale per farla diventare il cuore moderato dell’estrema destra. Ormai Salvini conta più del «barbaro sognante» Roberto Maroni (metafora presa in prestito dallo scrittore irredentista Scipio Slataper). Bobo, per accantonare Bossi e il suo cerchio magico, aveva avuto bisogno del fondamentale e fondamentalista appoggio dei Giovani Padani. Comandare la Lega è sfessante, di questi tempi, altro che fannullaggine. Gli tocca pure scansare le avances che riceve su Facebook, «ma io non rispondo, da giovane prendevo tanti due picche», si schermisce, con quell’aria da trani a go-go, birra e salsiccia, salama e Bonarda, cassoeula e canzoni della ligéra che ha sedotto Marina Le Pen. Vanitoso, in fondo, deve esserlo. Appare desnudo sulla copertina di Oggi, lo scorso dicembre: coperto solo da una cravatta. Verde, ça va sans dire. Confessa di essere un trasanda: la barba è cresciuta «per pigrizia». Macho per caso. Nega il flirt con la cuneese Elisa Isoardi, ex miss Cinema che fa la presentatrice alla Rai: si sarebbero incontrati nel 2009. Giulia Martinelli pare non abbia gradito: l’ha sbattuto fuori di casa. Come un divo beccato in flagrante, si arrocca: «Il privato è privato. Io mi disinteresso nella maniera più assoluta di quel che fanno Silvio Berlusconi o Beppe Grillo. Almeno di quello che fanno nel privato. Il gossip lo lascio ai professionisti del settore». Chi disprezza compra, quando fa comodo. È la politica, bellezza. Anzi, bruttezza.
Leonardo Coen