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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

OMICIDIO A MANHATTAN

A scorrere i nomi di chi c’è nato, è impossibile non restarne impressionati: 50 Cent, per esempio, oppure Cindy Lauper. Se invece preferite qualcosa di più classico, potete trovare Dizzie Gillespie, o John Williams, cinque volte premio Oscar per la miglior colonna sonora. Gli amanti del cinema ringraziano anche per Martin Scorsese, Christopher Walken e Adrien Brody. Stiamo parlando del Queens, uno dei distretti più popolati di New York, secondo per grandezza solo a Brooklyn.
Fondato nel 1683, il Queens è una delle realtà più variegate degli Stati Uniti; moltissimi gli ispanici, ma non mancano comunità afro-americane e asiatiche, così come italiani e irlandesi, tedeschi e polacchi. Mentre i nativi americani non arrivano all’uno per cento.
Fin qui le statistiche. Ma come tutti i quartieri di New York, anche il Queens ha il suo lato oscuro, fatto di criminali e brutte storie. Come quella di Adrienne Shelly.

La lite sulle scale
Adrienne è nata nel 1966, nel Queens, figlia di genitori benestanti. A 10 anni è già una piccola attrice, che mostra le sue precoci abilità in un campus estivo per giovani talenti. Poi finisce all’Università di Boston, ma non le va di studiare. E allora molla tutto per l’unica cosa che piace davvero: recitare.
Partecipa a un paio di spettacoli e poi la si vede fare la comparsa in una serie in film e telefilm. Niente di folgorante, ma Adrienne è comunque la star del suo quartiere, l’orgoglio di mamma e papà. Nel frattempo si è sposata, ha una bella famiglia, un marito che la ama e una bimba di 2 anni.
Anche i soldi non sono un problema, perché guadagna abbastanza da permettersi un loft a Tribeca e un appartamento ad Abingdon Square, nel West Village. È in quelle stanze nel cuore di Mahnattan che stabilisce il suo ufficio. Ma Adrienne non vive solo come una star, ha preso ormai a comportarsi come tale. Così, quando i lavori di ristrutturazione che sembrano ormai contagiare tutta Manhattan raggiungono la sua palazzina, lei è la prima a lamentarsi per il baccano degli operai.
La mattina del 1° novembre 2006 scende nell’appartamento al piano di sotto gridando che la devono smettere con tutto quel rumore. Ma ad accoglierla trova uno a cui importa ben poco del suo curriculum d’attrice o della nuvola di Chanel n. 5 che la avvolge.
Diego Pillco ha appena 19 anni e non ha avuto una vita facile. Ha lavorato fin da bambino in una fattoria in Ecuador, poi si è trasferito a New York pagando 12.000 dollari per un passaggio illegale nel paese. Vive nello scantinato di una palazzina di Park Slope e si ammazza di fatica per mandare i soldi a casa. Quella mattina è di pessimo umore e non ha voglia di farsi insultare da una newyorkese viziata, che una volta ha sentito lamentarsi del puzzo dei muratori, di quelli come lui che non hanno la fortuna di avere un bagno a casa dove lavarsi.
Pillco non ha proprio voglia di stare ad ascoltarla, e le sbatte la porta in faccia. Lei torna sui suoi passi inviperita e ricomincia a urlare. Il ragazzo è esasperato, prende un martello e glielo lancia dietro. La manca, perché la donna sta già risalendo le scale e ora minaccia di chiamare la polizia.

Ispirato dalla telenovela
A questo punto il ragazzo si rende conto di avere commesso uno sbaglio enorme a far arrabbiare la ricca inquilina del piano di sopra. Il capo cantiere l’avrebbe scaricato, la polizia gli avrebbe chiesto i documenti di immigrazione, e alla fine lo avrebbero rispedito a casa sua. Ma lui non può permettere che accada.
Insegue la donna su per le scale. La raggiunge appena in tempo, prima che si chiuda alle spalle la porta dell’appartamento. I due cominciano a litigare furiosamente. Lei lo colpisce al volto. Lui la allontana con uno spintone. Lei cade, batte la testa e poi il silenzio. Pillco si china sulla donna per sentirle il polso. Non c’è battito.
A Pillco viene in mente un episodio di una telenovela che aveva visto con sua nonna, in Ecuador. Uno dei personaggi, dopo aver ucciso per sbaglio la compagna, aveva impiccato il cadavere con la corda della vasca da bagno, inscenando un finto suicidio. Uno strano paradosso del destino, perché Adrienne in fondo era un’attrice, e si trattava di farle recitare un’ultima scena, nel ruolo di una donna che si era tolta la vita.
Il ragazzo dà un’occhiata intorno, e in camera da letto vede un lenzuolo. Lo lega attorno al collo della vittima; Adrienne viene trascinata fino al bagno, poi issata nella vasca da bagno e impiccata. Il coroner scoprirà poi che la causa della morte è stato lo strangolamento, il lenzuolo stretto al collo di Shelly, non la botta in testa, che le aveva procurato solo un lieve trauma cranico.
È il marito a trovarla, quella stessa sera. E gli investigatori si mettono subito all’opera, per valutare se quello che si sono trovati davanti non sia il risultato di uno staging, una messa in scena.

Tragico finale
Lo staging rappresenta la deliberata alterazione della scena del crimine prima dell’arrivo delle forze di polizia.
Due sono le motivazioni alla base di questo comportamento: la prima, la più intuibile, risponde all’esigenza di depistare gli investigatori allontanando i sospetti dall’autore del reato. La seconda, meno frequente, è tipicamente associata alle morti nel corso delle cosiddette authoerotic fatalities, le pratiche sessuali autoerotiche che, per errore o leggerezza, possono concludersi con la morte del soggetto, particolarmente incline a coltivare la solitudine del piacere, pertanto non facilmente soccombile in caso di necessità.
In questi casi, infatti, il piacere sessuale viene ricercato attraverso un’asfissia controllata dal soggetto stesso; costrizioni al collo riducono l’apporto di sangue arterioso al cervello, e la condizione di lieve ipossia che si viene a creare amplificherebbe l’intensità di un orgasmo ottenuto attraverso la masturbazione. Ecco allora che chi interviene per primo sulla scena, da un lato non vuole comparire, dall’altro può avvertire il bisogno di proteggere la vittima o i suoi familiari dall’inevitabile umiliazione alla scoperta di un’imbarazzante perversione.
Ovviamente, nel caso di Adrienne, l’ipotesi del suicidio non regge. Lei era una donna felice, di successo, non aveva alcun motivo di uccidersi. E poi c’era quell’impronta di scarpa sul pavimento del bagno, una traccia, secondo la polizia, lasciata proprio dall’assassino.
Ci hanno messo qualche giorno a collegarla al diciannovenne ecuadoregno che lavorava al piano di sotto, e ora a Pillco la possibilità di tornarsene a casa sua sembra un sogno. Viene accusato di omicidio di secondo grado, e il processo celebrato nel volgere di poche settimane.
In un’intervista del 2002 l’attrice aveva detto: «Affronto la vita come se questa potesse terminare in qualsiasi momento, non accetto ritardi nella produzione dei miei lavori, poiché vivo ogni giorno con la consapevolezza che potrei non essere qui fra sette anni».
E così è stato. Adrienne ha sempre recitato. Mai però avrebbe pensato che la vita le avrebbe riservato quell’ultima, tragica parte in un copione scritto da un povero criminale incapace di gestire la propria rabbia.