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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

OLTRE LA RESISTENZA C’È IL DOLORE D’AMORE DEGLI UMILIATI E ILLUSI

Bello, di sicuro non era. O, perlomeno, era convinto di non esserlo. In Una questione privata il protagonista Milton, che è il suo alter ego, viene descritto come “un brutto: alto, scarno, curvo di spalle”. E qualche fondamento obiettivo questa convinzione doveva pur averlo. Pietro Chiodi, il principale studioso italiano di esistenzialismo che gli fu prima insegnante, poi compagno d’armi, poi ancora amico per tutta la vita, lo descrive con bruschezza militare: “il naso alla Cirano, piantato su un viso bitorzoluto”. A cui va aggiunto il fatto che il naso era rosso e che il poveretto era anche afflitto da una forte balbuzie. Da tutte queste che considerava disgrazie, lui, Beppe Fenoglio da Alba, cercò di riscattarsi perseguendo ostinatamente, ciecamente, fino alla morte sopravvenuta peraltro quando ancora non aveva compiuto i quarantuno anni, una sola cosa. Uno stile, la fedeltà a uno stile. Stile che peraltro non aveva mai visto concretamente praticare, di cui nessuno gli aveva mai parlato, distante le mille miglia dalla piccola città di provincia del Piemonte meridionale dove suo padre faceva il macellaio e sua madre lo aggrediva furiosamente perché non si laureava, perché non portava soldi a casa, perché fumava sempre e troppo. Quello stile, che era innanzitutto un modo d’essere ma che sarebbe poi diventato il suo modo di esprimersi, di scrivere, il carattere inimitabile e inconfondibile della sua letteratura, quello stile lui l’aveva letto, solamente letto. Quello stile era, in estrema sintesi, fatto di due cose. La lingua inglese in primo luogo, amata, tradotta, scritta, pensata, la lingua veramente sua, del suo essere più profondo. (Al punto che una delle poche sbavature di Una questione privata è quella in cui a Milton affamato una vecchia contadina del paese di Canelli, che in vita sua non è mai andata fino ad Alba distante solo pochi chilometri, dice: «Vado a farti un sandwich di pane e lardo». Un sandwich?!) In secondo luogo, e di conseguenza, l’Inghilterra. Ma non l’Inghilterra trionfante e imperiale dell’Ottocento e neppure quella languida e labirintica del primo Novecento. Al contrario, quella dura, spietata, della Gloriosa Rivoluzione, dei soldati di Cromwell, un’Inghilterra puritana, con chiarissime convinzioni e poche ma strenue fedeltà. Questo stile divenne il suo, il principio ispiratore delle sue rivincite e delle sue ostinazioni. Gli ispirò un’idea di eleganza (non un dono di natura, come la bellezza) che andava dall’impeccabile divisa da ufficiale inglese indossata in mezzo a partigiani cenciosi all’asciuttezza e all’apparente semplicità della sua scrittura. Gli ispirò un’idea di coerenza che lo portò a combattere, a rischiare la vita, nelle formazioni autonome, cioè badogliane. Quando, come dice Chiodi, “sua maestà il Re, la missione inglese e il ‘maggiore’ Mauri (il comandante delle formazioni autonome) erano i tre baluardi del suo spirito puritano e ‘i rossi’ un incomprensibile sottoprodotto della guerriglia”. E più tardi a votare per la monarchia nel referendum del due giugno, quasi ostinandosi a voler credere che la monarchia italiana fosse o potesse diventare quella inglese. Quella stessa ostinazione che lo sorreggerà nel suo lungo travaglio creativo e nell’altrettanto lungo calvario editoriale. Quando andrà diritto per la sua strada solitaria, riscrivendo e rifacendo, poi ancora riscrivendo, senza mai farsi sedurre dall’idea di chiuderla lì, di pubblicare il moltissimo che c’era già da pubblicare. Ma sempre guardando soltanto a quel punto lontano in cui tutto avrebbe assunto la forma definitiva, l’unica che avrebbe dovuto e potuto avere, l’unica vera. E nel frattempo i pochi, pochissimi soldi, le esitazioni degli einaudiani che lo guardavano con gli occhiali del genere, la letteratura della Resistenza (ma sempre con qualche cautela, non si sa mai, un monarchico badogliano…), le insistenze di Livio Garzanti e lui lì a scrivere furiosamente, ma a tenersi quasi tutto, come se stesse covando. Solo Pietro Citati, così, a colpo sicuro, capì che cosa lui era. Uno dei più grandi, se non il più grande, tra gli scrittori italiani del dopoguerra.

Bellezza sociale. Certo, la bellezza… In Una questione privata il brutto Milton è in scena dalla prima pagina all’ultima. Tutto per noi accade, tutto avviene attraverso di lui. I due belli, Fulvia, l’amata, e Giorgio Clerici, l’amico-rivale-compagno d’armi, non ci sono mai, esistono solo nel ricordo e nell’ossessione, nell’idea fissa di Milton. La bellezza di Giorgio è insieme convenzionale e sociale. È convenzionale perché di Giorgio sappiamo solo che è appunto di bell’aspetto. L’unico tratto concreto sono i capelli, convenzionalmente, biondi, di un biondo lucente, come quelli di Leslie Howard in Via col vento. Ma è soprattutto una bellezza sociale. Sappiamo del suo ceto elevato, almeno su scala locale, lo vediamo ballare con Fulvia, giocare a tennis su un campo ben battuto. Milton cambia i dischi, gira la manovella e conta i punti, mentre accarezza in tasca una poesia in inglese per lei. Da partigiano, anche lui naturalmente autonomo, Giorgio non se la fa’ con gli altri, rimarca la propria diversa appartenenza. In realtà il tratto peculiare di Giorgio è la disinvoltura, l’essere a proprio agio dovunque e comunque, in contrasto con il cronico disagio di Milton/Fenoglio. Della bellezza di Fulvia sappiamo ancora meno, tranne la treccia pesante, che non è granché. La consistenza fisica, al contrario di quanto avviene in Petrarca, è divorata e dissolta dalla fiamma sentimentale. Le due assenze, quella di Fulvia e quella di Giorgio, sono però ben diverse. Fulvia non c’è perché subito dopo l’otto settembre, cioè più di un anno prima, è tornata a Torino. Giorgio invece è stato catturato fuori scena dai fascisti e rischia di essere fucilato. O forse è già stato fucilato. Milton si muove affannosamente nella bassa Langa cercando di procurarsi un ostaggio da scambiare con l’amico. Ma non è l’amicizia, come tutti credono, a muoverlo. Nella scena iniziale — la più bella del romanzo, un capolavoro — Milton torna alla villa, ora vuota, dove abitava Fulvia. La vecchia custode che sa tutto e ha capito tutto, un personaggio costruito sul modello delle perfide governanti della tradizione inglese, lascia malignamente intendere a Milton che tra Fulvia e Giorgio c’era qualcosa e forse ben più di qualcosa. Milton è sconvolto, deve parlare con Giorgio, deve sapere. Una questione privata è tutto costruito su due piani. Da una parte le vicende della guerra partigiana, i patrioti, i fascisti, i contadini, le vecchie. Dall’altra l’ansia montante di Milton, la cieca volontà di sapere che lo muove, lo spinge, non gli dà requie. Non c’è nulla da sapere, naturalmente. Milton sa, e anche noi sappiamo benissimo, che quel che la vecchia custode ha in pratica detto è la verità. Proprio sotto gli occhi di Milton che non ha visto, che non ha voluto vedere, c’è stata una relazione tra Fulvia e Giorgio Clerici. È una verità che Milton non è capace di accettare ed è proprio la sua irrazionale, agitata resistenza il motore narrativo del romanzo. È curioso, anche se comprensibile, che Una questione privata sia stato spesso catalogato nella letteratura resistenziale. La Resistenza c’è, naturalmente, ma è la cornice, non il soggetto del quadro. Al centro del quale, un centro questo sì drammatico, si dilata e cresce qualcosa di cui Fenoglio non parla mai direttamente, ma che ci fa sentire e quasi toccare. Un grumo, un bolo di sofferenza, la sofferenza acuta, muta e inconfessabile dei rifiutati, degli inconsapevolmente umiliati, dei poveri illusi. Questa è la “questione privata”, evidente e dichiarata nel titolo, segreta e non detta ma dominante, che contrasta e nega la dimensione pubblica, anzi la più pubblica delle dimensioni, la guerra, la Resistenza. Ma mentre la questione pubblica è in ultima analisi una questione etica e dunque, per Fenoglio, di stile (e dunque ancora relativamente facile da affrontare e risolvere), la questione privata — il rovello nascosto, il pensiero fisso, la gola chiusa — è una questione di dolore, di dolore lancinante. E dunque irrisolvibile.

28 - continua