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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

L’EMIRO IN CHEVROLET CHE FA PAURA A BOKO HARAM

L’EMIRO IN CHEVROLET CHE FA PAURA A BOKO HARAM –
Parlargli, potete. Ma solo da lontano. E purché qualcuno parli per voi. Dentro Gidan Rumfa, nel palazzo dell’emiro, bisogna conoscere le regole. Musulmani o cristiani, nobili o plebei, bianchi o neri, è da millesedici anni che tutti sono ammessi con lo stesso rito: ci s’adagia nella sala grande dei drappi, dov’è il mazziere che sorregge un mazzafrusto d’ori e di velluti, quindi s’aspetta che il ministro del Tè serva il tè e che il ministro del Tempo regoli il tempo (c’è una sveglia apposta), si lascia che escano la fanfara delle lunghe trombe d’argento e le donne del Mami Truck — lo chiamano proprio così: il carro di mamma, una decina d’inservienti premurose che non abbandona mai l’emiro — e dopo, soltanto dopo tutto questo, si può rivolgere lo sguardo al sovrano. Anche la Bbc s’è dovuta adeguare: un portavoce prono che faceva le domande al posto del giornalista, il piccolo re velato a rispondere lassù nelle sue pantofole damascate, assiso sul largo trono d’iroko e di tappeti turchi, beluchi, berberi. Nessuno al mondo può rivolgersi direttamente a Mohammed Sanusi Lamido Sanusi II, cinquantasettesimo emiro dello Stato di Kano, quattordicesimo erede sufi della dinastia dei Bayero Fulani, discendente diretto dei predicatori che dal Mali portarono l’Islam nella valle del Niger, “il più capace e umile e onesto e timorato di Dio”. Nessuno tranne Elisabetta d’Inghilterra, l’antica padrona di casa: l’unica autorità regale che l’emiro riconosca.

Professore a Washington. La cerimonia medievale non inganni. Anche se si muove sul catafratto decorato d’uno stallone nero, si circonda di palafrenieri sui trampoli e di piumaggi scacciamosche e d’uno sciame di parasole, Sanusi II ha due cellulari, il tablet per twittare, parla cinque lingue, ha una splendida Chevrolet Impala verde color del Profeta ed è un economista fra i più ascoltati. Fino a un anno fa vestiva austeri gessati della City, teneva lezioni a Washington, frequentava i vertici di Davos e del G20, faceva il governatore della Banca centrale di Nigeria e nel 2010 il Times l’elencava fra i cento personaggi più influenti del mondo. Su YouTube, si trovano ancora i suoi interventi alla commissione Finanze e le sue previsioni sul Pil. Oggi Tsunami Sanusi, come lo soprannomina la stampa, ha cambiato abiti e abitudini. Via il papillon, ecco il turbante ad ali di farfalla che fa un po’ coniglietta di Playboy. Basta coi titoli di Stato, meglio quelli nobiliari. «Sono diventato quel che sognavo»: il più temuto nemico del Medioevo jihadista di Boko Haram. La bestia nera dello Stato islamico che s’espande nell’Africa Occidentale.
I fanatici lo odiano, e si capisce. Inaccettabile, un musulmano che sfida i musulmani. Inaudito, un emiro che ostacola i neocaliffi. Il mozzateste locale Abukabar Shekau che s’è autoproclamato signorotto del vicino Stato di Borno dopo avere ammazzato il legittimo emiro, rapito 300 studentesse per rivestirle da schiave e massacrato in piazza chiunque disobbedisca, questo capo di Boko Haram l’ha prima minacciato sul web (“sei l’ultimo emiro, Sanusi!”) e poi è passato ai fatti: tre kamikaze in un venerdì di preghiera di fine novembre, 120 morti nella grande moschea di Kano, proprio di fianco al palazzo reale. Bisogna capirlo, Abukabar. S’è finalmente guadagnato il titolo di uomo più ricercato del continente nero, 60 milioni di dollari la taglia, s’è appena messo in franchising con l’Isis e insomma vuole fare impressione: i servizi segreti africani, riuniti a Dakar in dicembre, hanno concordato che i suoi ottomila, forse quindicimila tagliagole sono ben pagati, ben equipaggiati, ben nutriti, spesso ben drogati e ormai “infinitamente più potenti dei jihadisti libici, maliani e somali, molto più crudeli dei siriani e degl’iracheni di Al Baghdadi”.

Doni & droni. Il terreno è fertile: già Bin Laden citava la Nigeria fra le sue terre di conquista e un mese dopo l’11 Settembre, quando il mondo dichiarava guerra ai talebani, qui si facevano le prime grandi manifestazioni antiamericane. «Tutti i neonati di Kano si chiamano Osama», segnalava preoccupato Jubril Aminu, l’ambasciatore nigeriano a Washington. E siccome quei bambini adesso sono cresciuti, pronti a combattere in santa pace la loro guerra santa, ecco che i canadesi, i francesi, gli americani e gl’inglesi hanno deciso di mandare i loro droni, l’Unione africana di mettere in campo 8.700 soldati d’una forza regionale. Fronte complicato, col problema della corruzione e soprattutto delle diserzioni: 54 soldati che sono stati condannati a morte per aver abbandonato il posto di guardia, molti che parlano il kanuri come i loro nemici dell’Isis e perciò si rifiutano di combattere gente della stessa tribù… Boko Haram, arrivato a controllare 20 mila chilometri quadrati a cavallo delle frontiere, sa di dover far presto: sogna di conquistare Kano, seconda città del Paese, e resuscitare l’antico Califfato di Sokoto che a fine Ottocento, quando l’Inghilterra lo smantellò, s’estendeva dalla Nigeria al Niger, dal Camerun al Burkina Faso. «Torneremo a prima delle colonie!», strilla Abukabar ogni volta che videoappare in mimetica o nella sua elegante babban riga bianca, la tunica dei nigeriani: «Vi doneremo un impero fondato sul jihad e sulla vera sharia!».
Bisogna capirlo davvero, l’imperatore del male. Lui sarebbe già sulla via del trionfo — in sei anni è riuscito a fare tredicimila morti e un milione e mezzo di sfollati, a instaurare un Consiglio della shura con trenta ministri, a installarsi nel palazzo reale di Bama, ad accerchiare una grande città come Maiduguri —, se di traverso non ci fosse questo Sanusi II: un ribelle che nei suoi discorsi osa citare i versi afrobeat di Fela Kuti (“da secoli/ ci rubano i nostri uomini/ e le nostre ricchezze./ Ieri le foreste, oggi/ il petrolio…/ E ci sono sempre degli africani/ che servono da prestanome”) e il giorno dopo l’attentato va in piazza a gridare «non mi faccio intimidire!».

Viva la scuola. L’emiro banchiere è la seconda carica religiosa della Nigeria e la storica guida degli Haoussa, una delle etnie più grandi d’un Paese che ne conta 250. Sa benissimo d’essere un reperto dell’era precoloniale: suo padre Sanusi I, grande erudito delle madrasse fedele a Londra, fu deposto con l’indipendenza; suo fratellastro Bayero, emiro bambino, per cinquant’anni fu intronizzato e un po’ intronato da generali e presidenti, purché s’accontentasse di restare nella reggia e non facesse troppi danni. Ultima maestà di Kano, Sanusi II vuol essere un’altra cosa. Non più il monarca assoluto dei secoli ricchi, quando di qui passavano le rotte transahariane dei mercanti arabi di schiavi, i venditori d’indaco e perle, spezie e corazze d’armadillo. Ma nemmeno quella macchietta spodestata che Le Figaro fotografava negli Anni ’70: «Ogni volta che all’aeroporto di Kano atterra un Boeing», scriveva divertito l’inviato del giornale, «una guardia reale viene spedita sulla pista a suonare una tromba, come s’è sempre fatto per le carovane in arrivo dal deserto».
Sanusi dipende dal governo federale: nel suo Stato può solo amministrare la giustizia e l’educazione, nominare gl’imam e i capi villaggio, celebrare cerimonie e ricevere visitatori. Però sa parlare come un papa nero. E quando lo fa, a Kano tutti s’inchinano. Il nome Boko Haram significa “l’educazione occidentale è proibita”? «Quel che serve è un’istruzione di tipo più occidentale», risponde l’emiro: «Altrimenti, chi è povero e ignorante non ha altra scelta che l’estremismo». I jihadisti nigeriani vanno a caccia di cristiani infedeli e di musulmani moderati? «Organizziamo milizie d’autodifesa popolare», propone Sanusi, «perché se il vostro nemico vi attacca e voi fuggite, non sarà Dio a soccorrervi». Le femmine dell’Isis servono solo da bambine-bomba per farsi saltare nei mercati? «Tutte le donne dovranno andare a scuola!», proclama sua altezza. Nemmeno un divieto per la birra locale, la migliore della Nigeria. E quanto alla sharia, niente forche né decapitazioni: a Kano si pecca quanto si prega, basta e avanza qualche frustata alle prostitute del Central Hotel o agli Yan Daudu, ragazzini che sembrano ragazzine, i femminielli che per secoli l’emirato ha tollerato e ora, con l’aria che tira, si chiede solo non si facciano vedere troppo in giro…
«Il problema dei miei dieci milioni di fratelli è la povertà», denuncia Sanusi. Un tempo lontano, a Kano venivano gl’italiani a trivellare e a costruire. Fra le baracche, adesso ti rapinano le gang degli yandaba che sniffano la colla e usano bene le lame. Per guadagnare qualche naira, i padri prestano alle multinazionali americane del farmaco i bambini malati di meningite, perché facciano da cavie. E se a Lagos si battono per avere Internet, a Kano aspettano ancora la rete elettrica. «Il mio emirato ha bisogno d’investimenti nell’agricoltura, nelle infrastrutture, nella sanità e nella scuola, oltre che di truppe più preparate». Soldi e soldati: «Lo sappiano i signori del governo, solo così sconfiggeremo i fondamentalisti».

Odio e petrolio. A Lagos, la capitale economica, fanno finta di non sentire. Bel problema, questo banchiere che a 53 anni volle farsi re ed è odiato anche più di Boko Haram: «Sanusi è solo un ambizioso che punta all’anarchia», confida in privato Goodluck Jonathan, il presidente uscente (cristiano) che in questa fine di marzo si gioca la rielezione contro il musulmano Muhammadu Buhari e intanto lancia messaggi tranquillizzanti («al Nord sorridono, i giorni delle lacrime stanno finendo!») puntualmente smentiti dalle cronache. «Da quando nel 2009 è comparso Boko Haram», spiega John Campbell, ex ambasciatore americano in Nigeria, «il governo ripete d’essere vittima d’un complotto del jihadismo mondiale. Vero. Ma c’è anche una rivolta essenzialmente locale contro la politica economica di questi decenni».
Un disastro. I nigeriani sono più numerosi dei russi, ma s’ammassano su un territorio quindici volte più piccolo. Sono la prima economia africana e i sesti esportatori mondiali di petrolio, eppure il 70 per cento campa con due dollari al giorno e la benzina viene importata. Hanno migliaia di caschi blu in giro per il mondo e pretendono un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma si son fatti fregare mezzo Nord da Boko Haram che sul lago Ciad attacca perfino con le canoe, proprio come un tempo si fecero prendere il delta del Niger dai pirati del petrolio armati di barchini. «Goodluck Jonathan non controlla lo stato maggiore dell’esercito», dice Marc-Antoine Pérousse, africanista dell’Ird di Parigi, «e lo stato maggiore non controlla le truppe sul terreno». «Per la verità», scrive il settimanale Jeune Afrique, «molti pensano che Goodluck non sia solo incapace e che sostenga Boko Haram per poter dividere meglio i musulmani: più s’ammazzano fra di loro, meglio è…».
Un anno e mezzo fa, quand’era ancora banchiere, Sanusi capì che il presidente portava fortuna solo nel nome e a se stesso. E fu lì che decise di dirglielo: «Caro Goodluck», si ribellò pubblicamente durante un’assemblea, «si può sapere che fine hanno fatto i 20 miliardi di petrodollari che in cassa non si trovano più?». Nella sala calò il silenzio. «Se mi domando come opera la Nigerian National Petroleum Company», aggiunse il futuro emiro, dandosi già la risposta, «probabilmente minaccio la principale fonte di finanziamento dei nostri leader... Credo che i nigeriani farebbero bene a indignarsi in piazza, non solo su Facebook…». Negli ultimi vent’anni, e per molto meno, in Nigeria hanno ucciso 160 uomini politici: a Sanusi poteva andare peggio. Il suo esilio è a trenta ore di treno da Lagos. A un secolo dal benessere. A un passo dall’inferno. Dice una leggenda che il regno di Kano nacque dopo l’uccisione d’un serpente che terrorizzava il popolo. Il serpente è tornato, e l’emiro lo sa.