Tino Oldani, ItaliaOggi 27/3/2015, 27 marzo 2015
IL PIANO JUNCKER COME UN LIBRO DEI SOGNI: C’È IL RISCHIO CHE I PRIMI INVESTIMENTI ARRIVINO SOLTANTO NEL 2019
Altro che rilancio dell’economia europea. Il piano Juncker è talmente complicato sul piano burocratico che rischia di far partire i primi investimenti tra quattro anni, nel 2019, vale a dire un anno dopo la scadenza del piano stesso, previsto come triennale (2015-18). Lo ha detto Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti (Cdp), nel corso di un convegno a Roma. Una previsione da non sottovalutare: Bassanini è considerato, a ragione, uno degli esperti più autorevoli di questioni burocratiche, sia in Italia che in Europa. E prima di lanciare l’allarme si è consultato con i colleghi delle omologhe Casse di Germania e Francia, la Kfw e la Cdc, che al pari della Cdp sono coinvolte nella realizzazione del piano Juncker come fornitrici di capitali per conto dei rispettivi governi. Risultato: le tre Casse hanno individuato nel piano Juncker una serie di ostacoli operativi, e si accingono a indicarli nero su bianco in una lettera congiunta, da spedire alla Commissione Ue.
La ratifica di questa lettera, ha anticipato Bassanini, potrebbe avvenire il 12 aprile a Roma, in occasione di una riunione delle tre Casse con la Banca europea degli investimenti (Bei), player chiave del piano Juncker. Oltre alle procedure macchinose, che richiederebbero troppi passaggi burocratici prima per l’esame delle centinaia di progetti presentati dai 28 paesi Ue, poi per la loro successiva scrematura e approvazione, infine per il finanziamento vero e proprio, le tre Casse hanno individuato altri problemi, che riguardano il prezzo delle garanzie fornite dall’Esfi (Fondo europeo per gli investimenti strategici) sui futuri investimenti, e il rischio che l’attuale normativa Ue ostacoli la concessione di tali garanzie, equiparandole agli aiuti di Stato, che sono vietati. Tre nodi da chiarire al più presto, ha spiegato Bassanini, se necessario anche ritoccando alcune parti del piano Juncker.
Non tutti, per la verità, sembrano consapevoli delle difficoltà prospettate da Bassanini e dalle tre Casse europee. Anzi, tra i politici vi è chi considera il piano Juncker una conquista, un valido strumento di propaganda, di cui vantarsi. È il caso del sottosegretario agli Affari europei, Sandro Gozi, che in un’audizione alla Camera ha sollecitato la Commissione Ue a far partire il piano da giugno, affiancandolo così al quantitative easing di Mario Draghi e al calo del petrolio come fattore decisivo per il rilancio dell’economia. Il tutto senza neppure sfiorare un altro punto debole, indicato da Bassanini e dalle tre Casse: l’effetto leva, considerato da molti troppo ambizioso, per non dire fuori dalla realtà.
A ben vedere, infatti, il piano Juncker è un veicolo finanziario che dispone di appena 21 miliardi di euro, con i quali vorrebbe promuovere investimenti per 315 miliardi in tre anni, con un effetto leva da uno a 15. Anche la Commissione guidata da Manuel Barroso aveva varato un’iniziativa simile, il Compact for growth del 2012, con una leva finanziaria più modesta, da uno a sei (20 miliardi che dovevano innescarne 120 di investimenti): quel piano, però, non produsse risultati apprezzabili. Come ora possa accadere il contrario, resta un mistero.
Si aggiunga che non tutti i 21 miliardi del piano Juncker sono soldi veri. Di certo, lo sono 5 miliardi messi a disposizione dalla Bei. Mentre i 16 miliardi di cui è titolare la Commissione Ue, per la metà sono garanzie, mentre gli altri 8 miliardi corrispondono a risorse già esistenti: 3,3 miliardi provengono dal meccanismo per l’interconnessione in Europa, altri 2,7 miliardi dal programma Horizon 2020 e 2 miliardi dai margini di bilancio. A questi fondi si sono aggiunti quelli deliberati di recente dalle tre Casse di sviluppo pubbliche di Germania, Francia e Italia (Kfw, Cdc e Cdp), 8 miliardi a testa, più 1,5 miliardi dalla Spagna. Per il momento, dagli altri Paesi Ue a 28 non risultano pervenuti altri contributi.
Quando presentò il suo piano, Juncker si disse certo che in tre anni avrebbe fatto lievitare il pil europeo di 330-410 miliardi, creando da uno a 1,2 milioni di posti di lavoro. In Italia, Matteo Renzi commentò soddisfatto che finalmente l’Europa cambiava il vocabolario politico, passando dall’austerità alla crescita. Anche Angela Merkel e Francois Hollande spesero parole di elogio. Ma non altrettanto fecero la stampa tedesca e quella inglese.
Sul Financial Times, Wolfang Munchau dimostrò che la leva da uno a 15 era irrealistica. E Der Spiegel bocciò il piano senza riserve, rilevando che eliminava un cardine dell’economia di mercato: il rischio degli investitori. «L’idea di rianimare le banche e le imprese in business rischiosi grazie alla garanzia pubblica è pericolosa, e propone la stessa cultura che ha provocato la crisi finanziaria», osservò il settimanale tedesco. Molto meglio sarebbe «creare condizioni migliori per le imprese con meno burocrazia e meno tasse». Sarà un caso, ma sugli stessi temi (leva eccessiva, meno burocrazia e valutazione più attenta delle garanzie) arrivano ora le obiezioni delle tre Casse di sviluppo nazionali, che riportano il piano Juncker in alto mare. L’ennesimo libro dei sogni.
Tino Oldani, ItaliaOggi 27/3/2015