Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 26/3/2015, 26 marzo 2015
VI RACCONTO BOULEZ
Il grande musicista francese Pierre Boulez compie oggi novant’anni, e in tanti gli rendono omaggio: a Parigi si stanno eseguendo concerti con i suoi pezzi e si è appena inaugurata una mostra sulla sua carriera (Museo della Musica della Philharmonie); a Berlino Daniel Barenboim dirige programmi bouleziani; e Lucerna gli dedica un’ampia sezione del suo festival estivo. Inutile temere il rischio del “santino”: il Grande Vecchio della musica contemporanea merita ogni onore, poiché incarna una fetta significativa del patrimonio di scoperte e dibattiti su cui si è sviluppata la produzione musicale novecentesca. I suoi contributi al proprio territorio non si limitano alla composizione: Boulez è anche un acclamato direttore d’orchestra, che per esempio interpreta le sinfonie di Mahler con un’espressività lontana dai sentimentalismi e sa restituirci i paesaggi delle opere di Wagner come cattedrali di limpidezza strutturale. Inoltre è un acuto saggista e un organizzatore efficacissimo: a lui si devono la poderosa Cité de la Musique di Parigi, la fondazione dell’Ensemble Intercontemporain e il centro d’indagine sulle tecnologie sonore denominato Ircam e divenuto il suo regno parigino.
Riguardo alla creazione, fin dalla gioventù questo “monumento vivente” dimostrò un tale genio compositivo che Stravinskij lo definì «il miglior autore della sua generazione ». Formatosi con la tecnica dodecafonica e rimasto sempre fedele al linguaggio atonale, oggi che la musica si è aperta a prospettive multilinguistiche e “contaminate” può essere visto come il massimo del cerebralismo. «Non condivido questa posizione», dichiara il campione del pianismo mondiale Maurizio Pollini. «Boulez è un musicista di enorme rilievo, che ha firmato capisaldi quali Le Visage Nuptial, Le Soleil des Eaux, Le Marteau sans Maître e Pli selon Pli, per citare i capolavori “antichi”. E tra i titoli successivi ci sono Notations per orchestra e Répons : tutte opere somme e molto intense ».
D’altro canto Pollini è convinto che «la musica più valida della seconda metà del secolo scorso sia giunta dai seguaci della linea postweberniana e della scrittura seriale, come appunto Boulez». Curatore in molte grandi capitali del pianeta di applaudite serie di concerti capaci di miscelare repertori di epoche differenti, il pianista ha presentato spesso, nei suoi “Progetti Pollini”, brani composti da Boulez, ed è considerato il miglior interprete in assoluto della Seconda Sonata bouleziana, «un lavoro difficile e di estrema drammaticità, ricco di contrasti e di vigore comunicativo », spiega. «Include parti liriche bellissime ed esplosioni di collera, stati d’animo violenti».
Strano parlare di ardenti passioni in riferimento a un compositore la cui razionalità analitica, coltivata anche grazie a studi di matematica, pare nutrirsi di freddezza e distacco: «Non sono d’accordo», controbatte Pollini. «I più emblematici compositori del dopoguerra hanno ereditato dai tre esponenti della Seconda Scuola di Vienna, Schönberg, Berg e Webern, il linguaggio seriale, di cui non sempre gli ascoltatori arrivano a cogliere la portata. Autori quali Nono, Stockhausen, Berio e Boulez possiedono una complessità straordinaria, ma forse per il pubblico più vasto è arduo comprendere la profonda realtà emotiva dei loro pezzi. In tutti i secoli la nuova musica ha impiegato un po’ di tempo per affermarsi».
Boulez ha fama di uomo chiuso, intransigente e misterioso. Anche a questo proposito Pollini non concorda, ritenendolo «una persona di lealtà incredibile, di carattere forte e di autentica onestà nel dire sempre ciò che pensa». Il fatto è che l’ormai mitico Boulez attira con la medesima veemenza amore e odio, essendo stato molto radicale nelle scelte, con precise conseguenze: per un verso incarna una dimensione basata sulla «chiarezza e trasparenza più stupefacenti » (parole di Berio); per un altro lo si guarda come un emblema di dogmatismo, avendo rigettato compromessi rispetto a musiche diverse dal sistema in cui crede. Boulez disprezza intrecci con la “leggera”, ritorni alla musica tonale e fenomeni “facili” come i neoromantici e i minimalisti americani (Steve Reich, Philip Glass, John Adams). E detta rigidi confini persino in ambito sperimentale: nell’ultima intervista data a Repubblica ( per il Leone d’Oro alla Carriera conferitogli dalla Biennale di Venezia, 2012) liquidò John Cage come privo di sostanza musicale. Durante quell’incontro, avvenuto all’Ircam di Parigi, lamentava grossi problemi agli occhi e aveva un aspetto molto provato. Ma era ancora così magnetico e interessante nei suoi discorsi che si aveva voglia di starlo a sentire per ore. In tempi di pensiero “fragile”, Boulez splende come un’adamantina eccezione.