Bruno Ruffilli, La Stampa 26/3/2015, 26 marzo 2015
PASTI GRATUITI E CUCINA CURATA. NEL MONDO DI GOOGLE SI MANGIA COSI’
Altro che panini mangiati in fretta e tazze di caffè da mattina a sera: nella Silicon Valley oggi il cibo è sano, buono, eticamente corretto. Agli eventi Apple si servono cocktail analcolici alla spirulina, yogurt integrale, frutta biologica, la mensa di Facebook compete con i migliori ristoranti macrobiotici, Google ha un responsabile per il cibo che arriva dalla catena di alberghi Starwood. Si chiama Michiel Bakker ed è a capo del Google Food Program, che ogni anno distribuisce più di 20 milioni di pasti negli uffici dell’azienda: oltre 75 mila persone servite ogni giorno in 50 Paesi di tutto il mondo. Ma in Italia i dipendenti di Google (e i loro ospiti) mangiano le stesse cose di Mountain View? «Sì e no», risponde Bakker. «Alla sede centrale di Google lavorano persone che arrivano da ogni parte del mondo, ci sono 30 caffetterie e abbiamo una grande varietà di cucine, offriamo qualcosa per ognuno».
Bakker non parla di mense, usa termini come bar, caffetteria, ristorante. E spiega che fin dagli inizi Google ha dato molta importanza al cibo: «I pasti sono gratuiti. Per noi è un costo ma il nostro scopo è rendere felici e più sani i nostri lavoratori. Ne ricava un vantaggio anche l’azienda, perché la risorsa fondamentale di Google è il talento di chi ci lavora, e vogliamo che questo talento rimanga con noi il più a lungo possibile». Così nei banconi di Mountain View (o di Milano, o Londra, o Madrid) si trovano cibi sani, di produzione locale, cucinati con cura. Per sceglierli c’è una guida: «I piatti sono identificati con dei colori. Al rosso bisogna stare attenti, col giallo è meglio non esagerare, del verde si può mangiare a volontà».
Trattandosi di Google, l’accento sulla tecnologia è inevitabile: per un certo periodo è stato possibile seguire i cuochi al lavoro attraverso i Google Glass, sono frequenti i gruppi di discussioni via Hangout e le lezioni di cucina online. Chi vuole, poi, può scegliere di condividere anonimamente i propri dati sanitari e prendere parte a programmi scientifici per avere indicazioni personalizzate basate sul menù del giorno: «Non obblighiamo a fare certe scelte ma le incoraggiamo. Il problema semmai è evitare gli eccessi, perché da noi si mangia davvero bene», scherza (ma non troppo) Bakker.
In un piatto non ci sono solo proteine, carboidrati e grassi, ma anche cultura: «La gente vuole sapere da dove proviene il cibo, quali sono i fornitori. Le questioni etiche sono sempre più importanti: come e dove un alimento viene prodotto ha il suo peso nella scelta di mangiarlo o no, perché quello che è sulla nostra tavola mostra chi siamo e chi vogliamo essere. Nessuno considera più il cibo soltanto un carburante».
Con l’esperienza del Food Program, Google potrebbe aprire al pubblico caffetterie e ristoranti e avviare un nuovo business, da affiancare magari a quello delle auto che si guidano da sole o dei robot personali. Se n’è parlato spesso, ma Bekker nega che al momento esistano piani in proposito, e invece spiega che enti e istituti di ricerca lavorano sui dati forniti da Mountain View per comprendere meglio il ruolo del cibo sui luoghi di lavoro. Non solo una pausa tra un compito e l’altro, ma anche una grande opportunità: «Abbiamo capito che quando più persone si riuniscono intorno a una tavola accade qualcosa di bello. In una caffetteria possono nascere per caso conversazioni interessanti, ci si scambiano più facilmente idee e conoscenze». Così, ad esempio, è stato concepito Gmail, il sistema di posta elettronica più usato al mondo.