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 2015  marzo 25 Mercoledì calendario

E QUESTO NON E’ UN FILM

Una gelida mattina di marzo, a Scampia, si aggirano un paio di cani randagi. Due povere bimbe si contendono un pattino e una scritta spalmata su un pilone fa l’effetto di una carezza, terminale: «Ciascuno cresce solo se sognato».
«It’s A Movie!», dice eccitato un giovane americano. In effetti è il set di un libro e di un film e anche di una serie televisiva di successo: Gomorra. Eppure questo non è un viaggio nel lato oscuro di Napoli. È una gita nell’anticamorra di una truppa di 35 studenti della New York University. Hanno 20 anni e stanno trascorrendo un semestre nel campus di Firenze della NYU, dove occasionalmente insegno giornalismo.
«Certo che ho un po’ di timore», mi dice una fanciulla di nome Thinh.
«Lo stereotipo di Napoli è pizza e mafia, no?».
L’idea del tour è di un criminologo siciliano di 32 anni, professore di Analisi comparata delle mafie. «L’obiettivo non è certo insegnare a studenti americani che cosa siano le mafie. Conoscono la follia omicida dei cartelli messicani e l’esistenza dei quartieri proibiti di molte metropoli statunitensi», mi spiega Salvatore Sberna. «Se il nostro Paese oggi ha un primato è quello dell’antimafia. Gli italiani stessi fanno ancora molta fatica a rendersene conto e spesso non riconoscono né l’impegno né i successi delle polizie, della magistratura, della società civile».

E così per un fine settimana ci aggiriamo per associazioni e centri sociali, ascoltiamo vittime e poliziotti e fantastici attivisti rappresentanti di un’Italia intrepida, che non si arrende.
Il primo appuntamento è sul lungomare di Napoli, nel Palazzo della Regione Campania.
«Buongiorno, sono Lorenzo Clemente, marito di Silvia Ruotolo, vittima della camorra», è l’esordio. L’uomo ha un volto da inca e lo sguardo di chi è andato oltre. Racconta pacato di una vita al Vomero, e di una sposa che un giorno del ’98 torna dal supermercato assieme al figlio Francesco di 5 anni. La figlia Alessandra li osserva dalla finestra e vede, vede la mamma afflosciarsi colpita a morte dalle pallottole vaganti dei killer.
«Da quel giorno, abbiamo saputo cos’è la camorra», spiega Clemente.
«La mia difficoltà quella mattina è stata salire le scale e guardare negli occhi i miei figli. Non sapevo che dirgli. Alla fine, l’unica risposta è stata la memoria. Soltanto se non si dimentica c’è la possibilità di un cambiamento».
Clemente spiega di come al lutto sia seguita la rabbia e la rabbia abbia preso la forma dell’impegno. Nel gennaio 2007, nasce un coordinamento di famiglie vittime della criminalità.
«Eravamo dieci. Prevaleva la paura. A Napoli purtroppo ci si ammazza anche per aver incrociato gli occhi di una ragazza. Oggi siamo cento. C’è stato un forte riscontro delle istituzioni».
Una studentessa alza la mano; chiede attraverso l’interprete come stia la figlia. «Quel giorno i miei due figli mi hanno preso per mano e siamo andati avanti. Chi ha sparato a mia moglie era cresciuto a Nisida, un carcere minorile. Bisognava andare lì per capire, e ci siamo andati».
Siamo negli uffici della Fondazione Polis, il cui segretario generale, Enrico Tedesco, dice non è un miracolo che non abbiano bestemmiato Dio? Che non siano scappati? Che siano qui, a insegnare nelle scuole i nomi degli innocenti ammazzati? «È questa la lotta alle mafie. Ognuno deve fare il suo pezzo di strada».
Tra gli altri miracoli, Tedesco cita la confisca dei beni alla camorra da parte dello Stato. «Si sono formate cooperative di ragazzi per gestire questi beni. Oggi, dove prima regnavano i clan si producono prodotti biologici di alta qualità».
Un ragazzo chiede: c’è stata resistenza da parte della camorra?
«Sì. Le coop hanno subìto diverse intimidazioni. Hanno divelto dei pescheti e incendiato un campo di grano».
Una studentessa indaga: ma lo Stato aiuta o collude?
Tedesco si schiarisce la voce.
«Lo Stato fa un gran lavoro», dice. E infine: «Poi forse anche nello Stato c’è un po’ di mafia».

Sul bus alla volta di Ercolano, Salvatore Sberna spiega che il paese a sud di Napoli è un modello da esportare; il Comune non fa pagare le tasse ai mercanti che denunciano il racket.
«La stagione felice» di Ercolano è recente. Fino al 2010 in corso Resina, davanti agli scavi, c’era una linea invisibile che divideva il territorio in due parti, alla Beirut: a nord il clan Birra, a sud la famiglia Ascione. In dieci anni, ci sono stati 75 omicidi e 70 tentati omicidi, e non era desueto che un panificio saltasse in aria, con il tritolo.
Radio Nuova Ercolano era la voce della banda dei Birra, e le canzonette erano usate per mandare messaggi ai detenuti nelle carceri di Secondigliano e Poggioreale.
Oggi, il boss Giovanni Birra è in galera e nella sua casa confiscata lottano i magnifici attivisti di Radio Siani. Gli eccessi dei clan, gli ammazzamenti, la crudeltà, tutto il corollario di una guerra spietata, ha animato la rivolta, complice un fortunato allineamento di pianeti. La popolazione era stanca. Al Comune c’era un sindaco perbene. Da fuori era arrivato un maresciallo cui affidarsi. In Procura c’era un magistrato che lavorava.
Tutto questo l’ho scoperto a margine della gita, parlando con barbuti carabinieri in borghese; e all’improvviso mi è stato chiaro che ciò che funziona nel contrasto alla guerriglia, funziona anche nella guerra alla mafia. A fare la differenza, diceva Sun Tzu, è il popolo. E il popolo, a Ercolano, sta con quelli di Radio Siani.
«Nel 2009, abbiamo organizzato la prima marcia di protesta nella storia di Ercolano», spiega agli studenti Carlo Russo, uno dei fondatori, un giovane di 30 anni che per campare, e finanziare la radio, fa il cameriere. «Una magia. Mille persone in piazza. Il risveglio delle coscienze. Qui il tasso di abbandono scolastico è altissimo e così anche la maternità infantile».
All’inizio Radio Siani aveva un solo programma, «un’insalatona di cose varie». Oggi ne trasmette 22, e il suo preferito, quello cult, è stato sulla vendita abusiva del pane la domenica. «Abbiamo scoperto che il pane era cotto in forni a legna e che la legna era di bare riesumate e rubate al cimitero».
Gli studenti, impilati sulle sedie, seduti per terra, addossati ai muri del piccolo studio, bevono ogni parola.
Uno chiede se ricevano minacce.
«Non ci piace parlare di ciò che subiamo ma di ciò che facciamo tipo il doposcuola ai bambini», risponde Russo. «Chi ci minaccia vorrebbe che se ne parlasse. Come farebbe altrimenti a diffondere la paura?».

Su corso Resina, tira un vento da tempesta polare. La truppa fa la fila per un caffè e Daniel, un gigante di 19 anni, di San Francisco, dice che a colpirlo è stato l’abbandono scolastico. «Se non li salvi dalla loro cultura e dalla droga, per i bambini non c’è niente da fare. La mafia diventa una seconda natura. È così importante dar loro nuovi valori, qualcosa di diverso da fare». Sospira. «Com’è diverso il Sud dal Nord d’Italia».

Eppure è forse nel Meridione più derelitto, quello delle Vele, i caseggiati popolari simbolo della camorra, che sono più agguerriti gli anticorpi al male. Questo paesaggio di cemento non è più il suq di droga a cielo aperto immortalato da Roberto Saviano. È sempre triste, ma un’operazione militare ha restituito il territorio alla gente. «Abbiamo fatto rete con la società civile», ci dice il commissario di polizia Cristiano Tatarelli. A Scampia ci sono 125 associazioni per 80.000 abitanti, e i camorristi sono in prigione. A Scampia c’è un viale della Resistenza e una piazza della Cittadinanza attiva, e un centro sociale che da 30 anni organizza il carnevale e disegna murales per combattere «il sonno della ragione che genera mostri» come ci dice Mirella La Magna di Gridas, il Gruppo del risveglio.
A Scampia, sono rimaste in piedi 4 Vele su 7, dove vivono ancora 300 famiglie. Gli attivisti che ci accolgono brandiscono rabbia e sigarette. «Sono nato e cresciuto in questo scempio», dice Omero. «Chiediamo la demolizione delle ultime Vele e alloggi decenti e investimenti. Qualcuno ci ascolterà?».
Gli studenti sciamano facendo foto, clic, clic, clic, all’improvviso consci del loro tremendo privilegio. Da un balcone, a una distanza siderale, un paio di fanciulle osservano gli americani in gita al Bronx di Napoli.
Mi colpisce un pensiero sospeso su un arco: «Quando la felicità non la vedi, cercala dentro». Calpesto una siringa; bambini si aggirano per le scale, funamboli nello sfascio.
Al ritorno sul luccicante lungomare di Napoli, Bryna del Massachusetts è sconvolta.
«Altro che l’Italia del Colosseo e dei gelati! Gente che vive in edifici abbandonati! E le scale che crollavano? C’erano bambini. E dov’è il governo?».
Seduta al suo fianco, l’amica Nicole, della Pennsylvania, annuisce.
«Dovremmo fare qualcosa. Mostrare che ci siamo. Dipingere murales o scrivere lettere ai politici».
«Mi piacerebbe fare qualcosa per i bambini», dice Bryna.
«Possiamo spargere la voce», dice Nicole.
«Potremmo parlare di Scampia in America», dice Bryna. «Comprare libri e quaderni e palloni da calcio e spedirli ai bambini».
«Sai qual è la cosa più spaventosa della mafia secondo me?», conclude Nicole. « È che i bambini non lo sanno. Non sanno di poter avere una vita diversa».