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 2015  marzo 26 Giovedì calendario

Notizie tratte da: Christian Salmon, La politica nell’era dello storytelling, Fazi editore 2014, pp

Notizie tratte da: Christian Salmon, La politica nell’era dello storytelling, Fazi editore 2014, pp. 119, 16 euro.

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La sovranità degli Stati è stata svuotata del suo contenuto dalla rivoluzione neoliberista e tecnologica dei mezzi di comunicazione, che ha sostituito al rituale delle apparizioni del sovrano la telerealtà del potere. L’uomo politico appare sempre meno come una figura autorevole e sempre più come oggetto da consumare; non tanto istanza produttrice di norme, quanto sottoprodotto della cultura di massa, artefatto a immagine e somiglianza di un personaggio di una serie tv.

Negli anni Ottanta Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito hanno progettato la fine dello Stato sociale e l’abbandono delle politiche keynesiane che avevano ispirato i governi occidentali dal dopoguerra in poi. Dagli anni Novanta a tale rivoluzione si è aggiunta quella digitale, con la TV via cavo e lo sviluppo di Internet, che hanno sconvolto la comunicazione politica. Da allora, la formazione di un nuovo idealtipo, ispirato ai valori manageriali del neoliberismo e della telepresenza permanente, spiega l’apparizione di una generazione di politici che va da Clinton a Sarkozy, passando per Bush figlio, Blair e Berlusconi.

La coppia potere-dispositivo di rappresentazione si è spezzata: da un lato, una burocrazia anonima e lontana (a Bruxelles o a Strasburgo), dall’altro uomini politici disarmati. Da un lato, decisioni senza volto; dall’altro, volti impotenti. Da un lato un’azione senza rappresentazione (percepita come non democratica); dall’altro, una rappresentazione senza potere.

Quando il re è nudo e il potere è impotente, in che consiste l’esercizio dello Stato, il governare, se non nel giocare con le apparenze? L’esplosione dei social network e dei canali all news ha polverizzato i tempi della politica. La corsa alla mobilitazione del pubblico si è accelerata e il giornalismo si è allontanato dalla missione originaria – l’inchiesta, il reportage, l’analisi politica – deviando verso una funzione di decrittazione delle apparenze della vita politica.

Una democrazia stregata ha sostituito il racconto all’azione, la distrazione alla deliberazione, la stagecraft (arte della messa in scena) alla statecraft (arte di governare).

La comunicazione politica non mira più solo a formattare il linguaggio, ma a incantare gli spiriti e sprofondarli in un universo spettrale di cui i politici sono allo stesso tempo performer e vittime. Sono loro a officiare la cerimonia cannibale che è diventata la vita politica.

28 agosto. Denver, Colorado. Al termine di una calda giornata estiva, gli elicotteri sorvolavano lo stadio Invesco. A poco a poco una folla variopinta e chiassosa s’impossessò del luogo; alcuni vivaci e allegri, come andassero ad assistere a una partita di baseball, altri concentrati, decisi a vivere fino in fondo quello storico momento. Molti erano muniti di T-shirt, spillette con l’effigie del candidato, cartelli con le scritte “hope” e “change”. Sulle gradinate sventolavano le bandierine americane scandendo lo slogan della campagna: “Yes we can”. Nelle tribune riservate alla stampa si accalcavano giornalisti e telecamere che ruotavano abbracciando la folla e zoomando sui volti, per offrire al popolo americano un’immagine sincrona dell’America.

La gestione dello stadio era costata 15 milioni di dollari. Una cinquantina di tecnici e settanta macchinisti locali avevano lavorato venticinquemila ore per costruire una scena immensa, concepita dai designer degli show di Britney Spears. Tre schermi giganti proiettavano le immagini della folla. Non doveva essere solo un grande spettacolo, ma una piattaforma interattiva a dimostrazione della potenza dei nuovi media e dei social network, con migliaia di metri quadrati con connessione Internet ad alta velocità a disposizione dei blogger, centinaia di cabine di upload video per inviare una testimonianza in diretta dell’evento. Calata la notte, i flash degli smartphone iniziarono a scintillare nell’oscurità.

La convention di Denver del Partito Democratico ha rappresentato un nuovo genere di performance al confine tra il concerto rock, l’incontro sportivo e la manifestazione religiosa. Era “la prima volta”. Che migliaia di persone si erano messe in fila per ascoltare il discorso d’accettazione di un candidato alla Casa Bianca. Che un raduno politico aveva scatenato un simile dispiegamento di mezzi tecnologici. Che una campagna politica era riuscita a combinare l’arte della messa in scena con la mobilitazione sul territorio di centinaia di migliaia di militanti. Che una convention democratica sceglieva un candidato nero con serie possibilità di essere eletto. Prendendo parte alla convention si diventava protagonisti di qualcosa di imminente e fatale.

La storia di Obama era leggenda. La sua personalità ibrida, dalle coordinate biografiche disperse, rappresentava una metafora delle nuove identità nell’epoca della globalizzazione. La campagna per la sua investitura aveva abilmente messo in relazione la sua vita con la grande storia americana, facendo della sua persona, frutto dell’amore tra una statunitense e un africano, il simbolo dell’identità americana ritrovata. Dopo l’11 settembre, i repubblicani avevano operato un capovolgimento degli ideal-tipi americani: criminalizzando l’immigrazione, limitando la libertà d’espressione, schiacciando l’identità sulla religione. Alla retorica dello scontro di civiltà dell’amministrazione Bush, Obama opponeva quella delle assonanze e della conciliazione, delle identità meticce e delle variazioni, l’identità aperta del migrante nell’epoca degli spostamenti diffusi. Con lui l’America ritrovava i punti di riferimento perduti dopo l’11 settembre: l’immigrazione, il viaggio, il melting pot, la frontiera come dimensione viva e positiva.

Nel 1960, alla convention democratica che l’aveva designato come candidato presidente, anche John F. Kennedy aveva raccolto i suoi sostenitori in uno stadio, il Los Angeles Memorial Coliseum. Tre anni dopo, è davanti al Lincoln Memorial, a Washington D.C., che Martin Luther King pronuncia il discorso “I have a dream”. L’investitura di Barack Obama come candidato democratico era all’altezza di questi precedenti storici, i soli cui meritava di essere paragonata, secondo gli organizzatori di Denver.

Barack Obama incarnava allo stesso tempo la funzione e la fiction presidenziale. Ogni frase del discorso di accettazione doveva risuonare nello stadio, dalla tv di ogni famiglia americana e sugli schermi degli smartphone. Doveva percorrere la distanza “dallo stadio alla sala da pranzo”. Il tono della voce e il ritmo delle frasi dovevano adattarsi ad acustiche diverse, circostanza che aveva richiesto ai fonici un lavoro certosino per modulare l’audio e ridurre l’eco tipica degli stadi. Lo stesso per l’immagine: la visibilità in uno stadio richiede che l’oratore sovrasti gli spettatori, col rischio di sembrare lontano, mentre la televisione ha bisogno di maggiore prossimità. Si scelsero angolature prospettiche per far apparire il candidato tra la gente, non al di sopra di essa.

Era la prima campagna politica dell’era digitale. Con i distributori di volantini c’erano i militanti di my.barackobama.com, gli attivisti di MySpace, i membri di Witts e gli youtubers. In Internet la campagna di Obama aveva suscitato una raccolta fondi senza precedenti e una partecipazione massiccia che aveva diffuso viralmente il messaggio e le storie del candidato.

Nulla era stato lasciato al caso, nemmeno la scelta del carattere tipografico: Hillary Clinton aveva scelto il New Baskerville, font utilizzato da editori, studi legali e università, mentre il repubblicano John McCain aveva optato per Optima, impiegato nel Vietnam Veterans Memorial. La squadra di Obama aveva adottato il Gotham, poco conosciuto, concepito nel 2000 dal designer Tobias Frere-Jones, che si era ispirato alle insegne dei vecchi edifici di Manhattan e alle affissioni della stazione della Port Authority sull’8th Avenue. Una combinazione di modernismo e nostalgia. Nel 2004 il carattere Gotham era stato scelto per il cartello che annunciava la costruzione della Freedom Tower sul luogo della tragedia del World Trade Center. Una tipografia di crisi nella quale si miscelavano la nostalgia, l’efficienza e il patriottismo. Un’alchimia rassicurante.

Se l’obamamania si è dissipata subito dopo l’elezione, la campagna del 2008 rimane una fonte d’ispirazione per i consulenti politici europei. In Francia, da allora, molti responsabili del Partito Socialista sono andati in pellegrinaggio a Washington; in Spagna José Luis Zapatero ha consultato a più riprese il linguista americano George Lakoff che ha contribuito, dopo il 2004, a rinnovare il vocabolario del Partito Democratico. Nel corso della sua campagna del 2013, Mario Monti, dato ai minimi nei sondaggi, si è rivolto a David Axelrod.

A lungo si è ritenuto che le elezioni si vincessero o perdessero per ragioni strutturali, demografiche, economiche. “È l’economia, stupido”, slogan della campagna di Bill Clinton del 1992, è diventato un cliché degli addetti alla comunicazione. Anche se la situazione economica è un elemento che pesa nella scelta degli elettori, ci sono prove, come la rielezione di Reagan nel 1984 o la disfatta di Al Gore nel 2000, a suggerire altri fattori decisivi. Nel 2012 Stanley Greenberg, autore della formula “It’s the economy, stupid”, ha aggiornato lo slogan: “It’s the middle class, stupid”.

Dire che la classe media sia l’arbitro delle elezioni è impreciso. Quale classe media? Lo stesso vale per le classificazioni demografiche dell’elettorato in base all’origine etnica, al colore della pelle o a qualsiasi altro carattere identitario. Se il voto dei neri ha giocato un ruolo nell’elezione di Barack Obama, va anche ricordato che, alle primarie democratiche 2008, ha vinto contro Hillary Clinton nell’Iowa, uno stato “bianco”, e ha perso in California, stato multirazziale. Non è l’economia né la classe media a decidere il vincitore di un’elezione, ma la riuscita di una performance, il modo in cui si ottiene, da parte dell’elettorato, un’identificazione simbolica con il candidato attraverso le metafore utilizzate, lo sviluppo di un racconto e il controllo della ricezione e diffusione di esso sui social network. “È la performance, stupido!”.

Dal 2007 in poi, lo storytelling, l’uso del racconto ai fini della comunicazione politica, ha dato vita a una concezione strumentale della storia personale dei politici con l’obiettivo di stabilire una connessione con l’elettorato. Una campagna elettorale ha luogo su una scena in cui ognuno può intervenire, impiegare un linguaggio persuasivo e interagire in una camera d’eco in cui si producono effetti performativi complessi, che hanno a che vedere con il racconto ma anche con le forme retoriche della persuasione e i dispositivi scenografici. Nella campagna presidenziale americana del 2008 si è assistito allo scontro non solo di due storie, ma di due età e di due culture politiche: da un lato McCain e la galassia Gutenberg, con i suoi eroi d’inchiostro e carta, dall’altro Obama e il pianeta Internet.

Ciò che ha determinato il successo di Obama non è solo la storia che ha raccontato agli elettori, è una performance complessa, tra rituale e strategia, capace di connettere il candidato all’elettore.

Per Jeffrey Alexander le campagne politiche si svolgono al confine tra pubblico e privato, politica e morale, e chiamano in causa degli habitus socioculturali più che delle ideologie. Nel 2008, durante la campagna di Obama, ha condotto dei sondaggi che gli hanno permesso di elaborare una teoria della performance politica: i candidati lottano per “diventare rappresentazioni collettive”, “sono le identificazioni simboliche, le metafore, i fili narrativi” a determinare il vincitore di un’elezione. Per riuscire, questo tipo di performance narrativa deve sincronizzare quattro aspetti: l’uso del racconto politico (lo storytelling) ma anche la sua messa in scena, l’effetto subliminale del vocabolario impiegato, ma anche il sistema di immagini e di metafore, la gestione strategica dell’agenda mediatica, che deve obbedire alle leggi della tensione narrativa, l’effetto di contagio provocato dall’uso strategico di Internet e dei social network.

Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, è stato reclutato nel 2013 dalla Casa Bianca in veste di consigliere per la comunicazione e “alto commissario per la vita privata”.

Jeffrey Alexander ha descritto la campagna del 2008 come una successione di sorprese, di colpi di scena, sferzate performative riassumibili in tre battaglie “omeriche”: “la metafora della celebrità”, “l’effetto Palin”, la crisi finanziaria e il fallimento della banca Lehman Brothers. Dopo il successo del tour europeo di Barack Obama, alla fine di luglio, McCain ha rigirato la situazione in suo favore, descrivendo il viaggio come la tournée di una rockstar e non come quella di un futuro presidente. È servita la convention di Denver per restaurare l’immagine presidenziale di Obama. Ma a fine agosto, McCain sferra un altro colpo: la scelta di Sarah Palin come candidata alla vicepresidenza. A Obama il valore del gesto non sfugge: “Palin è una storia”, commenta, lasciando intendere che la candidata è un’eroina della telerealtà. Madre di famiglia e sexy, mamma e macho, suor Sarah e amante Palin. Ma l’effetto Palin ha avuto vita breve, spazzato via dall’irruzione nella campagna del fallimento della Lehman Brothers. La crisi finanziaria ha giocato in favore dell’agenda di Obama, fornendo un orizzonte d’aspettativa al suo programma, che invocava maggiori interventi da parte dello Stato, e ha anche smentito l’ottimismo di McCain, che aveva affermato che i fondamentali dell’economia americana erano solidi.

La conquista dei cuori attraverso discorsi ispirati ha preso una piega strategica, poiché queste narrazioni non sono più dispensate al popolo dall’alto, ma sottoposte a un’incessante reinterpretazione da parte di media e social network. Si diffondono come un mormorio nelle chat, sotto forma di parodia e di satira, tramite SMS e post; circolano nei blog, in Facebook, Youtube, Twitter. L’homo politicus non è più il solo narratore che può proporre una storia; ci sono i media, i partiti di opposizione e gli internauti che, postando commenti e tweet o scrivendo nei blog, interagiscono con i suoi racconti. Lo storytelling si inserisce in un dispositivo che sottomette ciò che si presenta nella sfera pubblica a un obbligo di performatività.

L’ipermobilitazione del pubblico è controbilanciata da fasi di ricaduta, dal crollo degli indici di ascolto, dalla depoliticizzazione. Se si stimola eccessivamente il pubblico, il politico si espone a una sorta di effetto feedback post elettorale sotto forma di delusione o disincanto. Il ritmo sovreccitato delle campagne non resiste a lungo al piattume dell’ordinaria amministrazione.

Guardiamo la vita politica e i suoi attori con occhi nuovi: la curiosità per i dettagli (la capigliatura di uno, il jeans dell’altro, il confronto delle altezze nella foto del Consiglio dei ministri) cresce con la magia degli inizi. I nuovi eletti si affollano maldestramente sul proscenio, avanzano insicuri sui tappeti rossi, si barcamenano nel difficile apprendimento del protocollo. Ma preferiamo l’ingannevole innocenza dei debutti alle delusioni di fine mandato.

I primi passi di François Hollande non sono sfuggiti a questa regola. L’abbiamo visto gettarsi tra le braccia della folla come un bambino che si lancia contro i flutti per poi ritrovarsi fradicio sul bagnasciuga. In volo verso Berlino è stato costretto a cambiare velivolo dopo che l’aereo presidenziale era stato colpito da un fulmine, poi, titubante sul tappeto rosso, lo abbiamo seguito guidato da Angela Merkel e a Washington, al G8, accolto da Barack Obama come una matricola.

“Sta accadendo qualcosa qui”, ripeteva Barack Obama nel 2008, “ma voi non sapete cosa sia”. Si chiama “stato di grazia”, una forma di benevolenza nei confronti del nuovo eletto. I media e i social network contribuiscono a creare questo clima favorevole all’alternanza.

Dopo l’annuncio della vittoria del candidato socialista francese, France2 ha messo a punto una performance televisiva: sullo schermo Thomas, figlio del neo presidente, in diretta dalla sede del Partito Socialista, riceveva una telefonata del padre, ancora nel suo seggio di Tulle, sotto lo sguardo amorevole della madre, Ségolène Royale, ex candidata del 2007, ospite nello studio di France2. Questa sincronizzazione che riuniva padre, madre e figlio in tre luoghi diversi, trasformava un evento politico in una success story familiare.

Vicino e lontano, sovrano e accessibile. Sotto la lente delle telecamere il candidato si estende, s’innalza fino a incarnare la sua funzione, ma deve anche rimanere vicino alla “gente”. Viene toccato, si concede ai fans, firma autografi, stringe mani, si lascia fotografare. I media intervistano i suoi vicini, frugano nei suoi cassetti, sfogliano l’album di famiglia.

In Spagna, il matrimonio del principe ereditario con un’ex giornalista televisiva ha fatto entrare la monarchia nella modernità mediatica. La discendenza si è alleata alla notorietà per dare vita a una nuova aura in cui si fondono investitura mediatica e consacrazione monarchica. L’elezione o la discendenza ereditaria non bastano più a legittimare il sovrano; le vecchie istituzioni del potere, svuotate del loro contenuto nel gran bazaar dei media, hanno bisogno di ricaricarsi connettendosi a nuove fonti di legittimità, alleandosi a figure popolari del mondo dello sport, dello showbusiness, del cinema o del giornalismo.

La politica non si riduce a leggi e decreti. Ha bisogno di forme e di figure, gesti e corpi. Non c’è politica senza un regime estetico, un insieme di percezioni, sensazioni e affetti. Il grande racconto della sinistra, con i suoi cortei di manifestanti, le bandiere rosse, i pugni alzati e la rosa nel pugno brandita come un emblema del cambiamento, non è più di moda. La lunga marcia verso il progresso si è interrotta. La sinistra ha smesso di promettere “il sol dell’avvenir”; il cambiamento si coniuga al presente: “Yes we can”.

Le campagne elettorali in Spagna (novembre 2011) e in Italia (febbraio 2013) lo hanno dimostrato, l’obbligo della performance mette fuori gioco i punti di riferimento ideologici che ancora ispirano il giornalismo politico dominante. Conferisce alle campagne il ritmo e la forma di una sequenza di colpi performativi che hanno la capacità di focalizzare l’attenzione e di provocare epidemie mediatiche.

Nella drammaturgia delle campagne i sondaggi non sono più mero calcolo statistico, ma devono ritmare la tempistica, rendere credibili i diversi scenari possibili, rilanciare l’attenzione, strutturare le attese e orientare gli umori. Se li seguiamo non è per il valore informativo o predittivo, ma per la loro funzione drammaturgica. Sono acceleratori di intreccio. Stuzzicano la curiosità degli elettori, creano la suspense e la sorpresa.

Con la disfatta elettorale di Sarkozy, un certo regime politico è giunto al termine. Ciò coincide con la fine dei trent’anni di egemonia ideologica del neoliberismo. È allo stesso tempo la fine di un regime nel senso politico-istituzionale, ma anche l’esaurimento di un certo regime di “fiducia” nella politica, ovvero il fare affidamento agli uomini e alle istituzioni. Questa perdita di fiducia è legata a due fenomeni: la relativa impotenza degli Stati di fronte alla crisi del 2008 e l’iper presenza mediatica dei governanti e il loro tentativo di controllare l’agenda per “romanzare” l’azione politica. È questo doppio fenomeno che spiega la sconfitta di Sarkozy. L’UMP ha messo in scena un conflitto d’ambizioni, una contesa tra due stili o due temperamenti, occultando la profonda frattura che esiste tra una destra neoconservatrice che flirta con il populismo montante in tutta Europa e un gollismo sociale ormai senza più storia. La destra è schiacciata tra un passato glorioso, il grande racconto di De Gaulle, e un avvenire elettorale ormai in balia della spinta del Fronte Nazionale.

Nicolas Sarkozy è entrato in campagna elettorale pubblicando una Lettera al popolo francese, come aveva fatto Mitterrand. Ma è il campo lessicale a rivelare la distanza tra i due: la parola “confini” appare nella lettera di Sarkozy una ventina di volte, mentre è citata da Mitterrand soltanto quattro. La parola è inserita da Sarkozy in un tessuto lessicale coerente: i vocaboli più impiegati sono “protezione”, che ritorna 39 volte, “globalizzazione”, “territorio”, “identità” e “immigrazione”. Tutte queste parole delimitano un campo lessicale che associa al concetto di confine una sintassi della minaccia, del pericolo esterno, dell’invasione. Contrappone coloro che meritano di essere protetti agli emarginati, chi ha diritto di cittadinanza a chi andrebbe deportato “ai confini”.

I neoconservatori hanno fatto dei “muri” una visione del mondo, Sarkozy ne ha fatto uno slogan. Nella sua campagna, il confine non è solamente territoriale, è morale: distingue il bene dal male, ciò che va fatto da ciò che non si può fare, noi e gli altri, il dentro e il fuori, l’intimità e la sfera pubblica, l’identità e l’alterità.

“L’Europa ha un’identità”, afferma Sarkozy. “Le sue radici affondano prima nella cultura greco-latina, poi in quella giudeo-cristiana e infine nella cultura dei Lumi e nel razionalismo”. Ma l’eredità europea va ben oltre queste tre matrici. La cultura europea, troppo spesso percepita come un insieme omogeneo di valori, norme, stili di vita, è intessuta di differenze culturali, linguistiche, religiose. Se l’Europa ebbe accesso alla filosofia greca fu in parte grazie all’intermediazione dei traduttori ebrei di Toledo, che l’hanno trascritta dall’arabo. Se Dante non avesse attinto alle fonti musulmane, non avremmo La Divina Commedia.

Dalla decisione di creare un ministero dell’Immigrazione e dell’identità nazionale, che nel 2007 gli ha permesso di “travasare” le istanze del Front National, fino all’intenzione, espressa nella campagna del 2012, di ridurre della metà il numero degli immigrati legali e rinegoziare gli accordi di Schengen, il volontarismo di Sarkozy, discreditato da una serie di fallimenti e smentito dal vigore della crisi finanziaria, non ha trovato altro campo d’applicazione che la politica migratoria.

Secondo tutti i sondaggi, le maggiori preoccupazioni dei francesi erano la crisi, il debito, la disoccupazione e il potere d’acquisto. Sarkozy ha fatto la sua campagna su confini, stranieri, immigrati. Per Jacques Rancière “gli Stati che hanno dimostrato incapacità di lottare contro gli effetti destabilizzanti della libera circolazione dei capitali, prendono come oggetto specifico il controllo di quest’altra circolazione (quella delle persone) e come obiettivo la sicurezza dei connazionali minacciati da quei migranti”.

A un mese dalle elezioni, una serie di omicidi ha luogo a Tolosa. Il presunto colpevole, fermato nel suo appartamento, è Mohamed Merah. Il circo mediatico si è impossessato del caso per rilanciare una campagna elettorale a corto di di colpi di scena: la campagna di Nicolas Sarkozy aveva trovato la sua linea narrativa e il suo centro di gravità nella persona del presidente, protagonista e regista. Mai il ministro dell’Interno era stato così convincente nel ruolo di primo poliziotto di Francia come quando lo vedemmo risalire a passo lento, circondato da una schiera di ufficiali di polizia, una stradina di Tolosa dove lo attendevano i giornalisti, cui rese il racconto dell’assalto finale, a voce bassa, umilmente, come chi si limita a fare il proprio dovere, un artigiano dell’antiterrorismo.

Nel corso della campagna presidenziale il popolo francese si è scoperto nostalgico di parole come “condivisione”, “solidarietà”, persino “amore”. Le manifestazioni organizzate dal Fronte di Sinistra davanti alla Bastiglia, al Capitole di Tolosa e al Prado di Marsiglia hanno superato, per numero di partecipanti, il raduno democratico di Denver dell’agosto 2008. Il grande merito del Fronte di Sinistra è stato quello di passare dal linguaggio del potere a quello poetico, che anticipa un cambiamento dei rapporti tra le persone. È una forma di alchimia che fa sì che un insieme di cause irrazionali trovino un’espressione politica adeguata, una sintassi e un racconto in cui si riconosce una maggioranza.

Nel 2012, Obama confida al giornalista della CBS Charlie Rose che “l’assenza di un racconto efficace aveva costituito uno dei più grandi errori del suo mandato. Ho pensato che bastasse fare una buona politica, ma la natura della funzione presidenziale esige che si proponga un racconto al popolo americano”.

Ira Chernus, professore all’Università del Colorado, ha denunciato quella che chiama la “strategia di Sheherazade”, messa in piedi da Karl Rove, consigliere di George W. Bush: “Quando la politica ti condanna a morte, comincia a raccontare delle storie così favolose, accattivanti e ammalianti che il re dimenticherà la tua condanna capitale”. “Karl Rove”, spiega Chernus, “ha scommesso che gli elettori sarebbero rimasti ipnotizzati da storie in stile John Wayne, con i veri uomini che combattono il nemico alla frontiera”.

Sul modello americano, le campagne elettorali sono diventate dei “festival di narrazione” durante i quali si affrontano i personaggi più che le ideologie, e in cui l’elezione sanziona l’efficacia della performance di un attore/candidato, la sua capacità di catturare l’attenzione e suscitare emozioni, piuttosto che le sue competenze o l’esperienza.

Negli anni Ottanta la sinistra non aveva bisogno di storytellers per confezionare racconti. Le sue coordinate si inscrivevano nella storia: la Comune di Parigi, la Rivoluzione d’ottobre, il Fronte Popolare... Di fronte a questa sinistra visionaria, il capitalismo era muto. Il mondo degli affari non brillava per i suoi racconti, tra calcoli, tasso di crescita, inflazione, costo delle materie prime. Il capitalismo industriale coltivava sì qualche leggenda: il mito fondativo delle origini, i cavalieri dell’industria, i racconti della guerra economica, gli imperi coloniali. Ma la merce e il denaro non hanno carattere narrativo. Non hanno niente da raccontare.

Durante la crisi degli anni Trenta, l’amministrazione Roosevelt aveva inviato ai quattro angoli dell’America in crisi dei “commissari” particolari: Nelson Algren, Jack Conroy, Ralph Ellison, John Steinbeck, Richard Wright, Saul Bellow, ma anche Walker Evans, Dorothea Lange... centinaia di scrittori e fotografi che hanno cambiato l’immaginario degli Stati Uniti.

Nello spazio saturo d’informazioni, ogni notizia per raggiungere il suo bersaglio deve presentarsi sotto forma di storia, di fiction. Bisogna connettersi al pubblico, che è la forma spettrale del popolo assente.

“Quando ci si trova in una sequenza emotiva si diventa intoccabili come la Santa Vergine”.

Basta guardare la foto ufficiale dei presidenti francesi nei municipi per osservare il fenomeno di spoliazione simbolica della figura del monarca. De Gaulle e Pompidou portavano la collana della Légion d’honneur. Mitterand aveva scelto come fotografa ufficiale Gisèle Freund, fotografa di James Joyce, Chirac optò per Bettina Rheims, celebre per le foto di nudo. La scelta di Nicolas Sarkozy è ricaduta su Philippe Warrin, il fotografo dei reality Loft e Star Academy.

Incarnare la funzione. I candidati, come modelli del potere, si prestano a un carnevale delle apparenze. Alcuni gonfiano il petto, altri rallentano il passo. Quello conosciuto come sorridente e scherzoso ora si compone assumendo un’aria da becchino. “Ha iniziato la muta”, commentano gli editorialisti.

Una nuova montatura per gli occhiali e una consistente perdita di peso erano stati i segnali della volontà di Hollande di candidarsi.

Dagli anni Novanta, la nascita di un nuovo idealtipo politico ispirato ai valori manageriali del neoliberismo e alla telepresenza imposta dall’esplosione dell’offerta mediatica spiega l’apparizione di una nuova generazione di politici, portatori di un’identità politica vaga e di parole d’ordine meno legate a un programma che a una riconoscibilità del marchio: Forza Italia di Silvio Berlusconi, Cool Britannia di Tony Blair, Una España mejor di Zapatero, persino una semplice lettera, come la “O” di Obama o la “Z con Zapatero”.

La virtù non risiede più nella conformità alle regole, ma nella flessibilità: l’attitudine a cambiare rapidamente tattica e stile, ad abbandonare senza rimorsi i propri impegni e le proprie fedeltà. La sfida non è più restare se stessi in un ambiente mutevole, ma cambiare e adattarsi alle circostanze fluttuanti.

Non è più l’uniforme né il rituale delle sue apparizioni a legittimare l’autorità del governante, è il corpo stesso a essere sottoposto a una messinscena che si ripete in ogni istante. Corpo slanciato ed elegante di Obama. Torso nudo di Putin. Corpo sudato e agitato di Sarkozy. Corpo abbronzato di Berlusconi, diventato spettrale a colpi di chirurgia estetica. Corpo indebolito di Chirac. Corpo smagrito di François Hollande.

Nel giugno 2009, François Hollande iniziava la marcia verso la candidatura alla presidenza della Repubblica. Il suo programma? Una “nuova modestia” in opposizione allo splendore di Sarko. Un candidato “normale” contro le stravaganze, le trasgressioni del presidente in carica e del suo potenziale rivale, Strauss-Kahn. “Semplicità”, “sobrietà”, “magrezza”, ecco la linea dell’hollandismo.

In seguito i leader europei hanno tutti adottato la “linea Hollande”, un ethos di crisi che forse non è altro che una forma di educazione nei riguardi del popolo. Dopo gli eccessi barocchi del berlusconismo in Italia, la fiesta zapaterista in Spagna, e l’ipersarkozysmo in Francia, la nuova tendenza è stata il “ragioniere con occhiali”. Monti in Italia, Rajoy in Spagna, Hollande in Francia...

Il corpo del sovrano non deve più riflettere la continuità del regno. Deve cambiare senza sosta, esercitarsi, configurarsi per essere capace di attirare l’attenzione. La credibilità dei governanti è diventata sinonimo di flessibilità, di adattamento. Il corpo politico neoliberista deve incarnare il carattere precario, effimero, nomade, passeggero di ogni attività o costruzione. Sarà modellabile a piacimento, capace di cambiare stile e look incessantemente, in un morphing politico permanente. E per questo serve restare magri. Una magrezza sinonimo di adattabilità e flessibilità e strumentale alla crisi: come predicare il rigore con un doppio mento?

L’esercizio del potere, privato dei mezzi di intervento e affrancato dalle procedure democratiche della deliberazione e della decisione, s’identifica con la possibilità, offerta dalle neuroscienze, di agire direttamente sui cervelli e con la riuscita di una performance complessa in cui le arti del racconto e le leggi della retorica si combinano alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. La scena politica muove dai luoghi della deliberazione e della decisione (forum cittadini, incontri di partito, assemblee elette, ministeri) verso nuovi spazi di legittimazione (TV, media e Internet).

Fingiamo di interessarci alla crisi, al debito, alla disoccupazione, quando siamo assetati di storie, eroi e cattivi. Seguiamo le campagne come una successione di episodi intriganti, un reality show permanente di cui i sondaggi e l’auditel misurano il successo. Esigiamo della suspense, dei colpi di scena, e rivendichiamo la nostra dose di emozione.

I politici sono diventati personaggi del nostro immaginario quotidiano, figure effimere delle nostre democrazie mediatiche. Li vestiamo come avatar di Second Life o personaggi Playmobil. Consumiamo i nostri presidenti e li gettiamo dopo l’uso. Non ci facciamo nessuna illusione sulla loro capacità di domare la crisi, quello che gli domandiamo è di incarnare un intreccio capace di tenerci sulle spine. Molto più che della nostra fiducia, devono mostrarsi degni della nostra attenzione, all’altezza della storia.

Per Elizabeth Drew, biografa di Bill Clinton, gli sforzi di mostrarsi vicino alla gente, di essere accessibile, si sono ritorti contro di lui. Era ormai così noto che, quando veniva trasmesso in TV, la gente negli aeroporti non si fermava nemmeno più a guardarlo. Clinton, che ha confidato a MTV di preferire gli slip ai boxer, è stato il primo a subire gli effetti corrosivi di questa ipermedialità.

Cerchiamo racconti intimi, sorprese, rivelazioni. L’obiettivo degli esperti di comunicazione politica è sincronizzare e mobilitare le emozioni. Votare è comprare una storia. Essere eletto è essere creduto. I dettagli nauseanti sono apprezzati. Una certa volgarità è persino incoraggiata, rende autentiche le confessioni.

Ombre e luci. Grandeur e decadenza. Trasgressione e pentimento. Dal caso Lewinsky a quello Nafissatou Diallo, dalle serate “bunga bunga” di Berlusconi alle orge con tariffario del Carlton di Lille, le cronache giudiziarie non fanno luce solo sulla depravazione degli individui, ma su un idealtipo: la sperimentazione di sé deve essere portata avanti fino alla rottura. Il corpo dei potenti, consegnato alla voracità dei media e del pubblico, compie una desimbolizzazione accelerata, una demistificazione inesorabile.

Il successo di Beppe Grillo e del Movimento 5 Stelle alle elezioni italiane del 2013 testimonia che i partiti tradizionali sono minacciati dalla sparizione. L’homo politicus sparisce. Non di straforo, non in modo lento e impercettibile come l’estinzione di una specie. Sparisce sotto gli occhi di tutti, al colmo della sua esposizione mediatica, per una sorta di divoramento.
(a cura di Paola Fusco)