Mara Accettura, DLui, la Repubblica 21/3/2015, 21 marzo 2015
LA MIA FORTUNA SI CHIAMA WHATSAPP
«Sinistro, destro, sinistro... difesa!»: stessa sequenza per 33 volte di seguito, forse anche più. Ma Jan Koum, l’inventore di WhatsApp – l’applicazione per far dialogare i cellulari che con 700 milioni di appassionati che la usano è diventata praticamente il più grande social network del mondo – non dà segno di annoiarsi. Tira di boxe mentre Kanye West urla da un’obsoleta mega-radio portatile: «Work it, make it, do it! Make us harder, better, faster, stronger!» .
La scena è quella di una palestra di San Jose, California dove Jan va ad allenarsi tre o quattro volte alla settimana con un coach che sembra uscito da Fight Club, uno dei suoi film preferiti. È concentrato, lento ma potente, attento a correzioni e consigli. «Mi piace fare una cosa alla volta», spiega, come assaporando la provocazione anacronistica in tempi di multitasking. «E farla bene». Senza dubbio nessuno potrà accusarlo di avere fatto un solo passo falso con la sua creatura, quella WhatsApp venduta a Mark Zuckerberg per 19 miliardi di dollari un anno fa, nel febbraio 2014, pochi giorni prima del suo 38simo compleanno.
Per firmare quel contratto multimiliardario. Koum scelse uno sfondo significativo: la facciata del palazzo (ormai in disuso) che ospitava i North County Social Services di Mountain View, nella Silicon Valley californiana. Una ventina d’anni fa, infatti, Koum frequentava questo stesso edificio per ricevere sussidi di disoccupazione e buoni pasto. La sua storia, ironizza oggi, avrebbe dovuto scriverla John Steinbeck, cantastorie di derelitti e lavoratori stagionali che intraprendevano il “viaggio verso ovest“ in cerca di un futuro migliore ai tempi della Grande Depressione. A Mountain View Jan Koum arrivò dall’Ucraina non dalla costa est Usa. In aereo e non a bordo di un treno merci preso in corsa senza pagare il biglietto. Ma pur sempre in condizioni disagiate. L’imprenditore a tanti zeri è nato e cresciuto in un villaggio rurale alle porte di Kiev, in una casa senza acqua calda che divideva con la madre casalinga e il padre, capomastro edilizio. «E, ironia della sorte, anche se avevamo la fortuna di avere un telefono, di quelli attaccati alla parete, non lo usavamo quasi mai per paura che fosse controllato». Quando il clima politico e l’antisemitismo montarono ulteriormente, uno Jan sedicenne e sua madre decisero di partire per la California. Il padre avrebbe dovuto raggiungerli, ma non accadde mai. Morì senza i suoi cari in Ucraina, nel 1997.
«Mia madre sognava che io avessi un’istruzione. Mise in valigia più quaderni e penne che abiti o scarpe. Talmente tanti che li uso ancora per prendere appunti per i progetti importanti». Per esempio, pare, per il primo abbozzo di WhatsApp.
«Mi porto sempre dietro uno di quei quaderni quando incontro Brian (Acton, il socio cofondatore, ndr) al Red Rock Café, praticamente la nostra sede distaccata. I nuovi uffici saranno alloggiati in un palazzo di tre piani, che quest’estate accoglierà uno staff di cento persone. Ma non credo che metteremo un’insegna neanche alla nuova sede», aggiunge divertito. «Sappiamo dove lavoriamo e ce la facciamo a trovare il posto al mattino anche senza cartelli».
Il contratto firmato con Facebook gli assegna uno stipendio da un milione di dollari all’anno, ufficialmente una “busta paga” pari a quella di Zuckerberg, e Jan in cambio deve occuparsi soprattutto di migliorare il prodotto, studiando tecnologie e piattaforme e risolvendo le difficoltà tecniche. «Per fortuna Zuckerberg non è interessato solo a generare profitti nell’immediato. Non c’è niente di più deprimente che doversi occupare di rastrellare pubblicità», afferma coerente con la linea di rifiuto di ogni forma di sponsorship seguita dalla sua WhatsApp sin dalla nascita nel 2009.
Eppure lui e Brian Acton si conobbero proprio grazie alla pubblicità. O meglio, grazie alla necessità di Yahoo di analizzare il sistema adottato per raccogliere inserzioni. Koum lavorava come security tester per l’agenzia Ernest & Young, annoiandosi a sufficienza, confessa. Sei mesi dopo accettò un posto da ingegnere a Yahoo. «Stavo ancora battagliando con l’idea di laurearmi, frequentando corsi all’università di San Jose. David Filo, co-fondatore di Yahoo, aveva invece altri piani per me. Poco male, ho sempre odiato la scuola!». Infatti, tutto quello che sa di computer dice d’averlo imparato su libri usati che comprava con i soldi guadagnati lavando i pavimenti di un minimarket di quartiere. La madre, che all’inizio lavorava come baby-sitter, si era ammalata di cancro ed era Jan a doversi occupare della famiglia.
Acton e Koum divennero un team. Negli anni seguenti aiutarono a lanciare la famosa piattaforma pubblicitaria di Yahoo, Progetto Panama. «Ma sai benissimo che non farai mai niente di veramente utile o piacevole per l’umanità occupandoti di annunci e spot. Non contribuisci di certo a migliorare la vita di nessuno», conclude con quello stesso stile minimalista che nel suo profilo su Linkedln gli fa liquidare l’intera esperienza dei suoi tre anni a Yahoo con tre parole esatte:«Did some work». Ho lavorato un po’.
«Nel 2007 eravamo entrambi cotti. Emotivamente prosciugati. Ci licenziammo e decidemmo di prendere un anno sabbatico per decomprimere. Anzi, veramente prima ci candidammo entrambi per lavorare a Facebook, ma venimmo scartati». Un errore che costerà caro a Zuckerberg. Nel frattempo Koum e Acton viaggiarono per il Sudamerica e giocarono interminabili partite di Ultimate frisbee. I risparmi si assottigliavano (Jan comunque aveva accumulato un gruzzolo di 400mila dollari negli “anni della noia”), ma non era preoccupato. «Poi nel gennaio del 2009 comprai un’iPhone. Mi resi subito conto del suo immenso potenziale: il neonato Apple Store stava per lanciare un’intera nuova industria di applicazioni. Cominciai a giocare con il mio indirizzario e a immaginare l’idea di avere degli “status” vicini a ogni nome per comunicare che cosa stavi facendo, se eri impegnato con un’altra telefonata, in bagno o in palestra. O se la tua batteria andava ricaricata».
Koum, però, non era un programmatore. Ne trovò uno in Russia tramite RentACorder.com, un tale Igor Solomennikov. Nel frattempo passava le giornate a scrivere su uno dei quaderni dell’era sovietica portati dall’Ucraina dalla mamma, cercando di sincronizzare la nascente applicazione con tutti i numeri di telefono esistenti nel mondo, utilizzandola pagina di Wikipedia per i prefissi internazionali. «I primi mesi furono belli tosti», dice oggi. «Non funzionava come avrebbe dovuto, le difficoltà tecniche erano immense e fui sul punto di lasciar perdere tutto».
Un bell’aiuto venne da Apple che lanciò le prime pushing notifications, e Koum adottò subito il nuovo suono “ping” per segnalare a chiunque nel proprio network un cambiamento di status. «E a un certo punto, senza intenzione. WhatsApp (battezzato così proprio dall’esclamazione “what’s up”, “che succede?”, ndr) diventò un servizio di messaggini gratuito. Non ne esisteva ancora nessun altro. Riuscire a raggiungere qualcuno dall’altra parte del mondo su uno strumento portatile e tascabile come un telefono, e senza pagare tariffe esorbitanti per ogni testo, era un’incredibile opportunità. Potenzialmente rivoluzionaria». E rivoluzione fu.