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 2015  marzo 24 Martedì calendario

QUELLA VOGLIA DI IRI PER RILANCIARE GLI INVESTIMENTI NEL PAESE

Quando c’era l’Iri «c’era una scuola dirigenziale sistemica», dice Prodi. C’era, soprattutto, chi era in grado di approntare una efficacissima strategia per la crescita, quale fu nel ’48 il piano Sinigaglia. L’Iri è morta non per fare cassa e ripianare il debito pubblico, ma per sottrarre alle grinfie dei partiti il volano della ricostruzione e del boom economico. L’Italia ha buttato con l’acqua sporca anche il bambino. Spirava una non nostalgica voglia di Iri ieri all’Accademia dei Lincei (creata dal Galilei per riunire quelli che hanno lo sguardo lungo delle linci) per il convegno convocato da Pierluigi Ciocca, al termine di una ricerca che ha sviluppato 6 tomi Laterza: se Mussolini nell’inventarsela diede a Pasquale Saraceno la consegna «fate qualcosa per queste imprese», qualcuno oggi dovrebbe occuparsi della politica industriale di un Paese che ha avuto produttività a livello dei picchi mondiali e oggi è sotto di 20 punti a Germania, Francia e Regno Unito. Sintetizza Ciocca che l’Iri ebbe «accettabile produttività nei Trenta, discreta nella ricostruzione, eccellente nel miracolo economico, cattiva nei Settanta, buona negli Ottanta, pessima nei primi Novanta». Arrivò, nel 1986, a coprire da sola il 15% degli investimenti. Ha chiuso i battenti per una decisione presa nel ’92, l’anno a partire dal quale le performance della nostra economia diventano «le peggiori dai tempi di Cavour», in omaggio «alla pubblica opinione che riteneva la privatizzazione unica salvezza per il Paese», ricorda Prodi. Ci vuole una nuova Iri? Certo non lo è la Cassa depositi e prestiti, volano squisitamente finanziario. Ma si tratta di creare grandi imprese, che l’Italia non ha più, e infatti spera in una lenta ripresa ciclica. E se non lo faranno i privati, chi assicurerà investimenti e strategia indispensabili per stare al mondo come Paese industrializzato?