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 2015  marzo 24 Martedì calendario

QUANDO ELVIS IL RIBELLE INDOSSÒ LA DIVISA


Il 24 marzo 1958 Elvis Presley, viene ritratto dai fotografi mentre in divisa presta giuramento di fedeltà alla nazione. Per l’uomo che fino a quel momento era considerato dai media come l’espressione oltraggiosa e sensuale del nascente rock and roll, si tratta di un cambiamento d’immagine sostanziale. Tutto è iniziato qualche tempo prima quando l’ex “ribelle del rock” si è presentato alla visita medica per prestare il servizio militare. Terminato il periodo d’addestramento verrà destinato alla base NATO di Bremerhaven, in Germania, dove conoscerà Priscilla Beaulieu, la figlia di un ufficiale di stanza alla base che qualche anno dopo diventerà sua moglie. A convincerlo sarebbe stato il suo manager, il leggendario “colonnello“ Parker, per il quale la scelta di prestare il servizio militare pur potendo evitarlo avrebbe rafforzato la sua posizione di buon americano e consolidato il suo successo di massa. Con questa scelta Parker vuole cambiarne il personaggio sostituendo all’immagine del “re del rock and roll” quella di un artista ormai maturo e perbene. Terminato il servizio militare, infatti, il cantante comincerà a cimentarsi in un repertorio meno aggressivo del precedente, dove prevarranno ballate melodiche e brani standard riarrangiati con una modesta accentuazione ritmica. Quel giuramento di fedeltà e quella divisa sono l’aspetto più appariscente di un’operazione destinata a fare di Elvis Presley il personaggio simbolo della trasformazione del rock in un grande affare. Incarnando con la sua immagine pubblica una ribellione più formale che reale, priva di carica eversiva, il ragazzone ha così depotenziato il rock and roll delle origini fino a farne in uno dei tanti aspetti della “America way of life”. La sua faccia pulita e la sua trasgressione “accettabile”, contrapposte al demoniaco rock’n’roll dei neri, ma anche di ribelli bianchi come Jerry Lee Lewis, rassicurano l’opinione pubblica americana, garantendogli l’appoggio dei media e segnano il suo trionfo. Qualche anno fa il rapper Ice-T così analizzava questo periodo: «...negli anni Cinquanta i brani di Little Richard e Chuck Berry venivano definiti “suoni da jungla”, poi l’industria ha capito che poteva essere un affare e ha tirato fuori dal cilindro un caro ragazzo bianco del Sud come Elvis Presley». Tradotta così però la storia, pur corretta nell’analisi; non rende merito a un personaggio meno scontato di quello che sembra.
Elvis è più vero di quel che il mito ha regalato ai posteri. Resta folgorato dalla musica nera, dall’espressività corporale dei cori gospel e dalla vocalità graffiente dei dischi di rhythm and blues quando, ancora con i calzoni corti, canta nel coro della sua chiesa. Il tratto distintivo della sua ispirazione artistica non è artefatto, anzi. Nonostante la divisa e il giuramento passerà ancora del tempo prima che il colonnello Tom Parker, suo pigmalione e despota, riesca a rendere innocua quella carica istintivamente eversiva. Lui i stesso ci mette del suo. Incapace di vivere bone l’evoluzione dei tempi, quel ragazzone biondo che piace alle mamme, alle figlie, alle zie e anche un po’ alle nonne invece di seguire altri protagonisti del rock & roll sulla strada del ritorno alle origini, finisce per trasformarsi in un crooner adatto a tutte le stagioni.
Eppure ogni suo disco di standard melensi offusca un po’ l’immagine originaria, ma non la cancella. Sarà la morte improvvisa a recuperarla e a farne l’asse portante del suo mito. Muore il cantante e prendeva il volo un mito destinato a continuare fino ai giorni nostri, pur se attraversato da più di una contraddizione.
È sufficiente dare uno sguardo alle scene che accompagnano il suo funerale per capire come fin dai primi giorni dopo la morte dell’eroe, il mito sia andato al di là del semplice fenomeno indotto. Fra i settantacinquemila e gli ottantamila sono, secondo la polizia i fans che al momento dell’addio definitivo circondano Graceland, la favolosa villa di Memphis nella quale il re del rock and roll ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita in una situazione di alienante, pur se dorata, solitudine. E quella che accorre a dargli l’ultimo saluto è una folla disperata e piangente, non aliena da gesti di isteria, multietnica e colorata. Resterà, per disposizioni superiori, ai margini delle cerimonie ufficiali, sarà costretta a viverle a distanza di sicurezza, visto che alla cerimonia ufficiale sono stati ammesse solo centocinquanta sceltissime persone, ma non rinuncerà a far sentire la sua presenza. Rincorre un mito che altri hanno preparato per lei? A chi osserva superficialmente può sembrare che sia così. Gli occhi della generazione che l’ha conosciuto e amato, però, vedono in Presley qualcosa che va al di là della abusata storia del cantante leggendario che trova nella morte la sua definitiva consacrazione ideale e commerciale. Osservano lo svolgersi degli eventi ma si muovono in un territorio imprevisto: occupano anche gli spazi proibiti, quelli non direttamente commerciali, usando la memoria come un’arma invincibile. Scandiscono note e parole di brani che hanno accompagnato la presa di coscienza di una generazione e ne fanno inni imprevisti e del tutto imprevedibili. Travolgono le rassicuranti certezze del music business e trasformano Elvis nel simbolo che, probabilmente, non è mai stato e non ha mai voluto essere quando era in vita.