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 2015  marzo 20 Venerdì calendario

IL VERO VOLTO DI ANONYMOUS


[dati alla fine]

Il 7 gennaio 2015, poche ore dopo l’attacco alla redazione del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, mentre i fratelli Said e Chérif Kouachi sono ancora in fuga nelle campagne fuori Parigi e nessuno può immaginare l’ulteriore appendice di follia che sta per sconvolgere un supermercato kosher della città, su YouTube appare un video in cui un uomo dal volto coperto dichiara guerra online ai fondamentalisti islamici. “Seguiremo le vostre tracce ovunque”, annuncia una voce robotica in francese, “vi pedineremo su Internet, chiuderemo i vostri account sui social network”. La maschera bianca con baffi e pizzetto, insieme con l’hashtag in sovrimpressione (#OpCharlieHebdo), timbra il comunicato in modo incontrovertibile. È la firma di Anonymous, il movimento collettivo che difende i valori della Rete. L’organizzazione si mette subito al lavoro e il 9 febbraio diffonde i primi risultati dell’operazione: un elenco di 800 account Twitter, 12 profili Facebook e oltre 50 indirizzi email accusati di essere collegati allo Stato Islamico. Il gruppo annuncia anche di aver messo fuori uso diversi siti riconducibili al califfato.

VIOLAZIONI PERICOLOSE. Più o meno negli stessi giorni, il 22 gennaio, dall’altra parte del mondo e lontano dai riflettori dei media, un giudice federale di Dallas condanna a 5 anni e 3 mesi di carcere Barrett Brown, il giornalista statunitense che per alcuni anni si era presentato come una sorta di portavoce non-ufficiale del gruppo. Coinvolto nella violazione dei server dell’agenzia di intelligence Stratfor, Brown rischiava fino a cento anni di prigione.
Due storie separate, a prima vista. Ma anche due delle tante facce di un unico caleidoscopio in cui si riflette, vive e muta uno dei fenomeni più interessanti, imprevedibili e caratteristici del secolo digitale: Anonymous, appunto.

MATTACCHIONI. Tutto questo ha avuto origine nel 2006, quando centinaia di avatar identici – uomini di colore in abito da lavoro e acconciatura afro – hanno invaso e bloccato alcuni ambienti del sito di Habbo, una comunità telematica frequentata dai teenager in epoca pre-Facebook. Oltre a presentarsi con il medesimo aspetto, gli autori del blitz usavano lo stesso nickname: “anonymous”. Arrivavano tutti da “/b/”, una bacheca del sito americano 4Chan in cui si condividono fotografìe (spesso di natura molto spinta) e si organizzano operazioni a scopo di “lulz”: per ridere, spesso in modo goliardico e sarcastico. Gli anonymous orchestravano scherzi fuori e dentro il Web: a volte si trattava di ordinare decine di pizze a domicilio per far dispetto a qualcuno, altre di intasare il centralino di un predicatore radiofonico, altre ancora di spedire fogli neri via fax per consumare l’inchiostro di un’azienda.
Il salto di qualità avvenne nel 2008. Quando Scientology ordinò ad alcuni siti di rimuovere un video promozionale a uso interno in cui era protagonista Tom Cruise, 4Chan reagì imbastendo la madre di tutte le operazioni di Anonymous: il Project “Chanology” (da 4Chan e Scientology). Quello che in origine doveva essere il solito mix di scherzi e dispetti, nella realtà prese rapidamente altre direzioni e dimensioni. In strada, le manifestazioni si diffusero ovunque: dalla California all’Australia, passando per Dublino. Sul Web, Anonymous lanciò i suoi primi attacchi informatici DDoS contro i siti di Scientology.

CONTRO BANCHE E DITTATURE. In un colpo solo, il gruppo scoprì così due elementi che caratterizzeranno il suo futuro: le tecniche hacker e l’attivismo. Anzi, tre: nei cortei apparivano le prime maschere di Guy Fawkes, un ribelle inglese del Seicento reso d’attualità dai fumetti di Alan Moore e David Lloyd e dal film V for Vendetta (2005) di James McTeigue. Dal Project Chanology ha preso il via la conversione di Anonymous all’hacktivismo, cioè l’attivismo online, spesso attraverso operazioni ai confini della legalità (e a volte anche oltre). Il movimento si è staccato dalle sue origini e ha assunto l’aspetto attuale di un collettivo indipendente, dalla visione e dal respiro globale, impegnato in vere e proprie battaglie politiche legate alla tutela della libertà di espressione e della net neutrality (il principio che non ci siano ostacoli tecnici deliberatamente costruiti alla diffusione dei dati in Internet) in lotta contro tirannie e violazioni dei diritti umani. Questi obiettivi sono al centro delle sue operazioni più famose: Avenge Assange (in favore del sito Wikileaks), Payback (contro le leggi antipirateria in Internet), Tunisia e Egypt (a supporto delle infrastrutture e dei social network usati dai ribelli durante la Primavera araba). Iniziative su larga scala che assicurano al gruppo l’attenzione dei media, ma lo mettono anche nel mirino di governi e forze dell’ordine. In particolare, per quel vizietto – sempre più comune con il passare degli anni – di bloccare i siti dei propri nemici attraverso attacchi informatici in denial of service, la tecnica sperimentata con successo ai danni di Scientology.
In certi casi si tratta di sistemi e server legati allo Stato Islamico o a regimi dittatoriali, in altri il bersaglio sono grandi aziende come MasterCard, Visa e Paypal, prese d’assalto in quella che è forse la più famosa campagna del movimento, lanciata nel dicembre del 2010 per colpire le società che avevano bloccato la possibilità di effettuare donazioni e finanziamenti a Julian Assange e a Wikileaks.

INEFFABILI. Ma chi sono i membri di questo movimento? Dove si trovano e come organizzano le operazioni? Secondo l’antropologa Gabriella Coleman, docente di cultura scientifica e tecnologica alla McGill University, in Canada, e autrice di Hacker, Hoaxer, Whistleblower, Spy: The Many Faces of Anonymous (2014), il militante medio di Anonymous non esiste. Alle campagne partecipano sempre diverse categorie: hacker, appassionati di tecnologia, attivisti occasionali. I primi sono i meno numerosi ma dotati delle maggiori competenze informatiche: si incontrano in chat private e orchestrano le operazioni più complesse. A volte servendosi di strumenti sofisticati e botnet (reti di computer infettate e controllate dall’esterno), altre volte pilotando l’entusiasmo delle migliaia di persone che affollano le chat Irc, arene di comunicazione dove gli utenti si incontrano, discutono, determinano gli obiettivi e programmano le future iniziative (chiunque può accedervi, per esempio attraverso il blog http://anon-news.blogspot.it). Come si può immaginare, in un gruppo chiamato Anonymous di nomi e cognomi ne circolano pochi. Le eccezioni sono rare. Nel 2012 un’operazione congiunta di Fbi e autorità britanniche ha rivelato l’identità e portato all’arresto di diversi membri di LulzSec, un gruppo di hacker legato ad Anonymous che per cinquanta giorni, tra maggio e luglio 2011, aveva condotto una serie di attacchi informatici contro i siti di varie società e agenzie, tra cui Sony e Cia. Ci fu qualche sorpresa. Per esempio nello scoprire che uno degli hacker più temuti – conosciuto con il soprannome di Topiary – era un teenager residente nelle sperdute isole Shetland, a nord della Scozia.

CHI COMANDA? Tra gli aspetti più caratteristici di Anonymous c’è l’assenza di una leadership riconosciuta come tale. Non esistono un fondatore, un presidente o un direttivo. Tantomeno un ufficio stampa: nessuno ha mai assegnato quel ruolo a Barrett Brown, l’uomo condannato in Texas. Le operazioni sembrano solo frutto delle discussioni sulle varie chat del gruppo, dove spesso si utilizza il termine dispregiativo leaderfag per additare quei militanti più desiderosi di vedersi attribuito uno status di potere. Ma è proprio così? «Dall’esperienza che abbiamo, si direbbe di sì», afferma Giovanni Ziccardi, docente di informatica giuridica all’Università di Milano e autore di Hacker. Il richiamo della libertà (Marsilio) e Internet, controllo e libertà (Raffaello Cortina). «Anche per ragioni di sicurezza, gli anonymous hanno tutto l’interesse a non darsi una normale struttura verticale. Inoltre, l’adesione alle campagne non è organizzata dall’alto: ogni giorno entrano ed escono nuovi militanti e ognuno decide liberamente a che cosa partecipare».
Il risultato è una sorta di confusione naturale e organica. Ne è prova lo stesso video diffuso dopo l’assalto alla redazione di Charlie Hebdo e poi rimosso. Quel filmato, infatti, era stato realizzato autonomamente dalla sezione belga dell’organizzazione; ma la guerra del movimento allo Stato Islamico era già stata annunciata nel giugno 2014, con un video diffuso su YouTube e con un altro hashtag (#OpIceISIS). «Non c’è un singolo leader che tiri le leve», scrive Carole Cadwalladr su The Observer, «piuttosto, alcune menti che ogni tanto si ritrovano per far partire un’operazione. Non c’è nemmeno un’affiliazione ufficiale: se credi in Anonymous e ti chiami Anonymous, sei Anonymous».
Luca Castelli


IN CRESCITA ESPLOSIVA–
2006. Prime azioni online di disturbo, come i raid nella community Habbo.
2007. In seguito all’arresto a Toronto di un uomo accusato di molestie sessuali su minorenni, segnalato alla polizia dal gruppo, il network canadese Global TV è tra i primi a parlare di “vigilanti su Internet che si fanno chiamare Anonymous”.
2008. Con la diffusione del video A Message To Scientology, a gennaio prende il via il Project Chanology.
2009. Apre Anonymous Iran, a supporto delle proteste contro la rielezione del presidente Ahmadinejad.
2010. Nell’ambito delle operazioni Payback e Avenge Assange, Anonymous attacca i server di aziende come Paypal, Visa e MasterCard.
2011. Inizia la Primavera araba: Anonymous offre supporto ai ribelli con le operazioni Tunisia ed Egypt.
2012. I media rivelano che lo smantellamento del gruppo LulzSec, legato ad Anonymous, è stato reso possibile dalla collaborazione con l’Fbi di uno dei suoi hacker principali, Hector “Sabu” Monsegur.
2013. Si intensifica l’attività di Anonymous in Italia. A maggio la polizia effettua quattro arresti.
2014. Presentata come “la più grande manifestazione organizzata dal più influente movimento del mondo”, l’edizione 2014 della Million Mask March – dal 2011 un’iniziativa annuale di Anonymous – è dedicata alla lotta contro la corruzione e il controllo di massa online e coinvolge il numero record di 482 cortei in altrettante città, di cui 11 in Italia.
2015. In seguito agli attentati a Parigi si intensifica l’Operation Ice Isis che punta a bloccare siti e account social network legati allo Stato Islamico.