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 2015  marzo 22 Domenica calendario

«ALL’ITALIANA» NON VUOL DIRE SENZA SPERANZA RIBELLARSI AL DISFATTISMO È GIUSTO (E POSSIBILE)

C’ è del marcio in Danimarca, dice Amleto. Probabilmente Shakespeare pensava pure o soprattutto alla sua Inghilterra ed è bene che ciascuno si occupi anzitutto delle magagne, sciagure e storture del proprio Paese, con furiosa e lucida volontà di porvi, nel limite del possibile, rimedio. Non c’è comunità nazionale, statale o sociale che sia immune da questi cancri, spesso vissuti con allegra disinvoltura; già Sofocle, nell’Edipo a Colono, scrive che «miriadi di Stati, con governi esperti, peccano ridendo di squilibrio». Ovviamente noi pensiamo e dobbiamo pensare anzitutto al nostro Paese, all’Italia — alle sue disfunzioni, carenze, corruzioni, ingiustizie; agli sprechi irresponsabili, non meno colpevoli dei latrocini, alle sue arretratezze. Come Dante insegna, l’autentico patriottismo, l’autentico amore per il proprio Paese, è severo, duro e intransigente al pari di ogni vero amore. «Ahi serva Italia, di dolore ostello/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!».
Ben vengano dunque le denunce di mali e inadempienze, le inchieste su abusi e frodi, le scosse alla sonnolenta connivenza — tanto peggiore quanto più volutamente inconsapevole — con la violazione della legge o addirittura con la malavita. Per fare un esempio, le inchieste-denunce di Gian Antonio Stella, condotte con attenta e coraggiosa precisione e con ilare ferocia, sono una preziosissima diagnosi di tanti morbi che è già premessa di possibile terapia.
Ma questo buon combattimento contro il male, che non teme di smascherare il fango talora intriso di sangue, è ben diverso da quel frivolo e compiaciuto ritornello autodenigratorio che è divenuto un vero vizio nazionale e che — contrariamente alle vere denunce — incrementa i mali d’Italia. Il melenso cocktail di falso moralismo e cinismo alimenta una rassegnazione travestita da nobiltà dello spirito. L’Italia sembra essere divenuta una di quelle baracche al tiro a segno del luna park, sei palle per un soldo; anche se si colpisce il faccione sbagliato poco importa, il divertimento è a buon prezzo.
Che i mali, nel nostro Paese, abbondino è una realtà e che vadano combattuti è un dovere. Ma senza faciloneria preconcetta, senza schemi aprioristici. Ad esempio mesi fa è stato commentato come una scandalosa pastetta il fatto che, in una chiamata o trasferimento a una cattedra universitaria in un Ateneo dell’Italia meridionale un candidato italiano, credo anch’egli del Sud, sia stato preferito a un candidato proveniente da una prestigiosa università anglosassone, non ricordo se Harvard o altra egualmente famosa. Non conosco il caso e può darsi benissimo che si sia trattato di un’indecorosa decisione basata su legami di conoscenza personale anziché di merito. Ma non è affatto detto che uno studioso laureato a Napoli, Padova o Torino debba essere considerato a priori inferiore a uno laureato a Cambridge o a Berkeley. Per parlare di cose che conosco, ovvero della germanistica, se anni fa Giuliano Baioni o Cesare Cases, ahimè italiani e uno addirittura nato a Voltana di Lugo in Romagna, fossero stati preferiti, nella chiamata a una cattedra universitaria, a un collega di Yale o di Oxford, solo un ignorante avrebbe potuto gridare allo scandalo, perché i libri di Baioni o Cases su Kafka, Goethe, Mann o Brecht — per citare alcuni esempi — non temono confronto. E la più bella storia della letteratura tedesca in senso assoluto è ancor oggi quella dell’italiano Ladislao Mittner.
Che peraltro l’ignoranza in Italia (solo in Italia?) dilaghi è innegabile; quell’ex deputata del nostro Parlamento che, interrogata alla televisione, ha detto che la sinagoga è il luogo dove le donne musulmane vanno a pregare il loro Dio, non è un’eccezione isolata, bensì la punta di un iceberg. Ma quando insegnavo in uno dei più prestigiosi college statunitensi, il Bard College, che fra l’altro ebbe fra i suoi docenti Hannah Arendt, su trentun studenti otto non avevano mai sentito parlare di Stalin e non avevano idea di chi potesse essere. Ho avuto recentemente occasione di vedere libri di testo di Storia usati in una Scuola Europea a Bruxelles — accozzaglie di documenti e argomenti senza nessuna logica né prospettiva storica e nemmeno inquadramento cronologico — leggendo i quali è impossibile imparare qualcosa. Naturalmente nessuna generalizzazione è lecita; sarebbe stupido e fazioso denigrare o sottovalutare il fondamentale contributo che viene dato — in ogni settore, umanistico, scientifico, tecnologico — al mondo dagli Stati Uniti, dalla loro cultura e dalle loro istituzioni, e sarebbe stupido e fazioso trinciare un giudizio sulla Scuola Europea avendo soltanto sfogliato un paio di libri disastrosi.
Si denunciano — giustamente — le condizioni in cui si trova la scuola italiana — la mancanza di fondi, le lungaggini burocratiche dei concorsi, la precarietà di moltissimi insegnanti, l’arretratezza tecnologica nel digitale, la goffa e servile introduzione nell’università del sistema dei crediti che, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, disincentiva l’investimento personale nell’apprendimento, perché abitua a pretendere che ogni sforzo sia ricompensato immediatamente e scoraggia le ricerche a lungo termine ossia l’investimento di energie. Per non parlare della ridicola quantificazione delle pubblicazioni che all’università spinge ogni docente a produrre ogni sei mesi qualche «contributo» e distoglie da studi di lungo respiro che facciano progredire la ricerca. Ma si dimentica il lavoro improbo, innovatore, appassionato di tanti insegnanti (universitari, di liceo o di scuola media) che riescono a creare interesse e spirito critico fra i ragazzi, a far loro conoscere e amare l’arte, la letteratura o la matematica, a seguire con libertà di giudizio le trasformazioni epocali che stanno sconvolgendo in bene e in male la nostra vita. Ho spesso occasione di incontrare classi — medie inferiori e superiori, talora anche se più raramente elementari — e di trovare entusiasmo, fantasia, autonomia di gusto.
Di recente ho avuto purtroppo occasione di frequentare, per varie e serie difficoltà di salute in cui sono incorse persone a me care e vicine, ambulatori e ospedali privati e pubblici, soprattutto a Trieste e anche a Roma, e sono rimasto colpito dall’acutezza e competenza di alcuni medici e chirurghi di varie specialità, accompagnate da una notevolissima disponibilità umana e capacità di ascoltare con partecipe fermezza il paziente; persone — Fabio Baccara, Fulvio Camerini, Francesco Fanfani, Franco Kokelj, Gianfranco Sinagra, cito i nomi solo per essere, come si deve essere, concreto e non vago e generico — che ho visto dare a tutti i pazienti che vedevo loro affidati un confortevole senso di sicurezza, calore e civiltà. Ovviamente questa esperienza non può essere generalizzata e non toglie la gravità e l’indecenza di tanta malasanità. Inoltre so bene che è più facile dedicare attenzione umana al paziente in una città media che in una metropoli con milioni di abitanti. Ma forse è giusto comunicare ogni tanto pure esperienze positive, anche se sono solo personali e non il risultato di inchieste e ricerche basate su campioni più numerosi.
È ovvio che si parli quando c’è un male da denunciare e non quando tutto funziona bene; il signor Rossi finisce comprensibilmente sul giornale quando è autore o vittima di un delitto, non quando va a fare scrupolosamente il suo lavoro. Dunque, nessun «tutto va bene, Madama la Marchesa», bensì una vigile, dura e documentata accusa di tutto ciò che non va. Ma senza il banale e gregario compiacimento di dire, per ogni cosa che non va, «all’italiana».