Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 22/3/2015, 22 marzo 2015
LA FIGLIA DEL LEADER MUSULMANO «L’ESTREMISMO NON AVANZERÀ»
«Siamo scesi per primi in strada per protestare contro il terrorismo. E siamo sempre pronti a dialogare e collaborare con tutti. La Tunisia continuerà a essere un modello di successo per la transizione alla democrazia». Fuori dall’ufficietto di Yusra Ghannouchi ci sono due uomini di guardia, seduti e apparentemente disarmati.
La famiglia di Yusra è stata forse la più perseguitata ai tempi del presidente Ben Alì, mentre oggi è tra le più importanti della Tunisia. Suo padre, Rachid Ghannouchi è il fondatore di Ennahda il partito islamico moderato che ha governato il Paese per tre anni e che ora appoggia l’esecutivo guidato dai laici. Studi a Londra, radicamento in Tunisia, Yusra, 36 anni, tre sorelle e due fratelli, è la portavoce di Ennahda per l’estero. Tocca a lei parlare al grande mondo nei momenti più difficili.
Perché la Tunisia produce così tanti jihadisti? Si stima che potrebbero essere anche diecimila...
«La Tunisia ha una lunga storia di esportazione dei terroristi, come confermano le vicende in Iraq e in Afghanistan all’inizio degli anni Duemila. Un punto, quindi, mi sembra chiaro. Il radicalismo non è legato, non è nato con la Rivoluzione dei Gelsomini. Nei mesi successivi al gennaio 2011, lo Stato si è indebolito, i controlli di sicurezza si sono allentati. Per un certo periodo, ora non più, centinaia di moschee sono diventate la tribuna di predicatori violenti. Molti giovani si sono trasformati in estremisti, alcuni in terroristi. Quanti siano è difficile dire. Adesso la priorità è evitare che il loro numero cresca».
La convince l’idea che ci sia una relazione stretta tra emarginazione sociale e radicalismo religioso?
«Non è solo questo. Certo i più radicali sono soprattutto giovani, ragazzi disoccupati, spesso vengono da quartieri o villaggi poveri. Ma il radicalismo è anche il risultato di un lungo periodo di repressione culturale e religiosa, quella che abbiamo vissuto ai tempi della dittatura di Ben Alì. Per questo dobbiamo assolutamente continuare a costruire una Tunisia democratica e aperta».
Ennahda ha le credenziali per farlo? C’è chi vi accusa di prendere soldi dal Qatar, un Paese generoso con i movimenti dell’islamismo radicale.
«Allora, non riceviamo finanziamenti dal Qatar. I nostri fondi arrivano dalla sottoscrizione di quote da parte dei nostri militanti, che sono circa 80 mila. Dopodiché so bene che qualche politico tunisino ci accusa, in modo strumentale, di non essere un partito democratico. Ma noi chiediamo di essere giudicati dai nostri comportamenti. Negli ultimi 4 anni, che fossimo al governo o no, ci siamo impegnati perché il Paese facesse dei passi avanti cruciali sulla strada della democrazia. E ora siamo totalmente impegnati nella lotta contro il terrorismo. Siamo stati i primi a scendere in strada, con tanti altri tunisini, subito dopo l’attentato al museo del Bardo».
Che ne dice della proposta avanzata da alcuni parlamentari di organizzare a Tunisi una marcia con i leader degli altri Paesi?
«So che se ne sa discutendo. Il mio parere personale è che la manifestazione di Parigi sia destinata a rimanere un unicum. Penso che ci saranno altre mobilitazioni con la partecipazione delle alte cariche istituzionali della Tunisia. Saranno invitati i rappresentanti diplomatici e questo sarà sufficiente per dimostrare che non siamo soli».