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 2015  marzo 20 Venerdì calendario

I 100 ANNI DELL’ULTIMO COMUNISTA


[Indro Montanelli]

ROMA. È stato il leader della sinistra comunista, il dirigente politico più amato del Pci dopo Berlinguer, l’uomo dei molti no anche nei riguardi dei fratelli maggiore di oltrecortina e anche quello che ha subito il maggior numero di sconfitte. Alla vigilia del compimento dei cento anni, tuttavia, di Pietro Ingrao ci viene trasmessa una biografia di cui si distingue l’autenticità dell’impegno, delle passioni, dei tormenti, dell’esercizio critico e autocritico, di quella «pratica del dubbio» con cui definisce se stesso, come gli riconobbe Indro Montanelli. Sconfitte, rimpianti e rinunce, d’altronde, sono tappe di una vicenda personale complessa, ma anche coerente, sia nei termini dell’obbedienza al comunismo italiano sia in quanto a quella che lui stesso definisce «l’irriducibilità della vita alla politica»: cioè l’impossibilità di ricondurre al primato della politica gli altri aspetti sensibili dell’esistenza, a partire dalle passioni per il cinema, l’arte e la poesia.
Nato il 30 marzo 1915 a Lenola, oggi in provincia di Latina ma allora in territorio campano, da una famiglia dell’alta borghesia terriera di matrice repubblicana. Ingrao quasi si schermisce dell’accento «provinciale» della propria formazione nel liceo di Formia; anche se forse è precisamente quello a accendere ulteriormente la passione per «l’espressione estetica» quando si trasferisce con la famiglia nella capitale: da un’agiatezza borghese sensibile alla condizione di classe delle masse contadine all’incontro con le avanguardie europee del ‘900 nel fervore urbano.
Son anni, comunque, in cui il regime non consente certo d’indulgere in dubbi. Né Ingrao ancora ne pratica quando, nell’aprile 1934, si qualifica terzo ai Littoriali dell’arte e della cultura. Dopo un anno di Centro sperimentale di cinematografia, è però nelle aule universitarie – prima di Giurisprudenza in ottemperanza ai desideri famigliari, poi di Lettere – che negli «anni decisivi» tra il ‘34 e il ‘37 consolida le convinzioni e le amicizie antifasciste: con la politica che nel luglio 1936 irrompe attraverso la guerra di Spagna come presa di coscienza di un impegno, del fatto che bisogna «costruire una relazione condivisa, attiva», come da quel momento diventano lo strumento del partito e l’ideale comunista. Quindi l’attività con l’organizzazione clandestina del Pci, attraverso cui conosce Laura Lombardo Radice (che sposa nel 1944 e gli darà cinque figli) e che lo porta dalla Calabria a Milano, dove il 26 luglio 1943, giorno dopo l’arresto di Mussolini, organizza il comizio di Porta Venezia con Elio Vittorini.
Alla direzione dell’Unità dal 1947 al 1957, firma da quella scrivania l’editoriale contro la rivolta di Budapest del 1956, essendo frattanto entrato nella segreteria nazionale del
Pci e seduto dal 1948 sui banchi di Montecitorio. Ma è quanto l’anno successivo accompagna Togliatti a Mosca e sente Mao preconizzare la vittoria del comunismo al prezzo di «milioni di morti» che ammette d’esser rabbrividito e aver cominciato a coltivare il «dubbio» sulle virtù del comunismo, data anche la riluttanza del migliore a fare i conti la destalinizzazione che porta Ingrao a maturare una distanza dal capo storico. Anche se solo nel 1966, in occasione dello scontro con Giorgio Amendola sulle prospettive del dopo Togliatti, osa infrangere la liturgia rivendicando il «diritto al dissenso» e diventando punto di riferimento della sinistra interna che però non organizza, come gli rimprovera Rossana Rossanda. Il che non gli impedisce di «essere straordinariamente popolare nel Pci», chiosa Castellina ricordando la sua capacità oratoria di entusiasmare la base cui però «quasi sempre corrispondeva la nostra sconfitta e la vittoria della destra» interna.
Anche per questo l’Ingrao politico è stato spesso considerato un utopista intento alle astrazioni, poco avvezzo alla concretezza, logorato dalle incertezze. Di questo è stato rimproverato soprattutto dagli avversari della destra interna fino allo scherno; come la volta che s’interruppe mentre parlava per chiedere un bicchier d’acqua e Giancarlo Pajetta, che in segno di sprezzo leggeva sempre il giornale durante i suoi interventi, commentò: «È la prima cosa che capisco del tuo intervento». Tuttavia non c’è poi molto di astratto in un uomo che si rammarica tutt’oggi della propria obbedienza alla disciplina di partito sui fatti d’Ungheria del ‘56, come poi sull’espulsione del manifesto nel ‘69; che per Luciana Castellina «fu una decisione lucida» presa alla luce «della consapevolezza che il Pci si apprestava a una fase di grande espansione». Una stagione durante la quale Ingrao ricopre prima il ruolo di capogruppo e poi di presidente della camera. Incarichi in cui secondo il presidente del Centro per la riforma dello stato, Walter Tocci, che dell’ingraismo svolge un po’ il ruolo di portavoce istituzionale, «si è comportato con grande competenza e pragmatismo, a scapito degli stereotipi con cui lo etichettano, come dimostra il fatto che è stato il primo a sostenere la riforma elettorale a doppio turno sin dagli anni Ottanta».
Del resto, occorre pur sempre obbedire a un’ortodossia per poter manifestare la propria eresia. E Ingrao è stato un devoto della chiesa comunista italiana e alla sua forma partito fino alla fine decretata da Achille Occhetto, quando prima rifiuta di far fronte comune contro la svolta con il vecchio nemico Pajetta, poi dichiara che rimane «nel gorgo» del Pds declinando le sollecitazioni che vorrebbero aggregare intorno a lui, invece che a Armando Cossutta e Sergio Garavini, una prospettiva di Rifondazione comunista per non essere accusato di scissionismo. Anche se solo due anni dopo lascerà il Pds insieme a Fausto Bertinotti, che accompagnerà praticamente all’altare di Rifondazione chiamandosi però fuori dalla militanza politica per dedicarsi soprattutto alla poesia, che ha cominciato a pubblicare dagli anni Ottanta, al disegno, alla cura della pubblicazione dei suoi scritti. Tra cui la biografia uscita nel 2007 col titolo Volevo la luna. Anche se dalla sua nascita la Luna è più lontana di quasi quattro metri.