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 2015  marzo 20 Venerdì calendario

SRI LANKA, IL VOLTO DELLA SVOLTA


COLOMBO. Chi ha visitato Colombo l’ultima volta nel pieno della guerra, prova un senso di euforica serenità a viaggiare senza più check point, mitra spianati e pericoli di attacchi suicidi lungo la nuova superstrada che dall’aeroporto lambisce un’incantevole laguna e raggiunge tra curve sinuose il caotico centro della città sull’Oceano.
I 30 chilometri di asfalto costati allo Stato sei milioni di dollari ogni 750 metri, di cui almeno cinque finiti in mazzette, sono uno dei tanti simboli del nuovo Paese risorto con gli antichi vizi dopo 27 anni di guerra. Di certo la ex capitale – sostituita solo virtualmente dalla nuova città degli uffici di Sri Jaywardana Pura – non è mai stata così ordinatamente linda. L’autista Faaris ci dice che ora c’è un’ossessione per la salvaguardia dell’ambiente, e non si può filmare in nessun luogo pubblico, comprese le strade.
L’area di Petta, o Colombo 11, è affollata di negozi di tamil e musulmani che vendono e comprano oro, indiani del settore tessile e cingalesi impiegati nel governo e nelle finanziarie. Ma è la Central bank il cuore dell’economia cingalese, e per questo venne assaltata nel ‘96 da un martire delle Tigri, i primi a usare la tecnica degli attentati suicidi. Un impiegato ha un ricordo indelebile di quando il camion imbottito di tritolo saltò in aria dilaniando cento persone, con i feriti dappertutto, in una piazza irriconoscibile, oggi circondata di nuovi palazzi come le Twin Tower del Trade center e le torri delle banche.
Siamo a due passi dal Palazzo presidenziale, da gennaio usato solo per le occasioni ufficiali, perché il nuovo presidente eletto è un politico molto particolare che, nonostante i suoi 40 anni di carriera in posti di prestigio, preferisce la riservatezza di casa sua al palcoscenico istituzionale. È lui il volto nuovo, o meglio rinnovato, di questa svolta politica e morale che vuole lasciarsi alle spalle gli astii della guerra senza dimenticare le colpe e gli errori degli uni e degli altri. Si chiama Maithripala Yapa Sirisena e nelle ultime elezioni ha spodestato con il sette per cento di scarto l’ex capo del governo e dell’esercito Sri Mahinda Rajapaksa, passato alla storia con l’aura d’imbattabilità dell’eroe che spazzò via i terroristi tamil. Sotto il comando di Rajapaksa e del fratello (ora indagato per una partita di armi di un suo esercito privato, con ritiro del passaporto), con l’appoggio spirituale del clero conservatore buddhista, l’esercito cingalese ha riconquistato fino all’ultimo lembo di fertile terra del Nord e Nord Est alle Tigri dell’Ltte. Da meno di quattro mesi, cinque anni dalla fine della guerra e 32 dal suo inizio, anche la Regina di Jaffna, storica locomotiva sostituita da una motrice nuova e più aerodinamica, è tornata a trasportare uomini e merci su fino alla ex capitale dei tamil per decenni off limits, quando le bombe e gli agguati lungo le strade erano all’ordine del giorno e la gente scappava verso sud. Ma Sri Rajapaksa, invece di riconoscenza, ha ottenuto una sonora sconfitta. Gli hanno votato contro i tamil, ma anche i musulmani e perfino i soldati.
Della portata di questo cambiamento non è facile vedere i segni esteriori attraversando l’isola da Colombo a Jaffna verso est, tra l’intemo di paludi, risaie e boschi fino alle coste incontaminate dove giace gran parte delle centomila vittime della guerra civile. Ma le tracce del conflitto affiorano ovunque nell’ostilità quasi indifferente dei passanti che snobbano i vecchi manifesti in bella posta del capo-guerriero Rajapaksa coi baffi spioventi, le candide kurta indiane e il sorriso stampato in volto. A poco è servito che l’ex premier e presidente avesse inaugurato col suo nome nuove abitazioni, strade, scuole e perfino inutili ma popolari campi di cricket in mezzo alla giungla.
Nelle ex province ribelli ricostruite, i dieci anni del suo regime di silenzio e paura hanno lasciato un segno indelebile, anche se Rajapaksa ha tentato in tutti i modi di impedire che riaffiorasse un passato di genocidi e massacri. I tamil che abbiamo incontrato nelle aree un tempo controllate dall’Ltte attribuiscono gli abusi a tutti e due i fronti, eppure molti restano affezionati all’ideale di disciplina e assenza di corruzione imposto dalle Tigri ai loro governatori locali, col divieto di bere alcool e violentare le donne, pena la morte.
A Batticaloa, ex roccaforte tamil a Sud, una madre di tre figlie e vedova di uno dei tanti desaparecidos della guerra ha ancora timore di rivelare il suo nome. Come tante altre donne, da allora vive sola, anche perché gli uomini sono ormai una rarità. Da Kilinochchi a Jaffna, da Trincomalee a Batticaloa la gente, perfino i bambini, sono ancora assediati dalle memorie di padri e fratelli scomparsi, e della vita dura da esuli, trasferiti con intere famiglie spesso mai tornate ai loro villaggi. Il giovane imam dei musulmani di Jaffna racconta che la sua comunità fu cacciata dalle Tigri con due ore di tempo per prendere con sé oro e gioielli, poi sequestrati lungo la strada. «Tornammo nel 2006 nella città riconquistata dall’esercito» ricorda «ma per anni non si trovavano cibo né fiammiferi, che costavano tre rupie l’uno». Il venditore di fiori del tempio buddhista dice che si compravano i loti e le gardenie per gli altari, e la preghiera era l’unica consolazione nel totale isolamento del nord. Ma non per gli islamici, massacrati a centinaia nelle loro moschee che recano ancora i segni dei proiettili sparati ad altezza d’uomo dai commando tamil, come alla Jummah e Majid di Kattankudy.
Sono tante le storie legate ai giorni bui del conflitto, mentre la gente ancora si sorprende ad ascoltare la sirena all’arrivo o alla partenza della Regina di Jaffna dalle stazioncine disperse tra miglia di campi e silenzio. È come una magia che da appena tre mesi a questa parte rompe il senso di isolamento e abbandono. Per questo le speranze sono rivolte al nuovo presidente, che da queste parti ha stravinto con la promessa di rispettare le minoranze e di agire senza troppe fanfare, a differenza di Rajapaksa che per l’inaugurazione fece rivestire la Regina di foglie di banano e bandiere tra inni nazionali e rolli di tamburi.
Del resto le stazioni e gran parte dell’ultimo tratto di ferrovie verso Nord le ha costruite l’India come premio all’ex presidente per avergli tolto di mezzo un esercito insidioso. Con le simpatie raccolte nel Tamil Nadu e all’estero per milizie formate anche da bambini e donne, armate
di moschetti, cannoni e perfino sottomarini fatti a mano, come quelli che abbiamo visto nel curioso museo militare del distretto di Mullaitivu, visitato da giovani soldati in pellegrinaggio verso i luoghi della gloria militare cingalese.
«Se l’ex presidente ha ripoitato la pace» ci dice il giornalista Marwaan Macan-Markar «il prezzo è stato talmente alto che il suo sistema di potere è crollato con lui». L’artefice della sonora sconfitta non a caso è un suo ex ministro, che milita nello stesso partito gestito per anni come un feudo dall’arrogante clan Rajapaksa. Grazie alla sua personalità diametralmente opposta di uomo pacato e tollerante, Sirisena ha raccolto il consenso di molti dissidenti un tempo timorosi di esporsi. Ma prima di sfidare il vecchio leone, ha atteso l’ultimo momento, spiazzando Rajapaksa che si aspettava un nemico dell’opposizione, e non un ex compagno di cordata. L’arma segreta del nuovo leader è stata un’idea inedita per qualsiasi politico del passato: ridurre gli stessi poteri della poltrona sulla quale è andato a sedersi, cresciuti a dismisura sotto il suo predecessore.
Con un programma celebre ormai in tutto il Paese come «il piano dei 100 giorni», Sirisena intende riportare l’armonia non solo tra le due etnie tradizionalmente belligeranti, cingalesi e tamil, ma anche tra musulmani e cristiani che lo hanno votato in massa. Vuole anche rimandare a casa i dissidenti politici che marciscono da anni nelle celle, e aprire il capitolo più delicato dei crimini di guerra e delle decine di migliaia di scomparsi.
Nel nostro viaggio verso le regioni a settentrione e oriente un tempo vietate anche alle organizzazioni umanitarie, non facciamo fatica a identificare i luoghi dove le buone intenzioni del neo-leader rischiano di scontrarsi con i residui del vecchio sistema semi-dittatoriale. Dietro ai cancelli sul mare, caserme e avamposti militari o di polizia demarcano col filo spinato le proprietà delle forze armate e del demanio, su terre vergini scarsamente popolate, ma del valore immane, in attesa del boom del turismo e dell’espansione edilizia. L’ex Ceylon è un paradiso incontaminato, e qualcuno lo ha definito «Il più bel campo di sterminio del mondo», in ricordo delle atrocità commesse in più di trent’anni. Con la pace chiunque può scoprirlo in tutto il suo incanto, anche se il turismo resta concentrato tra Trincomalee, Battiocaloa e il Sud mentre lungo le arterie del Nord è ancora difficile perfino trovare cibo.
Esercito e marina gestiscono linee aree, assicurazioni, banche, e i rari hotel aperti nelle aree più turistiche, dove in questi tempi di pace lavorano soprattutto i soldati che tolgono il posto alla gente locale. Ai corpi scelti delle forze armate e ai loro vecchi referenti politici appartengono le spiagge concesse a ricchi imprenditori che le hanno già ricoperte di cemento, ma anche le terre più fertili, i prodotti dei campi, perfino gli elefanti selvaggi che distruggono mura e tetti delle casette ricostruite con impotente pazienza dai contadini attorno ai campi di riso. Territorio militare sono gli stagni dove bianche cicogne ripuliscono i bufali dai vermi e si riproducono a ritmo incessante come le farfalle, i pellicani e i martin pescatori che asciugano le ali al sole dopo ogni tuffo nelle acque ricche di ogni specie. Dell’esercito sono le distese di palme, palmeryah, alberi della gomma e del tek, laghi d’acqua salata e dolce dove si moltiplicano i granchi e i fiori di loto.
I militari che hanno ucciso ribelli e civili innocenti ancora controllano anche tutti i punti strategici lungo la dritta e famigerata superstrada A9 contesa alle Tigri dell’altrettanto crudele Prabhakaran. Nel punto cruciale, sul Passo dell’Elefante, dove si sono massacrati in campo aperto i due eserciti, ora si legge l’epitaffio: «Qui si apre la via per il libero movimento dei cittadini del Nord e del Sud».
«Abbiamo perso molti uomini per conquistare questo posto e molti civili sono stati usati come ostaggi umani dai ribelli e uccisi» ci dice l’ufficiale che ha combattuto la guerra da sergente e ora è di guardia al monumento della vittoria. Come lui, altri 300mila soldati cingalesi, gran parte arruolati per la guerra, non hanno alcuna intenzione di ritirarsi nelle caserme e cedere i privilegi acquisiti sul campo di battaglia, come vorrebbe a parole il nuovo governo. Ma l’esercito non è il solo ostacolo alle riforme che Sirisena sta incontrando lungo la strada.
In una scuola intitolata a Sant’Antonio, riprodotto ad ogni incrocio con un bambino in braccio (nella sua recente visita Papa Francesco gli ha preferito la chiesa di Nostra Signora di Madhu, che pare facesse miracoli anche durante la guerra), il direttore Guna Bbala Singham ci presenta un gruppo di piccoli orfani. Babu Kokila, 13 anni, Darshika che ne ha 15 ma ne dimostra molti meno per la malnutrizione, Sobika Jisdas, 16, allevata dalla nonna e da una zia, hanno perso le madri durante i bombardamenti e gli scontri tra i due eserciti. Vengono dai sobborghi di Kilinochchi dove le Tigri hanno mantenuto fino alla Débâcle del 2009 il quartier generale, e dove ora sorgono strade, palazzi, negozi e banche, ma nessuna attività produttiva. E un piccolo museo dove giace reclinata la grande torre dell’acqua fatta saltare dalle Tigri prima della resa, e un ex soldato vende magliette e cappelli con su scritto Kilinochchi risorgi. «I giovani vogliono telefonini, computer, come tutti i loro coetanei del mondo. Ma per ora è un deserto» spiega Singham. «Per fortuna l’educazione e anche l’assistenza sanitaria sono gratuite e l’Unicef offre il pranzo, altrimenti i parenti che li prendono in cura non avrebbero potuto permetterseli» dice.
Molti tamil hanno perso le terre, le case e i documenti di proprietà distrutti dalle Tigri o dall’esercito, quasi tutti hanno subito lutti, e uno o più dei loro figli sono stati reclutati non sempre forzatamente dalle Tigri. Tutti rimpiangono le loro giovani vite finite invano perché, dopo tanto dolore, i tamil non hanno visto la terra promessa, ma continuano a subire ingiustizie ed emarginazione. Per questo l’ascesa di un uomo di pace come Sirisena è considerato «un segno evidente di una nuova maturità del Paese», come ci dice Hana Ibrahim, ex direttrice di un quotidiano dal quale si è licenziata per le censure, timorosa di essere arrestata come decine di altri giornalisti e militanti dei diritti umani invisi a Rajapaksa.
Ma l’improvvisa fine del senso di oppressione si accompagna ai timori di una delusione cocente quando i 100 giorni finiranno e Sirisena dovrà dimostrare di aver avviato le riforme promesse. «Voglio anch’io essere ottimista» spiega il blogger e attivista dei diritti umani Ruki Fernando «ma uno dei cardini dei 100 giorni, il rilascio del rapporto delle Nazioni Unite sui crimini di guerra, è già stato rinviato su richiesta del nuovo governo, e chiunque come me si reca nel nord est a indagare sugli abusi viene ancora fermato e interrogato dall’intelligence militare».
Allo stato attuale quello del neo-presidente sembra un compito immane, perfino inimmaginabile fino a ieri in un Paese intimamente ancora diviso e ferito, dove le famiglie (una su cinque) delle decine di migliaia di scomparsi ancora non sanno dove cercare i propri cari, così come quelle delle centinaia di prigionieri politici (182 secondo l’ex governo, almeno 500 secondo altre fonti) e dei circa 100mila tamil rifugiati in India e ancora titubanti a tornare. Molti nuovi ministri sono, come Sirisena, membri del Partito della libertà nel quale le due anime liberale e dispotica del nuovo e vecchio presidente si ritrovano paradossalmente al governo e all’opposizione. Ma nessuno può escludere l’ipotesi di un terzo protagonista: l’attuale e popolare premier Ranil Wickremesinghe pare cercherà un nuovo mandato alle prossime elezioni di giugno.
Resta l’incognita della ricandidatura di Rajapaksa, che dopo la sconfitta di gennaio cercò disperatamente – e inutilmente – il supporto degli ingrati militari per restare al potere con un golpe. Da allora l’isola vive con trepidazione l’alba di questa rinascita, fissata virtualmente per il 26 aprile quando sbocceranno i fiori e scadranno i 100 giorni. Secondo l’analista Dayan Pereira, un cingalese che ha sposato una tamil, «bisognerebbe arrivare a quella data con la consapevolezza che l’insorgere delle Tigri è stato un effetto, e non la causa, dell’odio e che le due comunità sono sempre state costrette a convivere senza scoprire il modo di amarsi».
I sepolcri invisibili degli uccisi sono ora ricoperti della natura rigogliosa che per cinque monsoni ha cosparso di verde i ruderi del conflitto e decontaminato l’aria di una terra minata, senza fabbriche e progresso. Le nuove casette dei villaggi tamil, cingalesi, musulmani e cristiani coi tetti e le croci rosa dei cimiteri spesso senza nome, s’affacciano lungo strade ricostruite dove corrono a velocità folle migliaia di camion che trasportano merci e tonnellate di sabbia del nord per realizzare la mega-Colombo dei nuovi piani regolatori.
Sarà qui, tra i due milioni di abitanti dell’ex capitale, che si decideranno le sorti del Paese, ma la città stessa è sotto minaccia ambientale. Rajapaksa firmò con Pechino un contratto per costruire un’immensa città portuale proprio al centro del golfo, 200 ettari di terra da riporto dei quali gran parte concessi in uso alla Cina stessa. «L’opera fu approvata senza uno studio di impatto ambientale, e ora gli esperti dicono che la deviazione delle correnti eroderà gran parte della città costiera a nord del quinto distretto» ci spiega Hana Ibrahim.
Il nuovo presidente e il premier vorrebbero cancellare tutto, ma la Cina non resterà a guardare senza ritorsioni mentre Sirisena fa accordi con l’India e altri Paesi. Dalla credibilità e autonomia del governo della svolta dipenderà l’esito delle prossime elezioni, quando l’ex leone ferito Rajapaksa potrebbe essersi ripreso dallo choc e tornare a ruggire.
Raimondo Bultrini