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 2015  marzo 20 Venerdì calendario

PROSSIMA FERMATA ZURIGO


ZURIGO. Glaube, Fleiss und Ordnung: Fede, diligenza e ordine. La precisione e la puntualità contraddistinguono la Svizzera. Non sono io a dirlo, ma il pannello che vi dà il benvenuto all’entrata del Museo nazionale di Zurigo. Una visita quantomai istruttiva. Nelle sale, tutte le glorie patrie sono ripercorse: da Guglielmo Tell a Zwingli, riformatore guerriero; dall’orologeria al sistema bancario, dai fasti dell’industria alle grandi opere. Forse ricordare il ruolo svolto dalla forza lavoro straniera in alcune di quelle imprese sarebbe stato elegante. Ma nel Landesmuseum, a meno di non essermi perso qualche passaggio, il capitolo dell’immigrazione italiana mi pare pressoché assente, menzionato soltanto in un video d’un paio di minuti: mostra giovanotti dai capelli impomatati, bambinette con l’orecchino e gente che spinge valigie strette da corde attraverso i finestrini di un treno. Le immagini, anno 1971, furono girate a pochi passi da qui, nella stazione centrale. Oltre ad arrivarci, gli italiani ci andavano a fare Trainspotting, cioè a guardare i convogli che venivano e ripartivano per il Sud. Lo spettacolo inaspriva la nostalgia, ma dopotutto era gratis, e dunque tra i pochi svaghi che quegli uomini potessero permettersi.
Tra gli anni 50 e 70, gli italiani sbarcavano in Svizzera a ondate da 100 mila persone l’anno. Una dose massiccia era costituita da operai massa, manodopera non specializzata, braccia pronte allo sgobbo ovunque ce ne fosse bisogno. Oggi, il profilo di chi si spinge quassù è radicalmente mutato. Però, a differenza di quanto si sarebbe portati a credere, il flusso si è solo affievolito: senza contare i 60 mila frontalieri che ogni giorno pendolano tra Lombardia e Ticino, «siamo nell’ordine di decine di migliaia ogni anno» dice Guglielmo Bozzolini, che dirige la Fondazione Ecap Cgil occupandosi di formazione e sostegno per i nuovi arrivati. Certo, in tanti non ne hanno bisogno, essendo professionisti, imprenditori, laureati con fior fiore di titoli. Ma, nel tornado della famosa crisi, «assistiamo anche a una neo-immigrazione operaia». Arriva, indovinate da dove? Soprattutto dal Meridione. Si riversa nell’edilizia, la ristorazione, le pulizie. Per farsene un’idea meno disincarnata basta un giretto su internet. Le pagine dei socialnetwork traboccano di richieste ad altissima flessibilità. Nel senso che magari ci si presenta come magazzinieri, piastrellisti, carpentieri ferrati in cartongesso o muretti a secco. Però aggiungendo: Bravo anche in cucina. E, alla fine, la frase ricorrente è: Qualsiasi lavoro mi va bene. Nell’area zurighese la disoccupazione è all’1 per cento.
Per le offerte si fruga su siti quali arealavoro.ch o job.ch. «Due anni fa, mettemmo un annuncio. Cercavamo un aiuto cuoco. Trovammo la persona quasi subito. Ma, di sicuro clonata, la richiesta è ancora online. Non c’è modo di cancellarla e non passa settimana che qualcuno non ci chiami» dice Gaspare Leone, palermitano, quarant’anni, a Zurigo da una decina. Ha competenze finanziarie, ma un certo punto intuì che in Italia non l’avrebbero portato lontano. Con giustificato orgoglio, mi dice che adesso qui è Geschäftsführer. La parola può mettere apprensione, però niente paura: significa semplicemente amministratore. Nella fattispecie, direttore di sala: quella di Cacio & Pepe, ristorante giovane, ma già adocchiato dalle guide gourmet. Al timone, la signora Luciana di Marzio: fa cucina romana. Rigorosa, filologica. Dà lavoro a nove persone. Tra loro, Stefano, 27 anni, da Ostuni; alle spalle, maturità scientifica e qualche tentativo nel mondo del calcio: «Sono uno di quelli che vengono in Svizzera alla ventura. Dopo un paio di settimane che girovagavo, ho notato l’insegna del locale e mi sono fatto avanti».
Non è il primo a raccontarmi di aver trovato lavoro così, on the road. Ma da queste parti non puoi bighellonare più di tanto in cerca di contratto. In teoria, ti concedono solo tre mesi. E se fai cilecca ti tocca sloggiare. È una gara a cronometro. Contro il tempo, ma soprattutto contro il quattrino. La Confederazione non è mai stata un posto a buon mercato, però da quando – nel gennaio scorso – si è deciso di sganciare il franco dall’euro, portandolo praticamente a parità con la valuta Ue, il costo della vita si è fatto proibitivo per chiunque non sia integrato nella Swiss Way ofLife. Con meno di 4-5.000 euro al mese qui non respiri correttamente. A Zurigo, un kebab sta a 13 euro. Una birretta a 8. Il caffè a 5. Certo, un lavapiatti prende da tremila franchi in su. Ma per un appartamento di 80 metri quadrati in città l’affitto ne costa almeno 2.500. Aggiungeteci caparra più mensilità anticipate e il cohousing diventa scelta coatta. In più, vanno messi in conto i costi della cassa mutua obbligatoria, gli eventuali corsi di tedesco e i trasporti. «Senza lavoro non ti danno casa. E senza dimora non ottieni lavoro. Quindi devi trovare tutt’e due le cose insieme. Se non hai un contratto non puoi comprarti nemmeno l’abbonamento a bus e metrò o una carta telefonica». Se vieni assunto per più di un anno, puoi prendere il permesso quinquennale e, in prospettiva, quello permanente. Ma nel mercato del lavoro elvetico, permanente è parola grossa. Si licenzia facile. Tre mesi di preavviso e sei fuori. Però i qualificati si ricollocano con relativa facilità.
Nel febbraio 2014 la Svizzera ha approvato per referendum la reintroduzione di contingenti annuali per i lavoratori stranieri. Maggioritario nei cantoni germanofoni – ad eccezione delle città di Zurigo e Basilea – e in Ticino, il Si alle restrizioni è passato per meno di 20 mila schede. Ma è stato lo stesso un voto choc. Perché, in passato, analoghe iniziative popolari ordite dalla destra protezionista non erano mai riuscite a spuntarla. E adesso, che succede? Succede che la Confederazione dovrà rinegoziare gli accordi bilaterali con la Ue in fatto di libera circolazione delle persone. Correggendoli in che modo? «Qualcuno interpreta il fatto di aver svincolato il franco dall’euro come il segnale di una nuova volontà svizzera di slegarsi dall’Unione. Ma non si arriverà ai vecchi contingenti. O almeno: non con gli europei. I gruppi industriali sono contrari» ritiene Marco Magini, 30 anni, di Arezzo. Una laurea alla London School of Economics, si occupa di energie rinnovabili, e scrive libri: con il bel romanzo d’esordio. Come fossi solo (Giunti), è stato finalista al Premio Calvino. Magini ha lavorato a Zurigo, ma ora si sta trasferendo a Londra. Perché ha una compagna turca «e in Svizzera, senza passaporto europeo, non puoi restare a lungo».
Quali che siano i contraccolpi del referendum, questi italiani se ne sentono più o meno al riparo. Tra i laureati che incontro, prevalgono quelli con formazione tecnico-scientifica. All’inizio vivono, bene, di dottorati, «ma per restare nell’accademia c’è poco spazio e la maggior parte finisce nel privato» dice Gaia Restivo, palermitana, biologa; fa ricerca sui melanomi, ma anima pure italiadallestero.info, sito che racconta come ci vede la stampa straniera. Accedere alle specializzazioni è facile: «non ultimo perché appena il 20 per cento degli studenti svizzeri arriva fino all’università» ricorda Andrea Magno, 33 anni, romano, fisico qui riconvertito alla matematica finanziaria. Anche Grazia Frontoso, napoletana, ha studiato fisica. Ma a Zurigo lavora per un’azienda statunitense di software sulle catastrofi naturali valutate sul piano del rischio finanziario: «In Italia, rispetto all’ingegnere, il fisico è ancora visto come un teorico. Invece può essere versatile. E qui l’hanno capito».
Chi più chi meno, questi nuovi Italiener hanno tutti viaggiato, parlano inglese, hanno spesso partner stranieri, e a Zurigo dicono di trovarsi mica male: «È un ottimo compromesso. In un’ora o due di volo sei in Italia». Il tedesco lo masticano in pochi. Perché in molti ambienti di lavoro basta l’inglese. E d’altronde, «qui non si parla l’Hochdeutsch, il tedesco classico, ma un dialetto ancora più ostico. È come se in uffici e negozi si comunicasse in lombardo» dice Valeria Pinti, romana e pure lei fisica. Sta mettendo su parloitaIiano.com,un database di servizio dove chi vive all’estero potrà trovare professionisti italofoni, «dal medico al commercialista».
Insieme a Roberto Cammarano, salernitano, informatico, Mattia Lento, monzese, sceneggiatore web con dottorato in cinema, e altri, si danno da fare per l’associazione La Fabbrica di Zurigo. Era nata come emanazione in terra elvetica del laboratorio politico di Vendola, poi il legame s’è consumato («Qui Nichi non è mai venuto»), ma loro sono andati avanti lo stesso. Organizzano incontri e trasmissioni radio sui migranti, oltre a pranzi e feste che, al motto di Siamo tutti zurighesi, non vogliono restringere all’italianità.
Gli emigrati d’antan se ne restavano tra di loro, facevano sistema, gruppo e magari clan per necessità di sopravvivenza in un Paese che li vedeva come corpi estranei. I nuovi espatriati sono invece disseminati, fusi nel cosmopolitismo cittadino, non si aggregano più in luoghi specifici. Questo ne fa una realtà integrata, ma spesso pulviscolare, atomizzata, che tutt’al più si manifesta attraverso le nebulose reti sociali. Tra le comunità dei nuovi e dei vecchi italiani non c’è praticamente contatto. I giovani della Fabbrica cercano di gettare qualche ponte. Ritrovandosi in posti come il Punto d’incontro. Esiste dagli anni Settanta. Mischiandosi tra generazioni, ci si viene a mangiare, bere, giocare a carte, vedere le partite. Alle pareti copertine di Lp: Luciano Tajoli, Fausto Leali, Little Tony. Ma pure una foto della pasionaria Dolores Ibárruri. Perché il Punto nacque dall’alleanza di lavoratori italiani e spagnoli. E a tenerne le redini è un’altra pasionaria: l’asturiana Kuki Cueto, che sposò un calabrese, da poco scomparso. Me la presentano Gerardo Petta, avellinese, professore di italiano, e Santo Salamone, siciliano, per anni direttore di La Pagina, «unico giornale dell’immigrazione ancora in vita, ma in cerca d’una nuova identità». Con lo slogan Né padrini né padroni, la testata si voleva terza forza, apolitica, tra le pubblicazioni cattoliche e comuniste.
«Sulla nuova immigrazione» sogghigna Salamone «sarebbe interessante sentire i 140 e i 180». E chi sono? «Quelli da 140-180 mila franchi l’anno. I superstipendi. Non li troverà di certo al Punto d’incontro». Né altrove, se è per questo. Lavorano in banche, assicurazioni, finanza. Abitano magari in sciccosi quartieri dormitorio e tornano in Italia ogni weekend. Inavvicinabili, coi giornalisti non gradiscono parlare. Fa uno strano effetto metterli a confronto con l’immigrato Giovanni Garofoli, lo iellatissimo cameriere ciociaro interpretato da Nino Manfredi in Pane e cioccolata (1973), film che avrà preso qualche ruga, ma resta estremamente divertente. Insieme arcitaliano e antitaliano, Garofoli le prova tutte per inserirsi in Svizzera, si tinge addirittura i capelli di biondo, ma niente: il richiamo delle origini lo riacchiappa come una maledizione.
Lui forse non avrebbe mai messo piede in posti tipo il Ristorante Cooperativo: Pane, Vino e Pacifismo dal 1905. Fondato da esuli socialisti, è un altro luogo emblematico dell’immigrazione. Ci son passati in tanti, da Lenin a Brecht, perfino il Mussolini ancora socialista. Lo dirige Andrea Ermano, da Tolmezzo, Udine. Studioso di Aristotele, è venuto alla fine dei Settanta e, dopo aver insegnato all’università, ha deciso di occuparsi del locale a tempo pieno. Con i busti di Dante e Turati, i ritratti di Marx e Matteotti a dar la linea dell’arredamento, il Coopi – come lo chiamano tutti – è ristorante a prezzi popolari, rispetto alla media svizzera, ma anche centro d’aiuto per migranti a corto di risorse. Però chi sono oggi i lavoratori stranieri che vivono asperità paragonabili a quelle degli italiani d’un tempo? Negli anni Novanta, il testimone dello sfruttamento fu raccolto da rumeni, albanesi, ex jugoslavi. «Ora, tra gli europei, le situazioni più difficili le conoscono i portoghesi. Ma niente in confronto a pakistani o bengalesi, che comprano matrimoni combinati a 30 mila euro e per rimborsare il debito lavorano come pazzi, a qualsiasi condizione» spiega Ermano.
Il Cooperativo sta nel Kreis 4, il Quartiere 4, che assieme al 3 pullulava illo tempore di italiani. Sui documenti erano Gastarbeiter, lavoratori ospiti. Ma, come ricordava il giornalista e scrittore Dario Robbiani in un libro appassionante di qualche anno fa, gli svizzeri li chiamavano Cìnkali. Da cink, il «Cinque!» urlato da quegli sconosciuti durante le partite a morra. Alieni. E il pregiudizio – che ancora rimane, seppur stemperato in ironia – si rinvigoriva sull’onda di notizie che riempivano il Paese di sdegno e raccapriccio: « Un giovane padovano fu espulso per aver ucciso e messo in salamoia un cigno». Mentre «due meridionali furono costretti a fare fagotto per avere buttato nell’acqua calda un porcospino. Unico modo per togliere gli aculei».
Baracche, xenofobia talvolta omicida, stragi sul lavoro (88 morti, 56 italiani, e nessun colpevole, nel cantiere per la diga di Mattmark, cinquant’anni fa): sulla figura del Cìnkali si sono accumulate tante storie atroci e qualche cliché sentimentale. Ma è con passione asciutta che Lisa Rodoni, vicentina, rievoca quegli anni: «La destra agitava lo spettro dell’Überfremdung, l’inforestierimento, l’invasione straniera. Se ti vedevano con l’Unità rischiavi l’espulsione». Nel 1961, con il marito Sandro, aprirono la libreria italiana di Zurigo. Che nel tempo ha cambiato sede, ma rimanendo sempre nella stessa zona, a due passi dalla Langstrasse, ex main Street dell’immigrazione, ora irta di sex shop o inclassificabili baretti in bilico tra movida e meretricio. La libreria ne è circondata.
«Creammo questo posto per servire la manodopera italiana. Hoepli è per me il principe degli editori. Ricordo Pinna, un pastore sardo, imparò a fare l’elettricista leggendo quei manuali. Ma c’erano anche operai altamente specializzati. Venivano dalle Reggiane, dall’Ansaldo di Genova, dalla San Giorgio di Pistoia» dice Lisa. Poi sparisce nel retrobottega e torna con uno scatolone pieno di schede fotocopiate. Me ne traduce qualcuna dal tedesco: Dolci Danilo. In data 20/3 1960 ha tenuto una conferenza sulle condizioni di lavoro in Sicilia. Sono i rapporti della Bupo, la polizia politica. Saltarono fuori negli anni Novanta, e scoppiò il Fichenaffäre, lo scandalo degli archivi segreti. Settecentomila dossier.
Anche i coniugi Rodoni finirono in quei fascicoli: «Eravamo sorvegliati sin dal nostro primo incontro! Ci siamo chiesti come abbiano fatto a controllare la libreria tanto a lungo senza che ce ne accorgessimo. Poi abbiamo scoperto che una signora del palazzo di fronte affittava ai poliziotti una finestra dell’appartamento». Se ci avessero provato oggi, la visuale gli sarebbe stata impedita da un neon a forma di donna nuda.
Marco Cicala