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 2015  marzo 24 Martedì calendario

Notizie tratte da: Fernanda Pivano, Medaglioni, Skira editore 2014, pp. 192, 15,50 euro.Vedi Libro in gocce in scheda: 2309882Vedi Biblioteca in scheda: 2309029Filippo de Pisis Una cosa dà terribilmente sui nervi a de Pisis: negli ultimi tempi si lagna che a Burano c’è troppo rumore, perché i buranesi parlano con la voce altissima: pare sia l’abitudine di parlarsi urlando da una laguna all’altra

Notizie tratte da: Fernanda Pivano, Medaglioni, Skira editore 2014, pp. 192, 15,50 euro.

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Vedi Biblioteca in scheda: 2309029

Filippo de Pisis Una cosa dà terribilmente sui nervi a de Pisis: negli ultimi tempi si lagna che a Burano c’è troppo rumore, perché i buranesi parlano con la voce altissima: pare sia l’abitudine di parlarsi urlando da una laguna all’altra. (1948)

Luigi Spazzapan 1 [...] Spazzapan racconta di come sa cucinare da maestro. Per esempio, lui conosce tutti i modi di cucinare le lumache. Gli piacciono specialmente le lumache alla Parigina, e bisogna sentirgli descrivere il piatto con gli incavi dove si mettono le lumache e l’olio e il prezzemolo e poi le lumache arrivano tutte croccanti. (1947)

Luigi Spazzapan 2 Spazzapan con le sue bestemmie e la barba di tre giorni ha gusti raffinatissimi ed è pieno di nostalgie per l’eleganza viennese. Lasciamo andare il garofano rosso o bianco che per un certo tempo gli si vedeva immancabilmente all’occhiello; ma lo avete mai sentito spiegare che le vere scarpe da neve sono le scarpe di lustrino? Se gli chiedete perché, vi risponde perché la neve ci scivola sopra. Bisogna avere pazienza; Spazzapan è fatto così. (1947)

Felice Casorati 1 Casorati lo chiamano: Dondolo. Il soprannome è assolutamente professionale. L’hanno inventato i colleghi, per via dell’atteggiamento che Casorati assume davanti a un quadro da giudicare. “Bel quadro”, incomincia Casorati. Poi si mette a dondolarsi spostando il peso del corpo da un piede all’altro. “Peccato però…” (1947)

Felice Casorati 2 Una decina di anni fa Pavarolo è stata letteralmente invasa dalle mosche; ed è stata l’energia di Casorati a risolvere la situazione per l’intera famiglia. Mi raccontano che Casorati ha eretto una specie di gabbia cinta da una zanzariera su un carro trainato da buoi, e poi è entrato nella gabbia con la moglie e il pupo e ha fatto un giro quasi trionfale per il paese. (1947)

Francesco Menzio 1 Menzio fa tutto lui, fino a darsi da sé il bianco alle camere. Una volta un amico aveva mal di denti. “Fa’ vedere”, dice Menzio premuroso. L’altro apre la bocca; e Menzio: “Già. Se avessi un trapano ti metterei a posto in un momento”. Mi raccontano che quando la signora aspettava il bambino, viveva in un’ansia indicibile perché il marito le aveva ripetutamente promesso che avrebbe fatto lui da ostetrica. (1947)

Francesco Menzio 2 Da ragazzo era la disperazione di sua madre, perché si rifiutava di portare indumenti nuovi. Appena gli davano un paio di scarpe, lui subito le tagliuzzava con una lama gillette perché sembrassero vecchie; e così faceva coi vestiti. (1947)

Italo Cremona 1 Con Mollino e Paola Levi, Italo Cremona ha creato il gruppo dei problematisti e cerca riallacciamenti tra le sue tendenze di oggi e di quando era bambino. Allora giocava a Nerone: aveva una piccola lira, cantava e incendiava una piccola Roma di cartone. Cresciuto, ha messo un chilo di rane vive in una buca delle lettere. Oggi è preoccupato perché se uno imposta una lettera e poi si pente, come deve fare? L’angoscia è la sua problematica permanente. (1947)

Italo Cremona 2 [...] Cremona è un uomo fortunato nei disastri. A dodici o quattordici anni gli è caduto un pavimento sotto i piedi al Cavour ed è rimasto attaccato con un dito mignolo a un rubinetto. Quando ha iniziato a fare lo scenografo cinematografico, gli sono caduti in testa trecento fiaschi e grazie al cappello non si è fatto niente. Ora ha l’abitudine di portare sempre il cappello, pure quando sta a tavola. Sarà calvo. (1947)

Renato Guttuso Lo studio di Guttuso è pieno di ragnatele e di quadri incominciati (glieli comprano con un ritmo che non si capisce come faccia a finirli) e nel retro c’è una sua statua di donna con un fiasco sfondato al posto della testa. (1947)

Augusto Bertinaria Dipingeva con la padella e faceva un quadro all’anno. (1947)

Benedetto Mazzacurati 1 Ho visto pochi artisti diligenti come Mazzacurati, e non soltanto in prossimità dei concerti. La diligenza diventa precauzione, a volte. Per esempio, un giorno gli hanno chiesto perché teneva la Topolino anziché una 1100. “Perché è più leggera da portare”, ha detto. “Una più pesante potrebbe stancarmi i polsi.” E che Mazzacurati a Cervia facesse il bagno coi guanti di gomma calzati per evitare i reumatismi è cosa risaputa. (1947)

Benedetto Mazzacurati 2 Quando si arrabbia Mazzacurati balbetta un tantino; e fa delle gaffes. Anche per raccogliere le sue gaffes non basterebbe un volume. Un giorno viene a pranzo da noi e mia madre si dà da fare a preparargli i suoi piatti preferiti: cavolo nero e crocchette di pollo e non so cos’altro. Dopo pranzo andiamo tutti a casa sua per vedere certi cristalli che gli erano arrivati da non so dove, e davanti a noi risponde al telefono. Una signora che lo invitava a cena; e Mazzacurati, tranquillissimo: “No, guarda, stasera non vengo. Ho già dovuto andare a un pranzo stamane e ora ho lo stomaco troppo rovinato”. Mia madre non lo ha mai più invitato a pranzo. (1947)

Antonio Guarnieri Quella volta a Riccione, che Mazzacurati per poco lo investiva lui e il suo cane, con la Topolino. Mazzacurati era vestito a modo suo, con giacca gialla, pantaloni verdi, calzettoni rossi e così via; Guarnieri lo guarda precipitarglisi incontro dalla macchina e dice tutto calmo: “Oh, sei tu, Benedetto. Ti avevo preso per un semaforo”. (1947)

Leo Longanesi Longanesi porta il gilet e il cappello anche d’estate e spesso vado a cena con lui alla Brasserie Meneghina, dove chiede prosciutto crudo e una bottiglia di Sambuca coi chicchi di caffè, lascia il prosciutto intatto ma beve la Sambuca come fosse acqua (1954)

Al Capone Nei momenti di maggior splendore, Al Capone andava a teatro con diciotto guardie del corpo in abito da sera. (1951)

Paco Rabanne I primi orecchini di Paco Rabanne che vidi erano quadrati, di rodoid arancione coi cerchietti di rodoid bianco e rosa agganciati l’uno sopra l’altro; e mi misero una gran curiosità di sapere chi li aveva fatti. Non fu facile. Non fu facile scoprirlo: nessuno sapeva chi fosse, questo Paco Rabanne, e i pochissimi che lo sapevano ne parlavano come di uno scriteriato che si divertiva a giocare e prendere in giro tutti. [...] Era stata Coco Chanel a imporre alla moda una bijouterie ricalcata sui gioielli preziosi che lei possedeva e aveva riprodotto in imitazioni costose; ma Paco Rabanne li aborriva, aveva fatto gioielli dichiaratamente toc, falsi, senza pretese di imitazioni. Quando li aveva fatti sfilare alla Ville Bagatelle insieme ai suoi cappelli esagonali o a strisce snodate di plastica leggera, tutti gli avevano dato del matto e lo stesso era avvenuto quando aveva fatto nell’albergo George V la sfilata dimostrativa di vestiti che mostrassero ai sarti le possibilità dei materiali plastici. Quante sono le ragazze che non hanno desiderato, anni dopo, indossare una casacca di bolli di plastica annodati con catenine? (1997)

Alberto Moravia 1 Mica è facile avere a che fare con Moravia. Vi pianta in faccia quei suoi occhi alla Passavanti, e quando vi sentite trivellati e cercate almeno di vedere il suo sguardo, gli occhi sono già voltati chissà dove e Moravia sta disegnando un pupazzo sulla tovaglia o sta distruggendo la prima cosa che gli è capitata tra le mani. (1947)

Alberto Moravia 2 Moravia è violentissimo nella sua irrequietezza. Basta ricordarlo al Congresso Internazionale di Filosofia, quando a forza di gridare e di agitare l’ombrello, ha rischiato di farsi cacciar fuori dai carabinieri di servizio. E basta ricordare la storiella del tramviere. Si sa come funzionano gli autobus e i tram di Roma. Una volta Moravia prende la solita circolare e non so come si mette a litigare col tramviere. A un certo momento scende, e il tramviere gli grida dietro “Ignorante!”. Be’, si è visto Moravia correre dietro al tram, agitando l’ombrello, fino alla fermata successiva, e quando le porte si sono riaperte lo si è sentito gridare, tutto trafelato: “Ignorante sarà lei!”. (1947)

Alberto Moravia 3 Quando è tra amici si limita a giocherellare con quello che gli capita sotto mano. Gli amici lo sanno e tengono pronti oggetti vecchi e diventati inutili. Piovene per esempio ha un vecchio accendisigari e quando Moravia va a pranzo da lui glielo fa trovare vicino alle posate. Povero Piovene, nessuno potrebbe dargli torto, dopo l’avventura dei suoi cristalli veneziani. Perché una sera Piovene invita a pranzo Moravia, e quando arriva a casa si accorge con raccapriccio che avevano messo in tavola un suo stupendo servizio di bicchieri veneziani del ’700 (“Verde e oro, così belli”, racconta Piovene. Era il periodo della sua mania antiquaria). Con grande ansietà assiste allo svolgimento del pranzo e quando Moravia incomincia ad agitarsi, come sempre dopo mezz’ora che è seduto, non riesce a tenersi e gli dice: “Mi raccomando, davvero. Guarda che questi bicchieri sono molto belli”. “Sì”, dice Moravia tutto compunto. “Sono proprio belli.” Prende il tappo della bottiglia, di cristallo massiccio, per guardarlo; e naturalmente lo lascia cadere nel bicchiere. Pare che Piovene abbia smesso da allora di occuparsi di antiquariato. (1947)

Alberto Moravia 4 Moravia ha trentanove anni (è nato il 29 novembre, per chi voglia mandargli gli auguri), pesa settantasette chili nudo, è molto signore, ha pubblicato Gli indifferenti a sue spese perché nessun editore l’ha voluto, è stato definito il primo romanziere esistenzialista d’Europa da “Die Weltwoche” di Zurigo, ha girato mezzo mondo, dalla Cina al Messico, è considerato dalle riviste straniere lo scrittore contemporaneo più importante d’Italia, se gli chiedete un autografo vi dà un foglio dattiloscritto (come è capitato alle Pleiadi a Roma), gli piace la cicoria in brodo, non beve vino, non fuma, non usa turpiloquio, parla praticamente tutte le lingue parlate sulla faccia della terra, ha sposato una delle donne più affascinanti d’Italia, porta il berretto basco e camicie di colore, non gli piacciono i dolci, ha venduto La Romana a un regista americano, ha ceduto l’esclusiva dei racconti al “Tempo”, adotta e divulga le idee della moglie… (1947)

Mario Soldati Indossa dei vestiti stranissimi. Huber l’ha conosciuto con la barba di tre giorni: dicono che non si rade finché non ha finito il film. Una volta aveva una sveglia al posto dell’orologio. (1947)

Valentino Bompiani Un giorno è arrivato all’aeroporto di Roma con una valigia troppo pesante e gli hanno fatto pagare cinquanta lire per ogni chilo in più rispetto alla soglia massima: «Ah, come siete cari», ha commentato. Per il nervosismo si è poi pulito le unghie per tutta la durata del volo fino a Milano. (1947)

Dino Buzzati Quando gli dicono che il suo libro migliore è il primo Barnabo delle montagne s’arrabbia un po’ poi ammette: «Lo dice anche Radius, che è un uomo intelligente, allora sarà proprio così». (1947)

Giuseppe Marotta Beve circa trenta caffè al giorno e poi si lamenta di un eczema che gli ritorna ogni cinque minuti. (1947)

Elio Vittorini Elio Vittorini invece di discutere cerca di far discutere gli altri e poi dice la sua. Dà l’impressione di essere assente. Va addosso alla gente guardandola, anche nelle discussioni, e sbaglia sempre il numero del telefono. Un giorno si è arrabbiato con Max Huber, il designer incaricato di curare la grafica dell’intera casa editrice Einaudi, dicendo che per un suo lavoro aveva scelto dei colori da gelateria e ha buttato il libro per terra. Più tardi ha detto che erano belli. (1947)

Guido Piovene 1 Le sue manie non gli passano inosservate. Prima vittima del proprio trivellamento psicologico, Piovene ripensando alle raccolte di conchiglie, cartoline illustrate e biglietti del tram, con cui ha cominciato da ragazzo la sua carriera di monomane, conclude: “In fondo, scrivo per monomania”. L’illazione porterebbe a un altro discorso serio, però, e io preferisco fare una rapida rassegna di questa carriera. C’è stato il periodo delle pipe, per esempio; questo fu seguito dal periodo delle seggiole inglesi. Il periodo delle seggiole inglesi durò tre anni e mezzo e fu molto importante non solo perché lo assorbì a tal punto da non lasciargli più il tempo di fumare, né pipe né altro, ma perché fu il germe del periodo dell’antiquariato. (1947)

Guido Piovene 2 Piovene è abbastanza pigro – debole, dice lui – da lasciarsene dominare fino a non riconoscere la gente. Una sera raggiunge un amico sul quale esercitava una specie di tirannica autorità e lo trova che stava parlando con Maccari. Piovene dà un’occhiata distratta a Maccari e chissà perché lo prende per Mafai, che pure non gli somiglia affatto. A un certo momento l’amico dice: “Senti, Maccari…”. E Piovene: “Ma cosa dici. Non vedi che non è Maccari?”. “Come, non sono Maccari”, rispose indignatissimo il noto pittore. (1947)

Guido Piovene 3 Dicono che gli tenga ancora il broncio un autorevolissimo personaggio. Piovene lo rivide dopo un lungo periodo di assenza e lo trovò molto sciupato. “Come va, cosa fa di bello?”, gli chiede. “Eh”, risponde
l’altro, “sto per partire per un lungo viaggio.” “Ma cosa dice”, lo consola Piovene compitissimo. “Vuol scherzare. Lei camperà ancora cento anni.” “Ma… ma… ma cosa le viene in mente. Le stavo dicendo che sto per
partire per il Giappone.” (1947)

Orio Vergani A Roma lo chiamavano Ovvio. A Milano Olio. (1947)

Carla Fracci Fuori dal palcoscenico non è una fata, è una paziente professionista che non smette un attimo di pensare al suo lavoro. La ricordo in un teatro all’aperto a Torre del Lago una sera che il tempo incerto minacciava la pioggia e tutti stavano a difendere i loro violini o le loro parrucche; fuori dai ripari, aggrappata a un tubo Innocenti come a una sbarra, Carla impassibile “si scaldava le gambe”, come dicono loro, senza stancarsi, facendo diventare quel tubo arrugginito una specie di miracoloso supporto per la sua agilità. (1994)

Marilyn Monroe La sera del matrimonio Joe Di Maggio era riuscito a nascondere Marilyn, nel suo paltoncino di satin nero e il collettino di ermellino bianco, dentro la sua Cadillac azzurra, ma l’aveva portata al motel Clifton da tre dollari a Paso Robles, a duecentocinquanta chilometri da Los Angeles, aveva chiesto una televisione e si era chiuso in camera con lei per quattro giorni. (1999)

Marlene Dietrich 1 Marlene Dietrich la incontrai su un aereo. Era forse il 1960 e da New York ritornavo a Parigi. Marlene aveva riservato per sé tutta la prima classe, dove venivano allestite le cuccette per la notte (un uso, credo, scomparso, o forse rimasto per i voli molto lunghi) e di prima mattina era venuta a sedersi fuori della sua cabina perché le rassettassero il letto. Era struccata e bellissima, da mozzare il fiato, con quegli occhi ancora più maliardi di quanto apparissero nei film. Andai a salutarla, le dissi che ero amica di Hemingway e diventò subito dolce e gentile come se ci conoscessimo da anni. Parlammo di lui, naturalmente, delle sue vicende sentimentali così tormentate, del suo desiderio di figli, della sua delusione per l’ultima moglie Mary che dopo un cesareo sfortunato non poteva più averne. “È un padre nato”, disse, e mi confidò, come già aveva fatto Hemingway, che erano stati spesso sull’orlo dell’amore, ma non lo avevano mai vissuto, perché o l’uno o l’altra erano impegnati con qualcuno. Eppure Marlene era
molto attratta da lui: ancora il 13 febbraio 1955 pubblicò, alludendo a Hemingway, un articolo su “This Week Magazine” col titolo: L’uomo più affascinante che conosco. (1992)

Marlene Dietrich 2 Raccontò anche il suo primo incontro con lui, ormai incluso in tutte le biografie di entrambi, sulla “Île de France” diretta verso New York mentre Hemingway, nel pieno della sua prestanza e del suo charme, ritornava dal suo primo safari. Quella sera a bordo Marlene era entrata (“Un’apparizione”, disse poi Hemingway) nella sala da pranzo per raggiungere qualcuno che l’aveva invitata. Tutti gli uomini della tavolata si erano alzati per offrirle la loro seggiola ma lei si accorse che sarebbe stata la tredicesima e si voltò per andarsene. Hemingway le si avvicinò e le propose cavallerescamente di fare lui da quattordicesimo: nacque così un’amicizia che durò tutta la vita (Marlene fu una delle ultime persone a parlargli per telefono). (1992)

Marlene Dietrich 3 Quanto era bella. “Come fai a essere così bella?”, le chiesi. “Oh”, rispose con quel suo sorriso più arguto che ironico. “Basta fare l’amore cinque volte al giorno.” Protestai: “E una sposata da undici anni come deve fare?”. “Ah”, disse lei sgranando quegli occhioni, “mica sempre col marito.” (1992)