varie 24/3/2015, 24 marzo 2015
ARTICOLI SUGLI ORIUNDI IN NAZIONALE DAI GIORNALI DI MARTEDI’ 24 MARZO 2015
ALESSANDRO BOCCI, CORRIERE DELLA SERA -
Il dibattito è aperto. «Credo che in Nazionale dovrebbe andare solo chi è nato in Italia», attacca Roberto Mancini. «Se si rispetta il regolamento non vedo il problema. Io con Camoranesi ho vinto il Mondiale. Se Ronaldo o Messi avessero avuto parenti italiani nessuno avrebbe da ridire», replica Marcello Lippi.
La questione è destinata a far discutere. Antonio Conte ha radunato gli azzurri quattro mesi dopo l’ultima volta e lo ha fatto inserendo nell’elenco due giocatori nati lontano dall’Italia: il brasiliano Eder della Sampdoria e l’argentino Vazquez del Palermo. E almeno altri due sono sotto osservazione: Sebastian De Maio, difensore francese del Genoa, e Matias Vecino, centrocampista uruguaiano dell’Empoli ma di proprietà della Fiorentina. Senza contare che Dybala, il più bravo di tutti, ha declinato l’invito (come aveva fatto a suo tempo Icardi) per aspettare l’Argentina. «Cosa posso dire? Non sono il primo a convocare gli oriundi e non sarò neppure l’ultimo», si difende Antonio.
In passato era un modo per aumentare il valore della squadra, come nel caso di Camoranesi. Negli ultimi anni la qualità è scaduta ed è l’ennesima conferma di quanto sia in difficoltà il nostro movimento in un campionato in cui gli eleggibili superano di poco la soglia del 30 per cento. «Non ho fatto niente di strano», insiste Conte. Del resto all’ultimo Mondiale gli oriundi erano 83 su 736 giocatori. «Sono le regole, così va il calcio». Così va lo sport. Soltanto che nel pallone fa più discutere.
La questione si dimena tra necessità e principi. I puristi vorrebbero solo italiani a difendere il proprio Paese e non stranieri che rimediano un passaporto grazie a un lontano parente e considerano la maglia azzurra solo un’opportunità professionale. Cesare Prandelli, per ammorbidire l’effetto, chiamava soltanto giocatori che gli assicuravano passione azzurra. Sentimenti, oltreché tecnica. Nel caso di Vazquez il termine oriundo è esagerato perché il «Mudo» è nato in Argentina, ma sua madre, Marina, è di Padova. E il suo legame con l’Italia è forte. In ogni caso lui ed Eder l’Italia dovranno guadagnarsela e in questo caso il luogo di nascita non c’entra niente. «Li avrei chiamati volentieri un mese fa, magari con Sansone del Sassuolo, se avessi potuto fare gli stage, così avrei avuto le idee più chiare», la frecciata del c.t., «invece li valuterò in ritiro», Il discorso vale anche per Valdifiori, il terzo debuttante del gruppo. L’esame è cominciato ieri a Coverciano con una giornata piena: tattica al mattino, schemi sul campo nel pomeriggio.
Conte con la tuta e il fischietto è sempre lui, fuori però ha deciso di cambiare atteggiamento perché il sistema è una palude piena di sabbie mobili e le sue battaglie rischiano di trasformarsi in un effimero assalto ai mulini a vento: «Questi mesi mi hanno insegnato a tenere la testa bassa e a concentrarmi sul lavoro senza guardare cosa succede intorno», dice per non diventare novello Don Chisciotte.
Il sistema non cambia, la Nazionale invece si. Basti pensare che più del 50 per cento dei giocatori ora in ritiro non erano presenti al Mondiale. Mentre l’infortunio di Pirlo e lo scadimento di De Rossi lanciano la stella Verratti, già ieri provato al centro della scena: «È arrivato il momento di scoprire le carte. Marco avrà l’opportunità di prendere in mano la Nazionale». Non la sprechi.
Alessandro Bocci
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ALBERTO COSTA, CORRIERE DELLA SERA -
Due, nella sostanza, le riflessioni di Antonio Conte a proposito della convocazione azzurra di Eder, brasiliano di 28 anni, e di Franco Vazquez, argentino 26enne con madre padovana. La prima («Ogni mia decisione scatena polemiche») è la conferma di quanto sia pronunciato l’ego del c.t., il quale si sente evidentemente centrale rispetto al sistema-pallone. La seconda («Altri al mio posto avrebbero fatto come me») è decisamente più opinabile: in effetti altri, al suo posto, avrebbero rinunciato all’oriundo, quanto meno per una questione «ideologica». Si tratta di decidere se a livello di Nazionale il traguardo della vittoria sia da perseguire utilizzando tutti i grimaldelli consentiti dalla burocrazia, anche quelli border line, oppure se sia comunque preferibile preservare l’identità della squadra, magari a scapito di qualche convocazione tirata per i capelli. In questo senso non v’è dubbio che la chiamata di Eder, più di quella di Vazquez, alimenti perplessità sostanziali ma anche formali. Le radici italiane del sampdoriano sono infatti piuttosto sfumate, in pochi sanno che oltre le colonne d’Ercole di quel nome confidenziale si sommi un cognome che di nostrano ha il nulla assoluto (Citadin Martins). Va pure osservato che, per fare posto a Eder (9 reti), il c.t. ha accantonato due italiani doc come Paloschi e Destro, 7 gol ciascuno nonostante un utilizzo meno continuo rispetto a Eder. In tema di «azzurrabilità» concordiamo con Mancini: disco verde per chi è nato in Italia (i vari Okaka, Balotelli ed Ogbonna per esemplificare) e per chi, pur nato altrove, è figlio di almeno un genitore italiano. Niet, invece, per le suggestioni tipo Eder. Che poi tra gli attaccanti convocati da Conte figurino Graziano Pellè il cui ultimo gol è datato 20 dicembre, Ciro Immobile che nel 2015 ha firmato due sole reti e Vazquez a secco dal 14 febbraio, è tutta un’altra storia.
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PAOLO TOMASELLI, CORRIERE DELLA SERA -
Il papà lo ho ribattezzato Eder come l’attaccante del Brasile che giocò contro l’Italia di Paolo Rossi nella mitica sfida del Sarria (4 luglio 1982), ma non certo per la prestazione deludente di quel pomeriggio torrido. Semplicemente, era tifoso di una delle tante squadre di «O Canhao», il cannone, celebre per il suo tiro potente. E a giudicare dal destro su punizione che ha steso domenica sera l’Inter, il papà di Citadin Martins, detto appunto Eder, ha azzeccato tutto. O quasi, perché la Seleçao in fondo è il sogno di ogni brasiliano, anche di chi è arrivato in Italia a 17 anni alla Primavera dell’Empoli. Quarantacinque chilometri più in là ieri è iniziata la carriera azzurra («Il coronamento di un sogno») di questo attaccante veloce, tecnico e nel pieno della maturità, cresciuto tra alti e bassi (27 gol con l’Empoli in B nel 2009-2010 sono il suo record) sui campi della nostra provincia in B anche col Frosinone e poi in A con Cesena, Brescia e Samp.
L’attaccante arrivato a Genova nel gennaio 2012 è cresciuto a Lauro Muller, un paesino di 13 mila abitanti chiamato come il tedesco che lo ha fondato nello Stato di Santa Catarina, terra di grande immigrazione anche italiana. Eder ha iniziato con il calcetto, poi è finito, al Criciuma, ex squadra anche di Maicon. Lì lo hanno scovato gli osservatori dell’Empoli, dove è diventato un calciatore: brasiliano certo, ma italiano di formazione e dal 2010 anche di cittadinanza. Grazie al bisnonno — Battista Righetto — partito da Nove, una frazione di Vittorio Veneto in provincia di Treviso. Eder, detto Eddie dallo staff della Samp, ha sposato una ragazza del suo paese, ha un figlio piccolo e oggi la sua Italia, fuori dal campo, è tra Bogliasco, il cinema alla Fiumara, il ristorante preferito a Sestri Levante. In campo l’attaccante di Mihajlovic è diventato un leader silenzioso, preso ad esempio dai compagni per la sua serietà, ma anche per la capacità tutta brasiliana di vivere il calcio con grande serenità. E con grande fede in Dio, dato che uno dei luoghi preferiti di Eder a Genova è il Santuario della Madonna della Guardia. La Nazionale non è un’idea nata in questo momento magico — 9 gol, 5 assist e 17 punti conquistati grazie a lui dalla Samp — perché già due anni fa, ai giornali brasiliani, il ragazzo cresciuto a riso e fagioli aveva dichiarato di puntare alla maglia azzurra.
Se il sampdoriano voluto da Conte per cambiare marcia all’attacco è silenzioso, timido ed educato, Franco Vazquez è «El Mudo», il muto, fin da bambino. Sulla sua italianità ci sono meno perplessità, considerato che la madre, cognome Bianconi, è di Padova. Il trequartista di Tanti, provincia di Cordoba, è arrivato al Palermo nel gennaio 2012 dal Belgrano, ed è stato rilanciato l’anno scorso da Iachini dopo le panchine e le tribune che lo avevano quasi convinto a lasciare il nostro calcio. Anche lui non è un predestinato, ma un buon giocatore che ha fatto la gavetta e ha dimostrato di avere le qualità e la fame giusta, tutto quello che ha colpito Antonio Conte, oltre ai 7 gol e all’intesa perfetta con Dybala, nella speranza, naufragata, di avere tutti e due in Nazionale. «La maglia azzurra per me non è un ripiego rispetto all’Argentina. Io grazie a mia mamma mi sento mezzo italiano» ha detto Franco a Sport Week . E se Eder preferisce le donne brasiliane, Vazquez, fidanzato con Agostina, sceglie le argentine e ha dichiarato che non sposerebbe mai un’italiana: «Perché il giorno che tornassi in Argentina sarebbe difficile convincerla a seguirmi». Moglie e buoi dei paesi tuoi. Ma sulla Nazionale si può discutere
Paolo Tomaselli
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FABIO MONTI, CORRIERE DELLA SERA -
Il termine oriundo, sul quale, almeno nello sport, si discute da decenni, deriva dal latino oriundum, gerundio del verbo oriri («nascere, trarre origini»), per indicare chi, nato e residente in una nazione, discende da genitori o antenati, che si sono trasferiti dal Paese d’origine. È da 101 anni che la Nazionale di calcio fa appello agli oriundi. La storia inizia con Eugenio Mosso, nato a Mendoza, in Argentina, attaccante del Torino, una presenza in Nazionale (5 aprile 1914, Italia-Svizzera 1-1). Nel 1920 era toccato all’interista Ermanno Aebi (attaccante, svizzero di nascita) e a Emilio Badini (centrocampista del Bologna, nato a Rosario), presente ai Giochi Olimpici di Anversa 1920.
Era stato Mussolini a spalancare le porte agli oriundi per sottolineare l’italianità di chi era emigrato e per aumentare la forza della Nazionale, in coincidenza con la Coppa del mondo giocata in Italia nel 1934. Già nella seconda metà degli anni Venti, avevano trovato spazio in azzurro campioni come Julio Libonatti, nato a Rosario (15 gol in 17 partite, il più prolifico) oppure il grande Attila Sallustro, attaccante del Napoli, nato nel 1908 ad Asuncion in Paraguay, famoso anche per il suo matrimonio con la soubrette Lucy D’Albert.
Nella squadra guidata da Vittorio Pozzo, capace di vincere il titolo, c’erano cinque oriundi: gli argentini Luisito Monti e Mumo Orsi (Juve), Enrique Guaita (Roma) e Attilio Demaria (Inter), che avevano avuto un ruolo decisivo nella conquista del titolo più Amphilóquio Marques Guarisi, italianizzato con il nome di Anfilogino Guarisi, nato a San Paolo e 1 presenza (con gli Usa). Di Guaita il gol nella semifinale con l’Austria a Milano (1-0); di Orsi la rete del pareggio nella finale con la Cecoslovacchia, prima del 2-1 di Schiavio ai supplementari. Il bello è che tutti avevano già giocato nella nazionale argentina e brasiliana. Non aveva partecipato al Mondiale 1934 Renato Cesarini, nato a Senigallia, ma cresciuto a Buenos Aires (dove si era trasferito con la famiglia, nel 1908, a meno di due anni di età), quattro scudetti con la Juve, 11 presenze in azzurro, l’ultima l’11 febbraio 1934 (Italia-Austria 2-4), geniale mezz’ala, passato alla storia anche per i suoi gol negli ultimi minuti. Nell’Italia campione del mondo nel 1938, c’era invece un solo oriundo, Miguel Ángel Andriolo Frodella, italianizzato in Michele Andreolo, nato a Carmelo, in Uruguay.
L’argomento era tornato di moda, dopo la tragedia di Superga (4 maggio 1949). Senza più il Grande Torino, che deteneva la maggioranza assoluta in Nazionale, i vertici del calcio italiano avevano spalancato un’altra volta le porte agli oriundi, con risultati modesti. Fra gli altri erano stati «italianizzati» Ghiggia e Schiaffino, che avevano vinto il Mondiale nel 1950 (2-1 al Brasile al Maracanà), ma in azzurro erano finiti anche i tre «angeli dalla faccia sporca» (argentini): Sivori (8 gol in nove partite), Maschio e Angelillo oppure José Altafini (6 presenze e cinque gol), naturalizzato italiano, dopoché a vent’anni aveva vinto il titolo con il Brasile nel 1958, quando si chiamava Mazzola. Anni cupi per la Nazionale, che aveva addirittura mancato la partecipazione al Mondiale 1958, evento mai più accaduto. La tempestosa eliminazione in Cile nel 1962 aveva convinto la Figc all’autarchia un anno dopo.
È stato Giovanni Trapattoni a scrivere un nuovo capitolo della storia, con la convocazione di Mauro German Camoranesi, nato a Tandil (Argentina) nel 1976, esordio in azzurro il 12 febbraio 2003 (1-0 con il Portogallo), 40 anni dopo Angelo Benedicto Sormani, l’ultimo degli oriundi convocati (13 ottobre 1963, Urss-Italia 2-0), prima dello stop. Una lunga storia (55 presenze) e un ruolo da titolare anche al Mondiale 2006 (5 partite giocate, finale compresa), con corollario di polemiche per la storia dell’inno nazionale, ma settimo oriundo a vincere il titolo con l’Italia. È stato il via libera ad una nuova politica federale, che ha portato in azzurro Thiago Motta, vice campione d’Europa nel 2012 nell’Italia di Prandelli e che ora prosegue con Eder e Vazquez.
Fabio Monti
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VITTORIO FELTRI, IL GIORNALE -
È noto che il calcio si alimenta di polemiche, senza le quali probabilmente non susciterebbe tanto entusiasmo popolare. Ma quella scoppiata negli ultimi giorni non ci sembra opportuna né fondata. Il ct della Nazionale, Conte, ha convocato per la prossima partita, valida per le qualificazioni al campionato europeo del 2016, due oriundi: Eder (Sampdoria) e Vazquez (Palermo) che hanno il doppio passaporto e non sono nati in Italia.
E c’è chi non ha digerito la scelta dell’ex allenatore della Juventus. Roberto Mancini, ad esempio, afferma che solamente i nostri connazionali hanno il diritto di indossare la maglia azzurra. E precisa: non importa se la nostra rappresentativa schiera giocatori di genitori stranieri; ciò che conta è che essi siano venuti al mondo nel Bel Paese. È una teoria rispettabile. D’altronde il Mundial del 1982 lo vincemmo con undici compatrioti, se si esclude Gentile (terzino insuperabile e di ferro) che nacque in Libia da una coppia di sposi italianissini, e sarebbe una forzatura considerarlo forestiero.
Anche nel 2006 in Germania, quando battemmo in finale la Francia (ai rigori) la formazione era nostrana, con una sola eccezione: Camoranesi, oriundo, un cognome che più italiano non si può. Non solo. L’ostracismo verso gli stranieri non è una novità. Nel 1962 gli azzurri parteciparono alla coppa Rimet in Cile, e scesero in campo con due oriundi, Maschio e Altafini, per affrontare l’equipe locale. Più che una partita fu una guerra: la chiamarono la Battaglia di Santiago. Inutile dire che perdemmo, incassando più pugni che gol.
Da quel momento gli oriundi furono messi al bando. Solamente Altafini sarebbe stato tollerato, eccezionalmente, per mancanza di un centrattacco casereccio. Anche se poi non vestì più l’azzurro nemmeno lui. E le cose non migliorarono. Quattro anni più tardi, nel 1966, in Inghilterra fummo eliminati dalla Corea del Nord, e sottolineo Nord: rete di un dentista passato alla storia, anzi alla barzelletta. Nel 1968 la squadra azzurra, complice la famosa o famigerata monetina, vinse gli Europei senza l’aiuto di oriundi, considerati mercenari, buoni per i club, non per rappresentare la patria pallonara. Questa è la tribolata storia della legione straniera.
Ma attenzione. Per lungo tempo anche i club furono costretti a limitare a due (massimo tre) le presenze di atleti non indigeni. Ciononostante, le nostre squadre non sfigurarono nelle competizioni internazionali, anzi, si aggiudicarono varie coppe. Poi entrarono in vigore le leggi europee che hanno incasinato l’intero sistema: i calciatori comunitari hanno il diritto di essere ingaggiati da chi desidera utilizzarli. Adesso, se scorri la formazione dell’Inter e della Fiorentina, per citarne due, non trovi un nome italiano neanche a cercarlo con il lanternino. Oddio, talvolta i nerazzurri si avvalgono di Ranocchia e Santon, ma i loro compagni o sono di colore o hanno cognomi pieni di «X», «Y» e «K», talché imparare a memoria l’«undici» nerazzurro o viola è un’impresa che riesce soltanto ai telecronisti.
I calciatori made in Italy sono rarità, roba da amatori e collezionisti. Gli allievi dei vivai giovanili, quand’anche promettenti, non trovano posto in prima squadra e sono obbligati a scendere in serie B e nella vecchia serie C che non offrono palcoscenici in vista. Perfino tanti campioncini rimangono nel limbo del calcio minore e lì appassiscono senza aver avuto la possibilità di essere valorizzati. Guardate gli ultimi arrivati in nazionale: Valdifiori e lo stesso Eder, hanno 28 anni e soltanto ora sono riusciti - per caso e per fortuna - a emergere nel mucchio selvaggio delle speranze, di norma tradite per carenza di entusiasmo. Il mondo, incluso quello della palla, è cambiato naturalmente in peggio per un motivo semplice e drammatico: i mediatori (detti procuratori) pescano brocchi sul mercato estero e li rifilano alla società a prezzi modici (si fa per dire) e trascurano i nostri «prodotti» perché si prestano meno a pastette, cioè imbrogli e stecche sottobanco.
Il calcio si è imbastardito, troppa gente mangia nella greppia delle intermediazioni e per i ragazzi di talento non c’è spazio poiché nessuno ha l’interesse di promuoverli, non rendono subito sul piano commerciale. Con le squadre imbottite di stranieri, i giovani rimangono in anticamera a fare tappezzeria. E la nazionale ne soffre, non ha ricambi, zero virgulti. Ovvio che il povero Conte, boicottato dalle società (per sua ammissione), è costretto a rispolverare gli oriundi.
Non ci piacciono? Il rimedio c’è. Così come in politica e nelle aziende pubbliche sono state introdotte le quote rosa in omaggio al principio «largo alle donne», si applichi il medesimo criterio nel football imponendo le quote tricolori alle squadre professioniste. I frutti sono garantiti, con buona pace di Mancini e di chi predica bene per la nazionale e razzola male nel proprio club.
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STEFANO BARTEZZAGHI, LA REPUBBLICA -
La convocazione dell’oriundo” sarà anche un problema calcistico serio, ma non vi sembra un titolo degno di un apocrifo di Paolo Conte? “Oriundo” è una parola che solo il maestro di Asti saprebbe infilare in una delle sue rime come quella fra “bovindo” e “tamarindo”.
PER poter cogliere appieno la suggestione della parola “oriundo”, e ricavarne il massimo dell’impatto sonoro e immaginativo, probabilmente è necessario avere incominciato a incollare figurine all’album all’epoca in cui andava fatto ancora con la coccoina, ovvero nella gloriosa fase di transizione della “cellina biadesiva”: la fine degli anni Sessanta. Una parola da maschi, ché le femmine allora né giocavano a calcio né attaccavano figurine, ed erano legittimate a pensare che una parola come “oriundo” fosse un termine di turpiloquio, proprio in quanto di uso fondamentalmente maschile. Ai tempi “dell’oriundo”, in panchina si trovava anche l’allenatore chiamato Oronzo (Pugliese) e, sciocchi come si era e in parte si è rimasti, pote- declamare parole e nomi simili per ore, senza poter mai giustificare l’ilarità che ci ispiravano.
Ma “oriundo” non era affatto un nonsense. I calciatori “oriundi” appartenevano a una categoria che andava all’esaurimento: non ne venivano tesserati di nuovi, le frontiere si erano serrate da un pezzo; ma alcuni delle ultime ondate erano ancora in attività (Sivori! Sormani! Pesaola! l’intramontabile Altafini!) e il loro status veniva segnalato dalle sobrie didascalie dell’editore Panini: “oriundo”. Nessuno spiegava ai piccoli collezionisti di allora che l’aggettivo derivava dal gerundivo del latino oriri, nascere, avere origine. Significava qualcosa come “indigeno”, insomma, ma senza connotazioni sgradevoli (“indigeni” era allora un sinonimo di “primitivi”, con il tremendo girotondo di specificazioni: baluba, zulu, bagonghi...). Gli oriundi italiani erano in definitiva calciatori nati qui o là, Argentina o Belgio, figli o nipoti di immigrati. Dirigenti sportivi scartabellavano archivi parrocchiali. Anche solo una nonna italiana, se reperita e in qualche modo documentata, poteva consentire a un calciatore sostanzialmente straniero di venire schierato come italiano, anche in Nazionale. Andrebbe quindi detto sempre “oriundo italiano”, intendendo “originario (anche lontanamente) dell’Italia”; ma nell’uso rimaneva quella strana parola scempia: “oriundo”, come dire “originario” ma senza origine. Un po’ come quando il lattaio chiede quale latte si desidera e gli si risponde “il parzialmente”. Aggiungere “scremato” parrebbe da puristi pedanteschi.
Su questa parola, così espressiva nel suono eppure tanto manchevole nel significato reale, proprio i puristi hanno dibattuto. Ma forse neppure Gianni Brera, che pure di certe cose si deliziava è risalito sino alla Bucchereide di un Lorenzo Bellini, poemetto di inizio Settecento ove si legge: «E dier le mosse i suoni agli sgambetti / di quel ballo oriundo levantino / che il gran Mogorballollo a Guzzurratte / quand’ei vi fe’ il festino di Goliatte». E chissà cosa intendeva dire, quel Bellini. Ma l’aver lui usato l’aggettivo “oriundo” ha tranquillizzato i puristi posteriori sulla liceità della parola, che a metà del Novecento ha incominciato a designare autori di altri sgambetti, a volte altrettanto “levantini”, se si pensa all’irritante scaltrezza di un Sivori o di qualsiasi altro «uomo ch’è venuto da lontano» e «ha la genialità di uno Schiaffino » (per dirla appunto con Paolo Conte, Sudamerica). Ora gli oriundi sono tornati, Mancini non li vuole, Conte (Antonio) li vuole. La parola ha resistito. L’importante è quello.
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ENRICO CURRÒ, AL REPUBBLICA -
Dopo 4 mesi di pausa la Nazionale non fa in tempo a ritrovarsi a Coverciano e subito la infiammano le polemiche. Stavolta la miccia è al confine tra sport e politica, tra tecnica e diritto. La accende l’ex azzurro Mancini, profilo internazionale e fama da cosmopolita, data l’esperienza quinquennale sulle panchine di Manchester City e Galatasaray. L’allenatore dell’Inter accusa il ct Conte di lesa italianità per avere convocato - in vista di Bulgaria-Italia di sabato per le qualificazioni a Euro 2016 e dell’amichevole con l’Inghilterra martedì 31 a Torino - i due oriundi Eder Citadin Martins, 29 anni, attaccante della Sampdoria nato in Brasile a Lauro Müller, nello stato di Santa Catarina, e Franco Damian Vazquez, 26 anni, fantasista- punta del Palermo, nato in Argentina a Tanti e cresciuto a Villa Carlos Paz, in provincia di Cordoba.
Mancini guida un’Inter zeppa di stranieri, ma non nasconde il disappunto. «La Nazionale italiana deve essere italiana. Il paragone con i campioni del mondo non regge: i loro giocatori sono nati in Germania. Credo che meriti la maglia azzurra chi è nato in Italia. Gli altri no, anche se hanno dei parenti». Il tema è scottante. La replica di Conte è circostanziata. «Non sono il primo e non sarò l’ultimo a convocare questi, tra virgolette, oriundi. Ci sono stati Camoranesi, Paletta, Thiago Motta, Romulo e molti altri. Nell’ultimo Mondiale, su 736 giocatori, gli oriundi erano 83. Sono le regole, noi le seguiamo. Vazquez ha madre italiana e a differenza di Dybala aveva subito espresso la preferenza per l’Italia. Non forzo nessuno: si deve sentire dentro. La maglia azzurra non deve essere un ripiego».
Il presidente della Figc Tavecchio è secco. «Con la cittadinanza italiana si può giocare in Nazionale. Discorso chiuso». Iachini, allenatore del Palermo, puntualizza. «Vazquez ha madre italiana, più italiano di lui...». L’ex ct Lippi è caustico. «Se Ronaldo o Messi avessero avuto parenti italiani, nessuno avrebbe detto niente. Io con Camoranesi ho vinto un Mondiale ». Mandorlini, mister del Verona, è autarchico. «Facciamo tanto per far crescere i giovani e poi pensiamo agli oriundi». Zeman, col suo Cagliari pericolante, la butta sulla tecnica. «I giovani italiani devono fare meglio di chi viene da fuori». Il segretario della Lega Nord Salvini la butta in politica. «In azzurro chi nasce in Italia». Ammutoliscono Eder e Vazquez, detto appunto El Mudo: proveranno a rispondere col pallone.
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FRANCESCO BEI, LA REPUBBLICA -
Finora figli di un dio minore, sovente estromessi dallo sport, i ragazzi stranieri residenti in Italia potranno finalmente godere degli stessi diritti dei coetanei italiani. La legge è pronta e ieri il governo, con il timbro del sottosegretario allo Sport Graziano Delrio, l’ha spedita in aula a Montecitorio dando parere favorevole. Significa che procederà senza intoppi. «Da parte nostra c’è condivisione piena», ha twittato Delrio benedicendo l’iniziativa bipartisan.
Presto quindi, come prevede l’unico articolo della legge, «i minori di anni diciotto che non sono cittadini italiani e che risultano regolarmente residenti nel territorio italiano almeno dal compimento del decimo anno di età» potranno essere tesserati presso società sportive appartenenti alle federazioni nazionali o alle discipline associate «con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani». Niente più barriere, niente più quote, niente più vincoli.
Come già ha iniziato a fare la Figc, anche le altre federazioni dovranno da domani aprire le proprie porte ai giovani atleti extracomunitari. Si tratta di una sorta di anticipo della legge sullo ius soli, quella sulla cittadinanza agli stranieri, da tempo annunciata dal premier Renzi. «Oggi» spiega Bruno Molea, il deputato di Scelta civica primo firmatario della proposta di legge, «è soltanto sulla base della volontà o meno dei presidenti di federazione che i minori stranieri possono essere tesserati. Insomma, vanno a scuola con i nostri figli ma spesso non possono condividere la possibilità di fare sport a livello agonistico, con tutto ciò che questo comporta in termini di mancata integrazione ».
La legge proverà così a forzare i regolamenti delle singole federazioni, rendendo giustizia di atteggiamenti a volte di totale chiusura. Che a volte si manifesta in trappole burocratiche, come quella di pretendere da ragazzi a cui scade a dicembre il permesso di soggiorno, di presentare documenti validi per l’intero anno sportivo che invece va da settembre a giugno dell’anno successivo. Certo, resterà aperta la questione delle nazionali azzurre. Che secondo i regolamenti non possono ammettere atleti senza la cittadinanza. Non a caso nell’Italia di Conte giocheranno sì Vazquez ed Eder, ma solo in quanto oriundi. E con doppio passaporto. «Ma in aula» annuncia il dem Filippo Fossati, altro firmatario della pdl, «intendo presentare un emendamento per affrontare anche questo problema ». In modo che in futuro si possano evitare casi come quello di Nadia Sbitri, pattinatrice diciannovenne di origine marocchina ma residente in Italia dall’età di un anno, che ha dovuto rinunciare alla convocazione per i mondiali di Taipei 2013 a causa dei ritardi nella sua pratica per la cittadinanza italiana. La ragazza aspetta i documenti da cinque anni, ma non c’è stato nulla da fare. E così la sua squadra di pattinaggio artistico sincronizzato a rotelle, la Progresso Fontana di Castel Maggiore, è partita per i campionati del mondo senza di lei.
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MATTEO DE SANTIS, LA STAMPA -
Il gusto di stare all’opposizione. Sempre, comunque, dovunque e su quasi tutto.I banchi e i pensieri, spesso e volentieri omologati, della maggioranza calcistica italiana non gli sono mai piaciuti. Roberto Mancini, sia da calciatore che da allenatore, si è sempre trovato meglio nei panni del battitore libero e della voce fuori dal coro. Meglio parlare chiaro, abolire la diplomazia e dire quello che si pensa. Anche ora che la sua avventura sulla panchina dell’Inter procede a corrente alternata, che è fuori dall’Europa League e che vede da molto lontano l’ingresso nella prossima. Ma a costo di essere impopolare o di farsi qualche nemico in più non le manda a dire. «La Nazionale italiana deve essere italiana», sibila Mancio all’entrata dell’albergo di Fiumicino sede dell’incontro tra giocatori, dirigenti e allenatori. Due passi nella hall e il tecnico interista specifica il suo pensiero: «La Germania ha vinto un Mondiale con gli oriundi? Sì, ma i loro giocatori sono nati in Germania. Non basta avere dei parenti italiani, per me solo i giocatori italiani nati in Italia meritano l’azzurro».
Derby a parole
Il ct Antonio Conte è servito. Mancini continua la sua camminata nei corridoi dell’hotel e recapita un nuovo messaggio, neanche tanto velato. Il destinatario, stavolta, è Pippo Inzaghi. «Vedo allenatori molto più esperti che hanno le mie stesse difficoltà se non addirittura maggiori. E non mi riferisco solo a Mancini», l’accenno riservato sabato scorso dal tecnico rossonero al collega nerazzurro. «Se Pippo si riferiva a me – la replica manciniana – io sono tutto tranne che in difficoltà. Mi dispiace che i risultati non stiano rispecchiando i progressi e le prestazioni della mia squadra. Purtroppo stiamo attraversando un momento un po’ così: contro il Cesena abbiamo creato dieci occasioni, con il Wolfsburg Benaglio si è superato con tre o quattro parate fenomenali e anche con la Sampdoria è andata allo stesso modo. Podolski, ad esempio, può fare di più». Il periodo è di transizione, ma Mancini non ha rimpianti di essere tornato all’Inter: «Credevo fosse difficile, forse non sapevo quanto. Il problema è che siamo ripartiti completamente da zero. E solo in Italia si può pensare che bastino quattro mesi per completare un’opera di costruzione e raggiungere dei risultati».
Modello Ferguson
Già, solo in Italia. Che, secondo quanto pronunciato dal presidente federale Tavecchio nel discorso d’apertura del meeting di Fiumicino, «è fortunata a non essere come l’Inghilterra, rimasta senza nessuna squadra nelle coppe europee». Parere, ovviamente, all’opposto del Mancio-pensiero da cittadino del mondo: «Noi italiani siamo fatti così: stadi vuoti da anni e gusto per la polemica. Non abbiamo pazienza, pensiamo che due o tre mesi siano sufficienti per vincere. A Ferguson, tanto per fare un nome, sono serviti sette anni. Non dico così tanto, ma serve del tempo per portare a compimento un progetto». Una richiesta che Mancini, evitando paralleli con i fasti del passato, estende all’Inter attuale: «Analogie con la mia prima avventura nerazzurra? No, squadre diverse, giocatori e periodi differenti. Ora non dobbiamo stilare tabelle, ma ragionare partita dopo partita». Premesse di un finale di campionato da vivere, come sempre, all’opposizione.
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ROBERTO BECCANTINI, IL FATTO QUOTIDIANO -
ORIUNDI. L’Italia agli italiani, sì, ma quali: i naturali o i naturalizzati? Ci (ri)siamo. In vista delle partite con la Bulgaria (Europei, Sofia, 28 marzo) e l’Inghilterra (amichevole, Torino, 31 marzo), Conte ha convocato Eder e Vazquez. Un brasiliano, un argentino. Mancini si è detto contrario: largo ai nostri giovani, abbasso “parentopoli”. Ci sono delle regole, il ct non le ha violate. Globalizzazione, si chiama così. Da Camoranesi a Paletta, tanto per fissare dei confini, l’importante è che sia il campo a decidere. Il campo, e basta.
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GIANNI VALENTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT -
Il calcio italiano riesce sempre a sorprendere. Abbiamo uno scudetto già virtualmente assegnato all’inizio della primavera segno evidente di scarsa competitività al vertice, la gran parte delle società si dibatte in problemi finanziari importanti e troviamo il tempo, dopo le convocazioni di Eder e Vazquez, per innescare polemiche come quella contro gli oriundi in Nazionale. Un tema già ampiamente sviscerato in passato e che, tra l’altro, ha anche portato bene ai colori azzurri. Impossibile non ricordare la scelta lungimirante di Giovanni Trapattoni che nel 2003 reclutò Mauro German Camoranesi, poi grande protagonista dell’Italia di Marcello Lippi, campione del mondo a Berlino nel 2006.
Colpisce un po’ che ad accendere la miccia («In azzurro solo chi è nato in Italia») sia stato proprio Roberto Mancini, uomo con una visione internazionale del calcio e allenatore di un’Inter che negli anni ha fatto davvero poco per valorizzare i giocatori italiani. Perché il discorso, inevitabilmente, deve partire da qui. Se vogliamo vedere i nostri ragazzi in Nazionale è necessario spingerli fin da quando sono giovani e puntare forte sulla loro crescita avendo anche il coraggio di schierarli titolari in un grande stadio. Sono il futuro, sia tecnico che patrimoniale del movimento. Tutto questo, però, deve cominciare dai club. Ed è una tendenza che a parte qualche isola felice (vedi Empoli) fa fatica a decollare. Spesso si preferisce l’usato sicuro o soprattutto il cognome esotico perché magari garantisce qualche abbonamento in più. Implacabili le statistiche: quasi il 60% dei calciatori di A non sono italiani. Il risultato è che i nostri 18enni di belle speranze finiscono spesso in serie B o in Lega Pro. Dicono a maturare, forse per lavarsi la coscienza.
La Nazionale ha il dovere di valorizzare il raccolto migliore, quando però le primizie esistono. Il salvaguardare la matrice della scuola calcistica italiana è un discorso condivisibile, ma fino a un certo punto. Date un’occhiata agli attaccanti nostrani in serie A. Dovesse dar retta ai gol, oggi Antonio Conte sarebbe costretto a richiamare Luca Toni e Totò Di Natale, entrambi 37enni. O Quagliarella che di anni ne ha 32. Campioni assoluti, non però compagni di viaggio sulla strada del rinnovamento. Allora accanto alla meglio gioventù di casa, e cioè Gabbiadini e Zaza, il ct ha fatto bene a convocare l’italo-brasiliano Eder e l’italo-argentino Franco Vazquez, piacevoli sorprese del campionato. Sono cittadini italiani grazie a un bisnonno e alla mamma. Come prevedono le regole, perfettamente rispettate. Pazienza se in Europa tra le grandi solo la Spagna ci fa compagnia in questa direzione. E comunque, statene certi: se nelle notti di primavera contro Bulgaria e Inghilterra i due ragazzi faranno intravedere del valore aggiunto per la squadra azzurra, le polemiche svaniranno velocemente così come sono arrivate.
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FABIO LICARI, LA GAZZETTA DELLO SPORT -
Non era neanche quotata la polemica-oriundi al primo giorno di Italia, dopo quattro lunghi mesi di stop. E infatti, pronti-via, ecco Roberto Mancini in tackle scivolato dalla riunione romana degli allenatori: «Ho la mia idea: la nazionale italiana deve essere italiana. La Germania non ha oriundi, i suoi giocatori sono nati in Germania. Per me merita la maglia azzurra un giocatore nato in Italia. Chi non è nato qui, anche se ha parenti, credo non la meriti». Si schiera con lui Andrea Mandorlini: «Facciamo tanto per i giovani, ma poi pensiamo agli oriundi…». Prima risposta di Antonio Conte da Coverciano: «Rispetto tutte le opinioni, ma non ho fatto niente di diverso dal passato: non sono il primo a convocare gli oriundi né sarò l’ultimo».
MA C’ERA SORIANO! La cosa più divertente sapete qual è? Che Vazquez e Eder, numeri 42 e 43 della lista di oriundi della storia della Nazionale, cominciata nel 1920 con Aebi, non sono i primi chiamati da Conte. Nossignore. A parte Osvaldo e Paletta, selezionati ma «convocati» in precedenza da Prandelli, c’è Roberto Soriano, nato in Germania da genitori avellinesi e arrivato in Italia nel 2009: entra in campo in Italia-Croazia 1-1 al 28’ pt per l’infortunio di Pasqual. Gara cruciale del gruppo. Ma nessuno dice «bah»: un oriundo di serie B? Uno che non parte con l’etichetta di titolare e quindi non «disturba»? Da ridere.
DA CAMORANESI A VAZQUEZ Insomma, quelle di Mancini sono parole forti che però scatenano un inevitabile dibattito, ma all’italiana, con ritardo. Un po’ di storia. Dopo i 33 oriundi convocati dal 1920 al 1962, però indicati come «colpevoli» del fallimento in Cile e quindi respinti dalla Nazionale per oltre 40 anni, si ricomincia nel 2003 con Camoranesi: fortissimamente voluto da Trapattoni, protagonista del Mondiale 2006 con Lippi, quindi impiegato anche da Donadoni. In seguito Prandelli allunga la lista con Ledesma, Amauri (inseguito invano già da Lippi), Schelotto, Osvaldo, il lastminute pre-Mondiale Paletta e Thiago Motta, per non dire Romulo (che però si fa male prima della convocazione ufficiale). E poi arriva Conte che inserisce gli stessi Paletta e Osvaldo, quindi Soriano, ma senza che gli facciano la morale. Vazquez è italiano perché ha la mamma italiana: il cognome spagnolo è del papà argentino. Punto. Davvero, qui ogni polemica pare superflua.
«SOLO gli italiani DENTRO» In linea con il pensiero di Prandelli, Conte spiega di non aver forzato nessuna decisione. Proprio dal Palermo arriva la conferma: Vazquez ha detto subito sì, Dybala no. «Si deve sentire dentro la voglia di Italia, non deve essere un ripiego perché l’altra Nazionale non ti convoca. Vazquez ha detto subito di sentirsi italiano». Eder ha parenti più lontani, alla Camoranesi per intenderci, ma è più «italiano» di Amauri che approfittava dell’acquisto della cittadinanza della moglie. «Queste sono le regole». E se qualche italiano dovesse prendersela, «il messaggio è che la Nazionale è per i migliori, non per chi spera di entrare perché c’è poca concorrenza». Il discorso si fa più ampio, pensando agli stranieri che invadono i nostri club: «Ma non è colpa degli allenatori che devono vincere e scelgono i migliori». E soltanto se Vazquez e Eder saranno tra i «migliori» resteranno: «Volevo vederli nello stage, avrei avuto le idee più chiare». Aggiungendo amaro: «Non c’è mai pace attorno alla Nazionale. E attorno a me…».
OK LIPPI, TAVECCHIO, ZEMAN Il primo sostegno al c.t. arriva dal presidente Tavecchio: non a caso la Figc ha aperto un dossier per monitorare gli azzurrabili in giro per il mondo. «Con un oriundo abbiamo vinto nel 2006 e Conte ha la libertà assoluta di individuare chi può giocare. Se uno ha la cittadinanza può giocare: il discorso è chiuso». Tavecchio non è l’unico. Marcello Lippi difende Conte al Tg5: «Se Ronaldo o Messi avessero avuto parenti italiani nessuno avrebbe detto niente». Anche Zeman dice che «se sono convocati gli oriundi vuol dire che è possibile farlo. I giovani facciano meglio di chi viene da fuori». Ulivieri, presidente degli allenatori, taglia corto: «Discorso marginale». Ma alla fine sarebbero sufficienti le parole di Beppe Iachini:«Vazquez ha la mamma italiana: più italiano di lui…».
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ALEX FROSIO, LA GAZZETTA DELLO SPORT -
Alfredo Di Stefano, argentino. Ferenc Puskas e Laszlo Kubala, ungheresi. Poi, storia attualissima, Diego Costa, brasiliano. Anche la Spagna, quanto a oriundi, non scherza. Quei quattro lì, ma ce ne sono molti altri - tra cui Marcos Senna, brasiliano di nascita che con Aragones vinse l’Europeo 2008 -, fanno parte della lunga tradizione spagnola riguardo alle naturalizzazioni. Il caso di Costa è però un po’ andato di traverso a mezza Spagna. Perché un anno prima del debutto con le Furie Rosse l’attaccante Chelsea aveva debuttato con il Brasile, a marzo 2013. Salvo poi scegliere la Spagna, nazione in cui arrivò nel 2007, a 19 anni, e che concede il passaporto dopo 5 anni di residenza (Costa lo ha ottenuto a luglio 2013).
TEDESCHI MULTIETNICI Altrove, la naturalizzazione è più che altro integrazione. La Germania campione del mondo ha sangue di origini diverse nelle vene: turchi (Ozil, Gundogan), africani (Boateng, Bellarabi), albanesi (Mustafi), ma tutti nati sul territorio tedesco, e lì si riconosce lo ius soli . E i polacchi? Podolski a 2 anni era già in Germania. Klose è un «aussiedler», perché nato a Opole, in Polonia, territorio tedesco fino alla guerra, e come tale aveva diritto a ottenere la cittadinanza una volta «rientrato» in Germania (Klose ci arrivò a 18 anni). Gli unici veri naturalizzati del calcio tedesco sono stati il brasiliano Cacau, il sudafricano Sean Dundee, che però non giocò mai in maglia bianca, e soprattutto Paulo Rink a fine Anni Novanta. Ma per avere il passaporto dovette superare, come tutti, l’esame ministeriale, un testa da 33 domande.
FRANCIA E SVIZZERA Proprio il successo dei francesi nel ‘98 era figlio sì degli stranieri, ma integrati, dal marsigliese-algerino Zidane in giù: nati o cresciuti in Francia (gli africani Vieira e Desailly avevano ottenuto la cittadinanza: servono 5 anni). Come poi Evra, nato in Senegal, ma arrivato in Francia a 3 anni. Ora la novità è Fekir, francese di nascita, algerino d’origine. La Svizzera, invece, ha accolto molti transfughi dai Balcani. Chi ci vive per 12 anni ha la cittadinanza (gli anni dai 10 ai 20 contano doppio): gente come Shaqiri, Xhaka o Embolo - che ha appena avuto il passaporto - è arrivata a 2 o 3 anni di età, altri come Inler o Drmic in Svizzera ci sono nati. Nei Cantoni hanno il problema inverso: Rakitic è nato e cresciuto in Svizzera (nazionali giovanili comprese) ma poi ha sposato la Croazia. Problema simile per l’Inghilterra, che nel Regno deve «condividere» giocatori con Galles (avete presente Giggs o Bale?), Scozia, Irlanda. Oriundi per chi ha inventato il calcio? Follia. Anche il giamaicano Sterling, in fondo, a 5 anni era già sull’isola.
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MIRKO GRAZIANO, LA GAZZETTA DELLO SPORT -
Franco Vazquez è italiano ben oltre il 50%. Il trequartista del Palermo ha mamma veneta e nonna paterna lombarda. Non si capisce allora perché non debba poter rappresentare l’Italia. Sentite Conte: «Il ragazzo, a differenza di Dybala, ha subito espresso la propria preferenza per la maglia azzurra. Non ho mai forzato nessuno, perché è una cosa che va vissuta dentro. La Nazionale non deve essere un ripiego per chi non riesce a conquistare un posto nel Paese che sente più suo». E per Franco non lo è.
MAMMA MARINA Franco Damián Vázquez è nato a Tanti (Cordoba) il 22 febbraio 1989. Papà Oscar è argentino, mamma Marina nacque negli anni Sessanta a Padova, poco prima che la famiglia si trasferisse oltre oceano. Marina è la prima (e l’unica nata in Italia) di 6 figli messi al mondo da Giuseppe Bianconi e Lucia Guarotto, i nonni di Franco, che vivevano appunto in via Bertacchi, a Padova. Una volta raggiunta Carlos Paz (in provincia di Cordoba), Giuseppe fondò un’azienda meccanica e mise radici. Oggi gli unici parenti in Italia sono Tiziano Rossini e suo figlio Alessio. Tiziano vive ad Albignasego in provincia di Padova e sente spessissimo la cugina Marina, anche ieri pomeriggio. Franco è andato a trovarlo la scorsa estate, insieme a Dybala. Dice Tiziano: «Marina è orgogliosissima di suo figlio, che è italiano al 75 per cento, visto che la nonna paterna è di Casorate Sempione, in provincia di Varese. Franco ha ricevuto un’educazione all’italiana, capisce benissimo il dialetto veneto visto che mamma Marina e la nonna comunicano così. Non è un chiacchierone, e infatti lo chiamano El Mudo, ma è un ragazzo molto rispettoso. Gli piacerebbe fare la stessa cosa che ha fatto Camoranesi: vincere il Mondiale con la Nazionale». Per l’amichevole con l’Inghilterra del 31 marzo, papà Oscar verrà in Italia.
I BISNONNI DI EDER Éder Citadin Martins, l’altro oriundo convocato da Conte, raggiunse per la prima volta l’Italia non ancora 18enne. Il bisnonno emigrò in Brasile da Nove (provincia di Vicenza). Nato e cresciuto a Lauro Muller, nello stato di Santa Caterina, città fondata da tedeschi ma poi diventata una delle roccaforti dell’immigrazione italiana, Eder incrociò l’interesse di alcuni agenti di casa nostra nel 2004. A quei tempi giocava nei ragazzi del Criciuma, venne organizzata un’amichevole in condizioni meteo fra l’altro precarie ed Eder spadroneggiò in lungo e in largo. Il primo a mettere gli occhi sull’attuale azzurro fu Pantaleo Corvino, di sicuro uno dei migliori talent scout in assoluto. Corvino, a quei tempi al Lecce, fece arrivare Eder nell’agosto del 2004, e lo tenne tutta l’estate in ritiro con la Primavera. Poi rinunciò, un po’ perché non poteva tesserarlo subito in quanto minorenne ed extracomunitario, un po’ perché lui stava lasciando Lecce. Un anno dopo, scattò l’assalto del Livorno a Eder: non ci fu accordo. La mossa giusta fu invece quella dell’Empoli: 500.000 euro al Criciuma, prima ancora di tesserare il ragazzo. Nel frattempo erano cominciate le pratiche per il passaporto italiano. Eder arrivò definitivamente a Empoli nel gennaio 2006. E non ha più lasciato l’Italia.
IL LUOGO DI NASCITA In Nazionale deve giocare solo chi è nato qui da noi? Beh, allora il discorso avrebbe dovuto coinvolgere per tempo almeno altri due «insospettabili» come Pepito Rossi e Roberto Soriano: il primo è nato 28 anni fa negli Stati Uniti, Teaneck; il secondo in Germania, a Darmstadt, l’8 febbraio 1991.
(ha collaborato Giulia Guglielmi)
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SEBASTIANO VERNAZZA, LA GAZZETTA DELLO SPORT -
Quelli che si scandalizzano, i puristi dell’italianità, sappiano che Luisito Monti (1901-1983) resta l’unico calciatore ad aver disputato due finali mondiali con due maglie diverse. Nel 1930, a Montevideo, da argentino perse contro l’Uruguay. Nel 1934, in Italia, si rifece da italiano contro la Cecoslovacchia e mise le mani sull’allora Coppa Rimet. Monti era un centromediano gigantesco, lo chiamavano «armadio a due ante». Un oriundo di ottant’anni fa. La parola genera dal latino «oriundum», gerundio del verbo «oriri», che significa nascere. Venire alla luce in un posto, ma avere le radici in un altro. Il concetto è malleabile: di solito chi nasce e diventa adulto in un luogo sente di appartenere a quella terra, a prescindere dalle origini della famiglia.
IL PRIMO Un italo-svizzero il primo oriundo a giocare nella Nazionale italiana. Si chiamava Ermanno Aebi, debuttò nel 1920, l’Inter il suo club. Diventò anche arbitro. All’epoca, negli Anni Venti del secolo scorso, gli oriundi non si chiamavano così, ma rimpatriati o «reimmigrati», perché il fascismo aveva deciso per queste parole. Benito Mussolini non si fidava di loro, pensava che rientrassero in Italia per soldi. Leggenda vuole che il duce, prima della finale del 1934, abbia fatto recapitare a Monti un messaggio semi-minatorio: «Se vincete, bene. Se perdete, che Dio vi aiuti». Diversi oriundi degli Anni Trenta si reimbarcarono di nascosto per il Sudamerica quando da noi l’aria si fece irrespirabile, per via delle leggi razziali mussoliniane e dei venti di guerra.
TRE TRIONFI L’Italia grazie (anche) agli oriundi ha vinto tre Mondiali. Nel 1934 i quattro italo-argentini Enrique Guaita, Luisito Monti, Raimundo Orsi e Attilio Demaria e l’italo-brasiliano Amphiloquio Guarisi. Nel 1938 l’italo-uruguaiano Miguel Andreolo. Nel 2006 l’italo-argentino Mauro Camoranesi. Secondo alcune scuole di pensiero pure nel 1982 il c.t. Enzo Bearzot si servì di un oriundo, Claudio Gentile, nato a Tripoli in Libia e ivi vissuto nei primi anni di vita, ma secondo il criterio della nascita in territorio straniero al conto del 2006 bisognerebbe aggiungere Simone Perrotta, nato dalle parti di Manchester in Inghilterra e lì rimasto fino all’età di cinque anni. No, né Gentile né Perrotta possono essere considerati oriundi.
DUE GRANDI FLOP L’Italia - che all’edizione del 1930 non partecipò per scelta - ha bucato un’unica volta la qualificazione al Mondiale. Accadde nel gennaio 1958, il famigerato «spareggio» di Belfast contro l’Irlanda del Nord. In quella nazionale sconfitta dai nordirlandesi giocavano quattro oriundi: Ghiggia e Schiaffino, campioni del mondo con l’Uruguay nel 1950, l’argentino Montuori e il brasiliano da Costa. Peggio finì quattro anni più tardi alla Coppa Rimet in Cile. Gli argentini Omar Sivori e Humberto Maschio, i brasiliani José Altafini e Angelo Sormani non evitarono la figuraccia agli azzurri, buttati fuori dal Cile. Questo per dire che gli oriundi non sono garanzia di successo. Schiaffino è stato uno dei più forti centrocampisti della storia, Paolo Conte gli ha dedicato una canzone: «L’uomo che è venuto da lontano/ ha la genialità di uno Schiaffino». Sivori è stato Maradona prima di Maradona. Altafini ha fatto parte del Brasile 1958, quello che sbancò la Svezia col trio Didì-Vavà-Pelé. Né Schiaffino né Sivori né Altafini hanno lasciato il segno in azzurro. Rispetto a quegli anni, si è fatta chiarezza. Oggi la scelta di una Nazionale impegna per la vita. Nessuno potrà battere il record di Monti, finalista sotto due bandiere.
IL DANDY No, «Romanzo criminale» non c’entra. Il più pittoresco dei nostri oriundi è stato Julio Libonatti, italo-argentino di Rosario, detto il Dandy per il suo vestire vistoso e sgargiante. Lo portò in Italia il Torino del Conte Cinzano, nel 1925. Attaccante piccolo e veloce, segnò una caterva di gol. Fu il primo oriundo sudamericano a indossare l’azzurro. A ruota, tra gli altri, lo seguì Renato Cesarini, argentino-marchigiano, celebre per i gol allo scadere, da cui l’espressione «zona Cesarini». Oggi tocca a Vazquez ed Eder e la domanda è sempre la stessa: ci faranno vincere? Se sì, li celebreremo come «veri» italiani. In caso contrario saranno soltanto dei «maledetti» oriundi, gente con troppe patrie.