Vincenzo Trione, Corriere della Sera - La Lettura 22/3/2015, 22 marzo 2015
I MOSTRI DI JEAN CLAIR, DÉFILÉ DELL’OSCENO
Non è facile parlare di Jean Clair.
Un suo recente volume, Hybris — in uscita da Johan&Levi — ci aiuta a descriverne il profilo di studioso. All’apparenza, si tratta di una tradizionale raccolta di testi pubblicati tra il 1989 e il 2010. In effetti, siamo dinanzi a un’involontaria autobiografia intellettuale, che ci permette di comprendere meglio l’identità doppia di questo controverso personaggio. Tra gli ultimi eredi del grande saggismo francese. E, insieme, severo polemista. Da un lato, lo storico dell’arte. Che, nei suoi libri — come Medusa, Il nudo e la norma e Critica della modernità — ordina articolati tessuti, dietro cui si intravedono erudizione, rigore dottrinario, attento confronto con i documenti, capacità di leggere le opere come spazi attraversati da motivi culturali, letterari, filosofici, scientifici. Di questo sottotesto, nelle pagine di Jean Clair, restano echi, riverberi. È come se egli innalzasse imponenti impalcature per sorreggere un alto palazzo. Poi, decide di liberarsi di quelle armature. Infine, resta solo la bellezza dell’edificio.
Dall’altro lato, il critico impegnato in battaglie anti-moderne, affidate a pamphlet come De Immundo, L’inverno della cultura e La crisi dei musei. L’«altro» Jean Clair si propone di smascherare gli imbrogli sottesi a certe provocazioni dell’arte del nostro tempo, ripetendo oramai stancamente sempre le medesime tesi: l’arte è morta; siamo sull’orlo dell’abisso, in una mascherata di voci senza talento, dominata dagli spettri del mercato. Ritroviamo le medesime oscillazioni in Hybris, dove Jean Clair, con una prosa seduttiva, ripercorre la modernità imboccando sentieri poco esplorati. In particolare, si sofferma su un tema a lui caro: la hybris, appunto. Ove, con questo termine, si allude alla tracotanza, alla dismisura, all’oltrepassamento dei limiti.
Hybris è «abbandono all’orgoglio, agli eccessi sessuali, alle pulsioni criminali». Ed è apertura alle «dissipazioni» istantanee, repentine e imprevedibili. È scarto, differimento. Ed è strategia per porsi in ascolto di una libido alterata. Azione violenta, che verrà punita dalla vendetta. Questo concetto classico ha fortemente inciso sulla storia dell’arte dei secoli XIX e XX, incarnandosi nella raffigurazione del «mostruoso». Sapienti nel recuperare la tradizione dei bestiari medioevali e rinascimentali — sulle orme di suggestioni derivate dalle opere di Bosch, di Bruegel e di Grünewald — Goya, Redon, Ernst, Duchamp, Grosz, Picasso, Giacometti e Balthus scelgono di non rappresentare più l’individuo secondo modalità consolidate. Mettono in scena esseri fantasmatici e repellenti. Sono «dèi o demoni insostenibili allo sguardo», in cui si mescolano il razionale e il fantastico. Esseri deformi, che violano le morfologie regolari e suscitano curiosità e terrore, stupore e repulsione. In essi convivono «rispetto di un’organizzazione vivente» e «gusto del prodigioso». È una «zoologia inquieta e inquietante», abitata soprattutto da omuncoli, da giganti e da acefali.
Queste creature surreali diventeranno dominanti tra il 1880 e il 1914. Hanno corpi umani e tratti animaleschi. Sembrano estratte dai libri miniati e dai frontoni istoriati delle cattedrali. Grottesche, hanno occhi «strabilianti», anatomie distorte, membra recise. Sono come eventi favolosi. Specchio di una teratologia malata, ritratti di un’umanità liberata dai suoi limiti e dalle sue alienazioni, sono esercizi di un’improbabile ingegneria. In un défilé dell’osceno, sfilano corpi rimodellati attraverso «smontaggi ingegnosi» e «rimontaggi arbitrari». Trasfigurazioni veristiche e allegoriche. Ibridazioni fisiognomiche. Un’umanità zoomorfa e smisurata, nata anche sulla scia delle figurazioni ambigue di Leonardo e di Della Porta.
Per spiegare questi incroci, potremmo riprendere un’intuizione di Baltrušaitis: «Gli uomini segnati da tratti animaleschi, come per un ricordo, il circo delle bestie ammaestrate, più acute e più abili di noi, (...) si riallacciano alle antiche speculazioni sui rapporti fra gli esseri viventi». Non apparizioni accidentali, né fantasticherie. Piuttosto, ci imbattiamo in avatar del brutto. Sintomi della «crisi della coscienza europea», i mostri dipinti tra Ottocento e Novecento celano follie e angosce. Sono come epitomi metaforiche di «un’intera società che, abbandonata da fede, ragione e ideali, sente la necessità di individuare una rappresentazione visibile, e dunque già quasi sopportabile, delle sue paure e dei suoi terrori». In filigrana,
riferimenti a trattati scientifici, a romanzi dell’orrore, a studi sull’occultismo e a narrazioni già da science fiction. E rinvii agli scandalosi versi di Lautréamont.
Vengono traditi i canoni classici della bellezza e dell’armonia. Omuncoli, giganti e acefali esprimono il desiderio di riscoprire l’ebbrezza dell’orrore e del «furore dionisiaco», senza temere le soluzioni aggressive e ripugnanti. Aiutano a svelare il «perduto» dell’uomo: la sua dimensione magica, sciamanica. Esibiscono la dimensione del perturbante, pensato — secondo Freud — come trasgressione di tutto ciò che è confortevole e tranquillo. È il rimosso: qualcosa di dimenticato che riemerge all’improvviso; un non-so-che di inconsueto che riappare dai meandri dell’inconscio e ci turba. «L’anomalia sarebbe soltanto una delle forme della normalità, la più avanzata».
In tal senso, illuminanti — anche se Jean Clair non ne parla — alcune proposte cinematografiche (The Elephant Man di Lynch), le anamorfosi di Orlan (che ha trasformato se stessa in una post-donna, sottoponendosi a molti interventi chirurgici) e quelle di Matthew Barney che, in Cremaster, filma un mondo neo-gotico, allucinato e infantile, in cui si sovrappongono candore e bestialità.
A questo punto, incontriamo il «conservatore». Fedele al personaggio che si è costruito da qualche anno, Jean Clair dedica l’epilogo di Hybris ai musei contemporanei. Che sono templi del mostruoso, nuovi Leviatani, contenitori colossali, decapitati e insensati, nei quali si manifesta la hybris di una «società in crisi, probabilmente sull’orlo della scomparsa». È davvero così? Perché rassegnarsi a questo catastrofismo? Non sarebbe meglio evitare di demonizzare il presente, provando a far affiorare i momenti di luce e di autentica originalità che — anche oggi — ci sono nell’universo dell’arte? Torna alla memoria l’invito con cui si chiude Le città invisibili di Italo Calvino: «Cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio».