Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 20/3/2015, 20 marzo 2015
MATISSE
A prima vista, le donne dipinte da Matisse appaiono mostruose. Lui raccontava: «Dicono che io sia un incantatore che si diverte a incantare dei mostri. Non ho mai pensato che le mie creazioni fossero mostri incantevoli. A chi una volta mi diceva che non vedevo le donne come le rappresentavo, risposi: “Se ne incontrassi per strada, mi metterei in salvo terrorizzato”. Prima di tutto io non creo una donna, io faccio un quadro».
Faceva quadri con linee e colori purissimi. Scomponeva i volti femminili con tocchi di verde, rosso, blu. In apparenza rendendoli deformi e quasi ripugnanti. In realtà cercando di ritrarre l’emozione che le donne suscitavano in lui. Trasformava i loro corpi in fiori, come quello di mademoiselle Yvonne Landsberg che alla fine diventò il bocciolo di una magnolia. Il fratello di Yvonne, Albert, ricordava che alla prima seduta di posa, il ritratto a olio era estremamente somigliante, ma poi divenne sempre più astratto: «A ogni nuova seduta rispecchiava sempre meno l’aspetto fisico di mia sorella, ma sempre più la sua natura spirituale. Fin dal principio i colori furono uno splendido blu acciaio, il grigio acciaio, il nero, l’arancione e il bianco, che la pittura lasciava trasparire mediante misteriose linee bianche che incidevano la superficie della tela».
Guardando Yvonne, esposta nella mostra Matisse arabesque curata da Ester Coen, che resterà aperta fino al 21 giugno alle Scuderie del Quirinale, non si può dire che sia una bella ragazza. Ma dà la sensazione che stia per sbocciare in un tripudio di luce. Pochi mesi prima di dipingere il ritratto di Yvonne, Matisse era stato colpito da un articolo de L’Intransigeant, dove si parlava della possibilità di fotografare l’anima nel momento in cui essa lascia il corpo. E cercò di evocare il movimento dell’anima della ragazza con le linee luminose che si irradiavano intorno alla sua figura. È questo che Matisse per tutta la vita volle esprimere: la sensazione. Diceva: «La potenza dell’artista consiste nell’organizzare sensazioni ed emozioni». Non gli interessava copiare un oggetto o una persona. Non cercava la verosimiglianza. «Dall’arte classica ho appreso la tecnica del trompe-l’oeil, il sentimentalismo, la poesia, le convenzioni estetiche, tutti gli artifici intellettuali e gli espedienti tecnici solo e soprattutto per osservare ed esaltare la sensazione, la più pura delle cose, la più impermeabile alla ricercatezza, la più istintiva e primordiale, la più commovente in assoluto, per non dire la più emozionante tra tutte».
Fu con questo procedimento che ritrasse le donne della sua vita. A cominciare dalla moglie Amélie, che la perfida e acuta scrittrice Gertrude Stein, amica della coppia, descrisse come «una donna imponente con il volto allungato e una grande bocca volitiva e pencolante come un cavallo». Lui, a distanza di anni la ricorderà sempre come «una donna leale di nobile portamento e con una magnifica chioma corvina». La sposò nel 1898 e ne fece la sua modella preferita. Trasformò l’umile austera modista, che vestiva sempre di nero, in un’icona avvolta in una fantasmagoria di colori. Diceva: «Il colore è sfarzo e pubblicità. Non è forse privilegio dell’artista rendere prezioso il più umile soggetto?».
«È lo sgorbio più brutto che abbia visto in vita mia!» esclamò Leo Stein, fratello di Gertrude e raffinato critico d’arte, quando vide il ritratto di Amélie. Ma finì per comprarlo. Stessa sorte ebbe il ritratto di Marguerite, la figlia che Matisse aveva avuto, prima del matrimonio, dalla modella Caroline Joblaud. Donò questo quadro a Picasso, in cambio di una natura morta. Picasso lo appese subito nel suo atelier, dove per anni subì gli oltraggi dei suoi amici, da Apollinaire a Max Jacob, che gettavano sulla tela mozziconi di sigaretta e fiammiferi, con la benedizione del padrone di casa. Eppure, mezzo secolo dopo, il pittore spagnolo avrebbe definito il ritratto di Marguerite «un’opera-chiave», riconoscendovi la fonte d’ispirazione per le deformazioni delle sue Demoiselles.
Nella ricerca di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore e della linea, Matisse esplorò Giotto e il Beato Angelico, i mosaici bizantini e le ceramiche islamiche, i primitivi africani e le icone russe, i crespi giapponesi e i tappeti persiani. Collezionò le variazioni di luce dei luoghi dove il sole abbaglia, come il sud della Francia e il nord dell’Africa. O dove l’aria è «cristallina e immateriale», come New York e Tahiti. Per uscire dalla «pittura intimistica» per trovare «uno spazio più vasto, un vero spazio plastico», usò non solo il colore, ma anche il disegno. La carrellata di odalische, visibile in mostra, offre nudi sinuosi, resi talvolta con una sola linea continua. Il suo medico, guardando questi disegni, gli disse che era stupito di vedere come conosceva bene l’anatomia. Il movimento espresso da un ritmo logico di linee gli aveva suggerito il gioco dei muscoli in azione. «È per liberare la grazia, la naturalezza, che studio tanto prima di fare un disegno a penna», gli rispose Matisse.
Lauretta Colonnelli