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 2015  gennaio 15 Giovedì calendario

«PALAZZO BERNINI AL CORSO» LA STORIA VERA E LE LEGGENDE

Una storia lunga cinquecento anni, scoperta inseguendo la fuga di stanze di un palazzo e i documenti degli inquilini che le abitarono. La racconta Rosella Carloni nel volume «Palazzo Bernini al Corso», edito da Campisano, che verrà presentato questo pomeriggio alle 17,30 a Palazzo Barberini.«Palazzo Bernini, tra via Frattina e via Borgognona, è uno dei pochi edifici di via del Corso che non aveva mai ricevuto dalla critica un’attenzione adeguata e fino ad oggi erano scarse le notizie sulla sua origine e sulle successive vicende architettoniche», dice Carloni. Lei vi è approdata nel corso di una ricerca sulla collezione di Gian Lorenzo Bernini cominciata nel 2003 presso La Sapienza. Nei dieci anni successivi non ha smesso di scavare negli archivi e alla fine è riuscita a dissolvere gli equivoci, ben radicati nei vari studiosi, sui presunti legami dell’edificio con la figura del celebre scultore. Chi sosteneva che il palazzo era stato costruito nel 1645 dallo stesso Bernini, il quale lo aveva venduto ai Manfroni nel 1676. Chi ipotizzava che nel 1645 l’artista vi avrebbe inaugurato un teatro frequentato da Cristina di Svezia. Ora si scopre che Gian Lorenzo non ha connessioni dirette con l’edificio. Costruito nel ‘500 da Giovanni Boccalini e Giovanni Lippi, passò a Pietro Cosida e poi ad Antonio Manfroni. Soltanto all’inizio del ‘700, in seguito al matrimonio di una Manfroni con un discendente di Gian Lorenzo, il palazzo diventa Manfroni Bernini. Attraverso gli inventari delle varie famiglie, pubblicati in appendice e fino ad oggi inediti, l’autrice fa rinascere la vita palpitante dell’edificio. Con l’infilata di anticamere rivestite in corame arabescato d’oro antico o in damasco dalle tinte vivaci, le centinaia di quadri e sculture, gli arazzi destinati alle cerimonie, il guardaroba straripante di vestiti, i credenzoni di noce con innumerevoli stoviglie d’argento, gli armadi con montagne di biancheria, i vasi con i melangoli, i lettucci di riposo, gli stipetti intarsiati d’avorio, i libri, i cuscini, gli ombrelli, i bracieri, gli specchi, gli inginocchiatoi, i forzieri, i gioielli. Perfino «tre occhiali di Galileo». E quattro orinali, «due di velluto e due di raso cremisino» che lasciano di stucco. Ma all’epoca i vasi da notte erano anche in vetro. Si rivestivano per decenza e per impedire che si rompessero.
Lauretta Colonnelli