Massimo Gatto, Avvenire 22/3/2015, 22 marzo 2015
DE GREGORI SUL PALCO CON SPIRITUALITA’: «NON LA PUOI PROTOCOLLARE, È UN DONO»
«Rendimi Berlino il muro / Stalin con il suo rosario / Dammi Cristo e dammi il suo Calvario» canta Francesco De Gregori omaggiando l’apocalisse visionaria raccontata da Leonard Cohen in quella The future riveduta e corretta nell’ultimo album Vivavoce con le pennellate infernali di un quadro di Bosch. La cornice è quella del nuovo tour, imperniato proprio sulle rivisitazioni d’autore collezionate dal cantautore romano tra i solchi di Vivavoce per raccontare il suo juke-box più popolare e amato così come se lo sente oggi nelle orecchie e, magari, dare una prova d’appello a certi motivi che avrebbero meritato maggior attenzione da parte del pubblico e delle radio. L’omaggio a Cohen è l’unica deviazione dal percorso di un disco in bilico tra cielo e terra, tra allegoria e realismo, a cui sul palco (come nel precedente tour) si aggiunge l’omaggio all’Elvis di I can’t help falling in love with you perché «mi piace spiazzare la gente e trovo la frase “non posso fare a meno di innamorami di te” una cosa bella da lasciargli una volta calato il sipario», assicura De Gregori, che in questo nuovo spettacolo è affiancato da una band di dieci elementi alle dipendenze del bassista Guido Guglielminetti. «Se c’è un filo che lega queste 27 rivisitazioni è quello della spiritualità », ammette l’autore di Niente da capire, 64 anni il prossimo 4 aprile, scorrendo l’indice su una scaletta costruita con perizia. «Per evitare la routine abbiamo messo a punto una quarantina di brani fra cui scegliere ogni sera quelli dello show. Non solo Il panorama di Betlemme è una canzone spirituale, ma pure Bellamore lo è. E così anche Viva l’Italia, che dopo tutto questo tempo è ancora una di quelle che mi inorgoglisce di più aver scritto. La spiritualità non la puoi toccare, protocollare, archiviare, ma se ce l’hai devi ritenerti fortunato, perché è un dono. Credo che se fai un mestiere come il mio, sempre in cerca del contatto col prossimo, non puoi farne a meno».
Lei torna nei palasport dopo anni di tournée nei club e nei teatri.
«Il pubblico va per conto suo e pure gli artisti seguono strade loro. Ci sono momenti in cui le direttrici si toccano, si incontrano, e altri in cui si allontanano. Penso, però, che non bisogna mai drammatizzare né il momento di fortuna che quello di non successo. E, soprattutto, non bisogna mai perdere il senso del proprio lavoro».
Dal 2002 ha inciso sette dischi dal vivo, per fotografare adeguatamente l’evoluzione di certe canzoni nel tempo non erano sufficienti quelli?
«Con Vivavoce ho fatto, se si vuole, un’operazione analoga a quella del live, ma con un suono e una cura completamente diversi. Quella che può darti solo lo studio di registrazione. E poi il disco non è la scaletta di una serata, ma una scelta più ragionata sul percorso da seguire».
Il 22 novembre festeggia all’Arena di Verona i quarant’anni di Rimmelcon una serata molto speciale.
«Già, una festa di compleanno con amici; ce ne saranno alcuni di vecchia data come Ambrogio Spagna, ma anche di più recente acquisizione tipo Elisa o Malika Ayane. Sto invitando persone non necessariamente coeve di Rimmel, basta pensare a Fedez o a Caparezza, lontanissime da me a cui però sono legato da stima sincera».
Il primo di Luglio suonerà al Lucca Summer Festival prima del maestro Bob Dylan. L’idea di un duetto non l’ha nemmeno sfiorata?
«No, perché non accadrà. Io suonerò prima, lui dopo. Comunque leggere i nostri nomi sullo stesso cartellone è già motivo di gioia».
Dodici anni fa, però, Dylan aveva inserito Non dirle che non è così, suo rifacimento di If you see her, say hello, nella colonna sonora del film Masked & anonymus. L’ha mai ringraziata?
«Personalmente, no. Però il disco uscì con una notazione, forse sua forse no, che mi definiva l’“eroe” del folk-pop italiano. Mica male».
La sua voce compare è comparsa di recente pure in una versione per audiolibro di
America, il romanzo di Kafka.
«Mi ci sono imbattuto per la prima volta attorno ai vent’anni e l’ho subito amato moltissimo. Mi avevano avvertito che era un po’ il romanzo nascosto di Kafka, quello non finito; il meno bello. Secondo me non è vero».
Perché?
«Ancora una volta, per la spiritualità. È la storia, infatti, di un ragazzino che viene scaraventato oltre oceano, trattato male da tutti, ma riesce a mantenere un senso di dirittura morale pur frequentando quasi esclusivamente delinquenti. Karl Rossmann si porta dentro una voglia di fare il bene, che gli fa attraversare queste 250 pagine del romanzo come una creatura cristallina. Sono stato proprio io a proporre Americanon appena l’editore, soddisfatto dei risultati ottenuti con Cuore di tenebra, mi ha proposto di ripetere l’esperienza».