Raffaele Carretta, IoDonna 21/3/2015, 21 marzo 2015
FRANCESCO PICCOLO: «RISCATTO TUTTI QUEGLI ATTIMI CHE CI FANNO MALE»
«Due parallele si incontrano all’infinito, quando ormai non gliene frega più niente»: dalla frase del geniale Marcello Marchesi, isolata nel bianco della pagina d’inizio, si capisce subito verso dove si mette in marcia Momenti di trascurabile infelicità (140 pagine, 13 euro, Einaudi), il libro di Francesco Piccolo che replica quello del 2010 dedicato alla felicità (nel frattempo con Il desiderio di essere come tutti ha vinto l’edizione passata del premio Strega).
«La frase di Marchesi, meravigliosa e straziante, è l’esergo perfetto per il mio libro, per raccontare certi attimi che hai vissuto ma non riconosciuto».
Cose come gli addobbi natalizi subito dopo le feste, la bellissima sconosciuta che ti chiede di tenerle la mano in aereo e poi capisci che era solo perché aveva paura, il bagno sporco di un locale con un altro che entra subito dopo di te. O il figlio piccolo che arriva con la scatola del Lego mentre sei al computer: «Papà giochiamo?». Spie rosse subito spente nella tappezzeria del cervello. O sperdimenti durevoli, ma sempre tra i minimi sistemi: come O sperdimenti durevoli, ma sempre tra i minimi sistemi: come la vita seguendo la Dukan che alla fine gira intorno alla bresaola agguantata dal frigo.
Piccolo è un neo cinquantenne dal sorriso largo, tanti capelli grigi come la barba e qualcosa di arruffato e infantile che corrisponde parecchio alle cose che scrive e alla voce di chi le racconta, allo stesso tempo colpevole e impunita. Quasi che il senso di colpa esista apposta per essere utilizzato, l’espediente di un’autodenuncia buona per fare letteratura.
Può esistere un’infelicità trascurabile?
Siamo schiavi degli assoluti, la Grande Felicità o Infelicità che capitano chissà se due, tre volte nella vita. Mentre in una giornata ci sono tantissimi attimi che ci fanno male in modo relativo. Un relativo che accumulandosi ha grande valore per noi. Io volevo riscattarlo: è grave occuparsene così poco. È grave per esempio inseguire il grande amore e non curarsi di quelli piccoli. Hai vissuto sei o dieci anni con una persona e quello non è vero amore?
Uomini e donne competono con lo stesso slancio nel campionato dell’amore assoluto?
Per le donne il grande amore sta sempre davanti, nel futuro. Per gli uomini è nel passato: la prima ragazzina, il primo bacio. C’è un’epocale immaturità nell’idea che l’amore abbia a che fare con la giovinezza, e forse con il nulla di fatto, tipico degli inizi. È la scia di un’eterna adolescenza.
Molte delle trascurabili infelicità del libro sembrano, appunto, adolescenziali e coincidono col dover essere: essere marito, padre, scrittore.
È così. Voglio scavare nella sincerità. Prendiamo un sentimento condiviso come: i figli si amano molto. Quello vero è: sì, ma un po’ anche non li reggo. Frase che non contraddice la prima, ma si tende a non dirlo, è un peccato mortale. E invece queste impalcature vanno smontate se si vuole costruire una verità meno consueta. E ci vuole coraggio.
Forse anche un po’ di egocentrismo. Non ci si sente a disagio pensando allo sguardo della moglie o dei figli?
Se uno fa il mio lavoro non può mai pensare a chi si offende, o prova dolore. Non è bello da dire, ma è così. E soprattutto: nulla della propria vita è rintracciabile in modo meccanico nei libri. Prendi pezzi veri e li mischi col falso, rubi qualcosa agli altri e te lo attribuisci. È la libertà da cui nasce l’egocentrismo e la spietatezza: è il tentativo di essere follemente sinceri, ma soprattutto è letteratura. Le prove a carico di una persona vanno rintracciate solo nella sua vita. Se mia moglie mi lasciasse perché ho scritto che ho l’amante sarebbe un errore. Se invece scoprisse che nella vita ho un’amante, beh, allora...
Sua moglie non ha ancora fatto le valigie.
Chi vive con uno scrittore sa com’è uno scrittore. E a proposito di amori assoluti, noi siamo insieme da trent’anni.
Lei ha fama di essere un seduttore.
Lo so. E so anche che questa idea arriva da un romanzo come La separazione del maschio (dove l’io narrante è un poligamo molto auto introspettivo, ndr). Da allora noto che il giudizio verso di me è diverso. Me ne faccio carico.
Nella sua famiglia non c’erano scrittori.
No, e non era una casa di persone colte. I miei hanno un ristorante a Caserta. Mio fratello dormiva nella stessa stanza, ho cominciato a scrivere a 15 anni quando lui non c’era, nascondendomi. Mi sembrava una cosa eccessiva, al di sopra delle mie possibilità.
Com’è stato l’impatto con l’ambiente editoriale?
Ne ero affascinato e spaventato. A Roma sono arrivato a 27 anni. Ho capito subito che tra le regole c’era il mostrare di essere scocciato dal tuo lavoro, di farlo con sufficienza. È una grammatica molto romana. Che all’inizio ho fatto mia per adeguarmi. Ho impiegato parecchio tempo a liberarmene, a darmi il permesso di tirare fuori la felicità di scrivere.
Tra le infelicità del suo elenco c’è la frase «Troppi preliminari».
Beh, l’ho scritta apposta per non doverla spiegare.