Francesco Chiamulera, il Fatto Quotidiano 23/3/2015, 23 marzo 2015
ITALIANI GRANDI POLITICI, MA NEGLI STATI UNITI
Come tutti sanno, ho un grosso debito con Mario Cuomo. Gli devo il fatto di non essersi candidato presidente nel 1992”. Le parole, e lo stile, sono di Bill Clinton. Quando l’ex presidente le consegna a “Time” Magazine, l’8 gennaio 2015, Cuomo è mancato da sette giorni, e come un vero re italonewyorkese ha ricevuto i suoi funerali cattolici nella chiesa di Sant’Ignazio, a Manhattan, con il feretro portato a spalle dalla New York State Police nelle belle uniformi marroni, sotto la neve del primo dell’anno. Con la improntitudine che gli è propria, Clinton tributa al 52esimo governatore dell’(allora) secondo stato più popoloso degli USA un ironico ringraziamento: quello di non averlo sfidato alle elezioni. Implicito riconoscimento che la sua sarebbe stata una candidatura “pericolosa”: nel lessico cifrato della politica, è una vera medaglia al valore. Ma la battuta rivela qualcosa di più. Dopotutto, Mario Cuomo non è stato solo il capostipite di una famiglia di uomini politici democratici più che prominenti nell’Empire State, il protagonista di battaglie per i diritti civili (una su tutte: quella per l’aborto, che lo mise in rotta di collisione con l’arcigno cardinale O’Connor), il padre del governatore di oggi, Andrew.
Il sogno negato
Cuomo è stato, come molti altri, la possibilità mai realizzata di un americano di origini italiane alla Casa Bianca. Quando nel 1984 parla alla convention nazionale dei democratici Cuomo è un profeta nel deserto, Ronald Reagan è solidamente presidente e va verso una riconferma che avrà le dimensioni di una landslide. Reagan aveva usato la metafora biblica dell’America come una luminosa città sulla collina: “Lei, signor Presidente, non vuole vedere l’altra parte della città, quella che non può permettersi di pagare il mutuo o l’educazione dei figli”, gli risponde Cuomo, strappando al pubblico un’ovazione. Ma la vera novità di quella convention è nella candidatura a vicepresidente di Geraldine Ferraro: la prima donna (e unica, insieme a Sarah Palin) a essere candidata alla vicepresidenza, in ticket con Walter Mondale. Newyorkese, conosciuta come una liberal “dura”, ma, soprattutto, anche lei italoamericana.
Sono storie newyorkesi, innanzitutto, quelle dei politici americani di origine italiana. Perché, se si eccettua il North End di Boston e qualche altro (significativo) quartiere di Philadelphia, Chicago, oltre al New Jersey e al Rhode Island, gli italiani in arrivo negli Stati Uniti sbarcavano là, alla foce dell’Hudson. Storie di una comunità che si intrecciano, non solo simbolicamente, con le vicende delle altre minoranze etniche che trovano sistemazione nella Grande Mela a cavallo tra l’Otto e il Novecento. A cominciare dagli ebrei: non è uno sciopero congiunto, unitario, quello che organizzano insieme le donne di origine ebraica e quelle di origine italiana nell’inverno 1909-10, per quattro mesi, per protestare contro le condizioni di lavoro nelle industrie newyorkesi dell’abbigliamento? Non moriranno insieme, le “sorelle” italiane ed ebree, nell’orribile incendio del Triangle Fire, quando nel 1911 al Greenwich Village di Manhattan brucia un palazzo e 146 operaie perdono la vita, chiuse a chiave dai proprietari dell’industria, una Albina Caruso a fianco di una Esther Goldstein, una Lucia Maltese a fianco di una Rose Manofsky?
Il primo fu Fiorello
Per questo, non deve sorprendere che pochi anni dopo sia proprio il figlio di un pugliese e di una ebrea triestina - Irene Coen - a diventare il primo sindaco italoamericano di New York: Fiorello La Guardia, nato nella solida enclave italiana del South Village. Repubblicano, ma amico e alleato del New Deal dell’allora presidente democratico Roosevelt, La Guardia guiderà con il pugno di ferro una città che si affaccia al grande welfare organizzato.
Ma l’appartenenza repubblicana di La Guardia resterà a lungo un’eccezione. Quasi tutti i politici di origine italiana dei decenni successivi tenderanno naturalmente ad affiliarsi alla sinistra, al partito democratico, casa comune delle minoranze. “Viva l’Italia!” esclama Barack Obama nel 2011 davanti a centinaia di americani riuniti alla cena di gala della National American Foundation. “It is good to see so many amici”. E prosegue, con molta autoironia: “ora, per cominciare vorrei fare una confessione. Non ho nessun antenato italiano. Non tutti siamo fortunati. E non so cantare come Frankie Avalon. Dov’è Frankie? Eccolo. Non è invecchiato. Incredibile”.
Un americano su 20
Lo scherzo di Obama ricorda che ormai, in America, più di una persona su venti ha antenati di origini italiane: 17 milioni, forse di più, spesso difficilmente indovinabili per via dei cognomi assunti man mano che ci si mescolava, di generazione in generazione. Non c’è solo, quindi, Leon Panetta, californiano figlio di immigrati calabresi (Carmelina & Carmelo, uno stigma di meridionalità), capo di gabinetto della prima amministrazione Clinton, poi segretario alla Difesa con Obama, quello a cui Barack si rivolse nel 2012 all’indomani della liberazione degli ostaggi in Somalia: “Leon. Good job tonight. Good job tonight”. Non c’è solo la californiana d’adozione Nancy Pelosi, che di cognome da non sposata farebbe D’Alesandro, già speaker della Camera dei rappresentanti dal 2007 al 2011. Non c’è solo Janet Napolitano, già governatrice dell’Arizona, poi Segretario alla sicurezza interna nella prima amministrazione Obama. C’è anche il governatore del New Jersey Chris Christie, la cui madre è di origine siciliana e che potrebbe cercare la nomination repubblicana alla Casa Bianca nel 2016. E qualcuno ricorda che Al Smith, candidato nel 1928 alla presidenza per i democratici, era anch’egli di origine italiana, se è vero che il padre, Alfred Ferraro, tradusse letteralmente in inglese il proprio cognome (“smith” vuol dire fabbro).
Ora tocca a Bill
Tornando all’oggi, è proprio il figlio di Mario Cuomo, Andrew, ora governatore, a raccogliere dal padre il testimone delle politiche liberal e a farsi portabandiera del matrimonio omosessuale: così riaffermando la tendenza paterna a smentire lo stereotipo, quello dell’italoamericano cattolico, tradizionalista, spesso clientelare e mafioso, e forse anche un po’ l’archetipo lombrosiano, dell’uomo pingue e di bassa statura, visto che i Cuomo sono alti e magri, oltre che seccamente progressisti. Ma intanto, in questi decenni, è successo qualcosa. Se i democratici restano una roccaforte degli italoamericani, tanto che il nuovo primo cittadino di New York è il superprogressista Bill de Blasio, non si può non notare come uno dei più celebri americani di origine italiana di questi anni, Rudy Giuliani, sia un repubblicano. Sindaco di New York negli anni Novanta, padre putativo dello slogan “Zero tolerance” diventato poi di moda presso i primi cittadini di mezzo mondo, in seguito possibile candidato alla Casa Bianca, Giuliani si era fatto notare come il politico che poteva piacere anche all’elettorato in maggioranza liberal della Grande Mela. Ma è anche lo stesso Giuliani che a febbraio, a una cena elettorale, ha detto, testualmente, suscitando lo sdegno di molti: “non credo - e so che è una cosa orribile da dirsi - che il presidente ami l’America. Lui non vi ama. E non ama me”. E poi, ancor più audacemente, ha tirato fuori la peggiore delle accuse nella politica americana, non priva, in questo caso, di sinistri richiami razziali: “Obama non è stato cresciuto nel modo in cui siamo stati cresciuti voi e io, attraverso l’amore per questo Paese”. Somma (e crudele) ironia della storia: a dare del non-americano a Barack Hussein Obama è un discendente di immigrati pistoiesi, il cui padre, Harold Giuliani, trafficava in scommesse clandestine, restò coinvolto in una sparatoria e si fece - tanto per restare nel solco dei pregiudizi che si avverano - una bella vacanza nel carcere di Sing Sing.