Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 23 Lunedì calendario

LA POLITICA CON GLI OCCHI BENDATI

Una delle caratteristiche non solo della vecchia ma, purtroppo, anche della nuova classe politica italiana è quella di essere prevalentemente assorbita dai propri problemi interni, di essere affetta da un egocentrismo fortemente miope. Lo si è visto chiaramente nel dibattito politico di questi giorni: la discussione sulla necessità delle dimissioni dei sottosegretari che hanno problemi con la giustizia ha oscurato le anticipazioni sul passaggio della Pirelli, una delle maggiori società industriali private di questo paese, da una proprietà italiana a una proprietà cinese. Questo passaggio, che è stato annunciato ieri sera, avrà certamente, nel bene o nel male, un’influenza rilevante sul futuro economico dell’Italia. Eppure di un fatto relativamente secondario come le possibili dimissioni dei sottosegretari, sono piene e zeppe le cronache.
Lo spazio per le vicende della Pirelli è molto inferiore. Il nome Pirelli è il più recente di una lunga lista di acquisizioni estere di imprese italiane di prima grandezza. Negli ultimi anni sono passate sotto controllo estero imprese leader del lusso come Bulgari e Loro Piana, importanti società alimentari come Parmalat. Una società algerina ha preso il controllo delle Acciaierie di Piombino, una società di Abu Dhabi è entrata in Alitalia con il 49 per cento, trasformandola in una semplice pedina, per quanto significativa , di un gruppo aereo estero. Un altro gruppo estero potrebbe comprare l’Ilva. Imprese cinesi hanno stretto accordi strategici con Finmeccanica. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Tutto questo non è naturalmente un male ed è parzialmente controbilanciato da acquisti, peraltro solo raramente di quest’importanza, di imprese estere da parte di società italiane. Il fatto grave è che tutto questo avviene «per caso». Pressoché nessuno a livello politico si domanda quale significato possano avere questi mutamenti di controllo sul futuro dell’economia italiana; ci si interroga al massimo sul futuro che attende i lavoratori di oggi, sovente in soprannumero al momento dell’acquisizione estera. Si tratta di una preoccupazione certo giustificata ma non ci si preoccupa del futuro che attende i giovani di oggi e i lavoratori di domani, quando le decisioni sugli investimenti, le assunzioni, le aperture e le chiusure di nuovi centri produttivi saranno prese a Pechino oppure ad Abu Dhabi.
All’Italia non manca soltanto una politica industriale ma anche la consapevolezza della necessità di averne una. La riflessione sul futuro dell’economia e la trasformazione di questa riflessione in un indirizzo politico a carattere generale è infatti largamente carente. Andiamo incontro al futuro economico e industriale del Paese con gli occhi bendati, nella convinzione che la politica industriale sia un vecchio arnese da museo, reliquia di un passato socialista e che «il mercato» faccia tutto da solo. Eppure anche il governo della Signora Thatcher, che socialista proprio non era, attuò in maniera chiarissima una politica industriale che, per quanto non priva di errori, è una delle cause dell’attuale ripresa dell’economia britannica.
La volontà di «fare le riforme», ritualmente enunciata in tutta Europa in quasi tutte le occasioni ufficiali, non sostituisce la necessità che le forze politiche propongano un futuro economico per l’Italia e cerchino di realizzarlo. Senza una visione di tale futuro, senza la creazione di un ampio consenso attorno a tale visione le riforme rischiano di cadere nel vuoto: e infatti l’Italia di oggi, proprio perché i suoi politici non sanno guardare abbastanza lontano, appare disorientata. E’ un Paese che non sa che cosa farà da grande e non vuole neanche pensarci.
Non si tratta di una debolezza temporanea. Otto anni fa, si accettò senza batter ciglio l’offerta della Borsa di Londra di acquistare la Borsa Italiana. Di fatto questo passaggio di proprietà segnò l’uscita di Milano dall’elenco delle piazze finanziarie veramente importanti a livello non solo mondiale ma anche europeo e da allora all’Italia è mancato un strumento veramente efficace per far affluire capitali di ammontare significativo alle imprese veramente importanti.
Con poche, notevoli, eccezioni, per garantirsi il futuro le imprese italiane medio-grandi sono state sospinte verso alleanze internazionali in cui spesso non sono il partner forte. Pur essendo la presenza economica italiana significativa in molti settori, alle imprese italiane è mancato, e tuttora largamente manca, un retroterra finanziario nazionale: pur essendo l’Italia uno dei Paesi in cui le famiglie sono maggiormente dotate di capitale finanziario, il collegamento diretto tra imprese italiane e risparmi degli italiani ha difficoltà a realizzarsi. Per questo, sono solo i giovani italiani più preparati a cercare e trovare occasioni di lavoro all’estero: anche le imprese italiane maggiormente dotate di progetti e di idee trovano spesso solo all’estero situazioni favorevoli alla propria crescita, una ragionevole speranza per il proprio futuro.