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 2015  marzo 22 Domenica calendario

QUEL TRAMPOLINO SOPRA OSLO PER SORVOLARE IL BENE E IL MALE

Sono partito da un aforisma del filosofo Friedrich Nietzsche («In tempo di pace l’uomo guerriero si accanisce contro se stesso») e sono arrivato a Oslo. Assegnano, con criteri che il resto del mondo discute, Nobel per la pace. L’ultima guerra li ha trovati addormentati a sognare la neutralità: invasi nel letto durante una notte del ’40, han fatto in tempo a nascondere il re e i capi di stato maggiore a Londra, mentre un traditore si sdraiava tra i cuscini.
La città è distesa sul fiordo, guarda le sue due stagioni succedersi, mentre il tempo resta immane a dispetto di ogni scansione. Nel 22 luglio 2011 ha assistito al più devastante atto di guerra dichiarata da un uomo solo contro la propria patria, le sue scelte e lo stile di vita che si è dato. Anders Breivik, procedendo dal centro di Oslo all’isola di Utoya che le sta di fronte, ha massacrato 77 persone. In passato aveva progettato l’omicidio del più affrettato dei Nobel per la pace: il presidente americano Barack Obama. Ha sparato in nome di Dio, dell’Europa cristiana, dell’Identità perduta e di Conservative, il suo avatar nel gioco di ruolo World of Warcraft. A suo modo incapace di essere flessibile, il sistema giudiziario norvegese lo ha mitemente condannato a ventun anni di reclusione. In terra di pace non ci si accanisce sull’uomo guerriero, anche se sarebbe accanimento terapeutico.
Lo penso mentre la metropolitana di superficie sale verso la collina di Holmenkollen. È diventata famosa una fotografia del re Olav V seduto tra i passeggeri del vagone, con gli sci, diretto alle piste. Pare la usasse regolarmente, precedendo quest’epoca della photo opportunity in cui i sudditi vengono sfamati a immagini, più che a lavoro e giustizia. La destinazione del viaggio è il trampolino per il salto: il più antico e insieme il più moderno del mondo. Realizzato nel 1892, ristrutturato l’ultima volta nel 2010, cento tonnellate che si ergono a 60 metri dal suolo come la spina dorsale di un dinosauro che non ha saputo estinguersi e incombe sugli umani. Il t-rex di acciaio e cemento è la stagione che non passa, la minaccia che non cessa, il fuoco sotto la cenere. È lo sfogo praticabile, l’ammissibile succedaneo di ogni violenza, contro sé o gli altri.
Forse nessuna competizione sportiva provoca i brividi che dà questa, difficile immaginare un gesto altrettanto innaturale. Che cosa guardano gli spettatori? Un uomo, o una donna, che vola, dopo aver preso velocità nella discesa, prima agevolato e poi, quando stacca l’ombra da terra, zavorrato da un paio di assi di legno. Solo gli esperti sanno valutare velocità, posizione, predisposizione all’atterraggio. Per i profani è una sequenza di balzi nel vuoto la cui misura è annunciata da un tabellone che dà senso all’inafferrabile.
Osservare trentasei salti in diretta a Holmenkollen non mi ha fatto capire quel che Werner Herzog svela nel mediometraggio La grande estasi dell’intagliatore Steiner. Manfred Steiner, svizzero, fu un campione della specialità. Herzog lo riprende zoomando e rallentando. Ti è dato allora di assistere alle mutazioni del corpo, percepire quelle della mente e, se l’hai fatto, potrai poi intuirle dal vivo.
Il saltatore comincia ad aprire la bocca mentre si flette, da perpendicolare a quasi parallelo verso gli sci, le braccia attaccate ai fianchi. Prende dentro di sé l’aria e la vita, silenziosamente grida. E poi si perde. Esiste un attimo della traiettoria, prima di iniziare la discesa, che non appartiene alla fisica. Lì è il traguardo. Il punto d’arrivo non è qualche centimetro oltre l’avversario, è in quello spazio-tempo di sospensione da tutto, sopra la collina, le acque, la storia.
Dicono voli come un angelo, ma non è così. Basta guardare la posizione: cerca di sdraiarsi su un piano che non c’è. Posa d’angelo assume quando atterra, quando scampa ed è riverito per questo. Gli spettatori ne proiettavano la morte, l’accettavano per interposta persona, affidavano a lui le loro paure. Nel vuoto e nell’assoluta solitudine, le accoglie per disperderle. Il fotogramma finale di Herzog è il fermo immagine di una poesia dell’intagliatore Steiner: «Io dovrei essere solo al mondo, io e nessun’altra forma di vita: niente sole e niente cultura, io sopra un’alta roccia, senza tempeste e senza neve, senza banche e senza soldi, senza tempo e senza respiro. Allora di sicuro non avrei più paura».
Un uomo solo, senza paure, alla fine del mondo, sopra la collina. Può diventare un assassino o un acrobata: la scintilla iniziale è la stessa, un misto di pura pazzia e volontà di potenza. Qualunque cosa in cui si creda, dio, un’idea, un’altra persona, non è che segnaletica a un bivio. È la strada che si prende dopo, in nome di quella fede, a determinare chi è umano e chi no. Il bene e il male sono scarti impercettibili che diventano abissi, su cui volare o sprofondare. È la scelta di Oslo, del saltatore, di tutti noi.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 22/3/2015