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 2015  marzo 22 Domenica calendario

IL GODZILLA COMUNISTA

Shin si svegliò dentro un sacco di quelli per i cadaveri, forato giusto per lasciarlo respirare nella stiva puzzolente di una nave. Choi, sua moglie, riprese i sensi in un’alcova con baldacchino, fra lenzuola di seta e tende di broccato, dentro un castello da ultimo imperatore. «Dev’essere un incubo» pensò Shin, scrocchiando la tela cerata della sua bara. «Sono finita sul set di un film» pensò Choi accarezzando con le dita la morbidezza squisita delle sete. Tutti e due, senza saperlo, avevano ragione. Lui, il più famoso regista cinematografico sudcoreano con trecento titoli alle spalle, e lei, la più luminosa delle dive di Seul, erano stati drogati e rapiti per conto del futuro despota nordcoreano Kim Jong-il per costruire una Hollywood a Pyongyang e trasformare il tragico “Regno dell’Eremita Rosso” in una superpotenza del grande schermo.
Poco conosciuta fuori dalle Coree, dove le novecento pagine delle memorie del regista non erano mai state tradotte, l’incredibile avventura di Shin e Choi è ora diventata un libro, A Kim Jongil Production (Viking). Fortuita coincidenza, il libro scritto da Paul Fisher usciva negli Usa proprio nei giorni in cui esplodeva il caso del film, The Interview, il rozzo polpettone satirico sul dittatore nordcoreano (il 25 marzo il dvd arriva anche in Italia) che, secondo l’Fbi, ha provocato la rappresaglia informatica contro i computer della casa di produzione costringendo poi la Sony a cancellarne la distribuzione nei normali circuiti. E se leggere la storia di Shin e Choi somiglia alla sceneggiatura di un film è perché tutto, dalla loro vita, al rapimento, alle torture, alla fuga verso la libertà si muove dentro l’ossessione maniacale per il cinema del padre dell’attuale dittatore.
Era il 1978 quando Shin Sang-ok, regista ormai avviato sul viale del tramonto, e la donna dalla quale era da tempo divorziato, la stella un po’ cadente Choi Eun-hee, accettarono uno dei non più frequenti inviti a un festival cinematografico, a Hong Kong. Nessuno dei due sapeva che l’altro sarebbe stato presente e ancora meno poteva immaginare che oltre il trentottesimo parallelo, Kim Jong-il, l’allora figlio del dittatore comunista in carica Kim Il-sung e padre dell’attuale Kim Jong-un (i Kim sono come i Bush, ce n’è sempre uno al potere) aveva messo gli occhi e i propri agenti su di loro. Furono rapiti in albergo. Lui chiuso in quella bara di tela cerata e poi trasportato in nave, lei messa in barella come una malata grave e poi fatta volare su un aereo privato. Per i cinque anni a venire Shin e Choi avrebbero vissuto le loro vite da separati in Corea del Nord. Lei, ancora affascinante a cinquant’anni, adorata dal figlio del “Grande Leader” che ne aveva assaporato tutti i film, era ospite prigioniera nel suo faraonico appartamento dal quale poteva uscire soltanto per partecipare alle cene eleganti del divino rampollo, guardare film con lui, ascoltare le ribalde avventure della sua corte. Lui, Shin, era meno coccolato: dopo un tentativo di fuga, fu rinchiuso in un gulag e tenuto in vita dentro una cella di un metro e mezzo per un metro nutrito con una dieta a base di riso, mais e fagioli – non molto peggiore di quella di un nordcoreano medio. Ebbe però uno straordinario privilegio: quello di non essere giustiziato come i suoi compagni di prigionia. A salvarlo fu, appunto, la divorante passione per il cinema di Kim Jong-il. Il papà gli aveva regalato la direzione dell’Agenzia di Stato per il Cinema e la Propaganda e lui aveva già accumulato una collezione fatta di ventimila film. Adorava tutta la serie degli 007, i western, i vari Rambo, i Venerdì 13 e i musical. Un genere, quest’ultimo, che aveva onorato producendo un marmoreo polpettone patriottico di duecentoquaranta minuti, quattro ore, dall’accattivante titolo di Mare di Sangue sull’occupazione giapponese. Ma nonostante tutto ciò il resto del mondo continuava a ignorare la cinematografia nordcoreana. Un vuoto insopportabile per l’erede al trono di Pyongyang, al quale i due ostaggi avrebbero dovuto porre rimedio.
Sbigottiti, Shin e Choi si ritrovarono una sera l’uno di fronte all’altra nel palazzo del loro carceriere-mecenate, scoprendo solo allora che da cinque anni vivevano entrambi – lei nella reggia, lui nel gulag – in Corea del Nord. La proposta del futuro dittatore fu di quelle che non si possono rifiutare: produrre film da esportare, o fare una pessima fine. A loro disposizione fu messa una bizzarra Cinecittà: la scuola delle spie. Il luogo in cui il regime preparava agenti maschi e femmine da inviare nel mondo e insegnava loro come truccarsi, travestirsi, posare. Dunque, come recitare. Dal lavoro del regista, e della ex moglie tornata primadonna, nacquero sette memorabili produzioni. Film di spionaggio, come Emissario senza ritorno e Fuggitivo, con immancabile lieto fine: la cattura e l’esecuzione degli agenti imperialisti. Drammoni di forte contenuto rivoluzionario come Sale, esibito e premiato al Festival di Mosca nel quale Choi vinse una sorta di Oscaroski sovietico come migliore attrice. Quindi, per commuovere e allietare le masse nordcoreane, interrompendo la sequela di mattoni propagandistici, Kim volle concedere una versione sentimentale delle sue amate commedie musicali, intitolata, per non lasciare dubbi sul contenuto, Amore, Amore, Amore Mio . Un successo enorme. Che non gli bastò. Invidioso dei successi giapponesi nella fantascienza, il giovane Kim, figlio di Kim e padre dell’attuale Kim, tentò la carta dei filone Godzilla, facendo creare ai due il mostro Pulgasari, un mostruoso Pinocchione vendicatore scolpito da un umile falegname e cresciuto a dismisura per diventare il protettore degli umili e il castigatore dei ricchi signorotti feudali. È diventato un film di culto per il pubblico americano sofferente di insonnia, trasmesso alle ore piccole da canali locali come oggetto di spasso e di ridicolo.
Fu il successo a tradire Kim, ormai divenuto “Caro Leader”. Convinto che Choi e Shin si fossero convertiti al socialismo coreano, permise loro di viaggiare in Europa per diffondere i prodotti della Hollywood Rossa. Ma a Vienna, i due dopo la proiezione di un loro film tentarono la fuga pur sapendo che niente avrebbe salvato il loro collo se li avessero ripresi. Con una corsa in auto per le vie della capitale austriaca, inseguiti dai loro carcerieri e dalla polizia, riuscirono a raggiungere l’ambasciata americana e a chiedere asilo politico. Nessuno filmò o raccontò per il cinema quell’ultima avventura che sarebbe stato il miglior thriller della loro vita, ora finalmente narrata nel libro da Fisher.
Come nella più cinematografica delle love story Choi e Shin si risposarono e tentarono di ricominciare a lavorare. Prima a Beverly Hills, dove lui diresse Il racconto dell’inverno con lo pseudonimo di Simon Sheen, e poi in patria, a Seul, dove lei ancora vive, prossima ai novant’anni. Prima di morire, Shin ricevette la medaglia di Eroe della cultura dal presidente sudcoreano che gli confessò, a bassa voce, di avere più volte visto Pulgasari.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 22/3/2015