Anais Ginori, la Repubblica 22/3/2015, 22 marzo 2015
JE SUIS ZINEB
PARIGI
Charlie è una donna che cammina stretta tra due guardie del corpo, mentre altri poliziotti bloccano al traffico un’intera strada per isolare e proteggere la macchina sulla quale deve salire. «Adesso faccio parte del piccolo e maledetto club di persone da abbattere solo per quello che dicono o scrivono». Per lei non c’è stato neppure bisogno di una fatwa, un editto religioso. È bastato un hashtag, diventato in poche ore il più popolare sui siti jihadisti: #obligation de tuer zineb el rhazoui pour venger le prophète, “obbligo di ucciderla per vendicare il Profeta”: «Non è un’opzione ma proprio un obbligo». Zineb El Rhazoui arriva scortata nella sede di Libération, dietro place de la République. Sale all’ultimo piano, entra nella stanza hublot, come l’oblò dal quale si vede tutta Parigi, in quella che da un paio di mesi è la redazione provvisoria di Charlie Hebdo. Il giorno prima è stata costretta ad annullare l’incontro con Repubblica , le autorità le hanno chiesto di abbandonare in poche ore il suo domicilio per trasferirsi in un luogo segreto e sicuro. «Devo risolvere una serie infinita di piccoli e grandi problemi. Non sono preoccupata per me, ma per chi mi sta accanto». Nei siti jihadisti è citato anche suo marito, lo scrittore marocchino Jaouad Benaissi. «Non lavora a Charlie, non è un personaggio pubblico ma si ritrova suo malgrado travolto da questa shit storm ».
Prima di riuscire a parlare con Zineb ci sono vari filtri, perquisizioni. Fino a qualche settimana fa, nessuno o quasi conosceva il suo volto. Ora la sua foto accompagna le minacce di morte che circolano in Rete. Sono appelli precisi, dettagliati. «In mancanza di una pallottola o di esplosivo, viene suggerito di isolarmi e schiacciarmi la testa con dei sassi, sgozzarmi, darmi fuoco. E se proprio non c’è altro da fare, bruciare la mia casa». Snocciola le diverse possibilità come se parlasse di un’altra persona, con un misto di ironia e sfida. «Bene, stronzi, vi » ha reagito in televisione, subito dopo la notizia dell’hashtag minatorio, a febbraio. Ora tutto è diventato meno virtuale. La convivenza forzata con gli agenti, i traslochi imposti nella notte, qualsiasi movimento, incontro, sottoposto a verifiche. La libertà non è più quella di prima. Zineb controlla ogni parola. «Ok, ho sbagliato a dire stronzi. Non bisogna insultare. Diciamo integralisti, ok?». Alle undici del mattino ha già finito il primo pacchetto di sigarette slim alla menta. «Per gli integralisti rappresento una visione insopportabile». È donna, giovane, nata a Casablanca il 19 gennaio 1982, è una musulmana atea, una sociologa delle religioni che ha deciso di lavorare in un settimanale satirico, laico e anarchico. Dentro a Charlie Hebdo è l’unica a parlare arabo, ha fatto l’esegesi di libri antichi e riservati agli specialisti dell’Islam. «Sono la prova vivente che non esiste lo scontro di civiltà, ma la scontro tra una barbarie e laciviltà». Come tante bambine marocchine, Zineb è cresciuta seguendo l’educazione islamica obbligatoria a scuola. «Ma non eravamo costrette a mettere il velo, né c’erano classi separate tra maschi e femmine, come vorrebbero fare gli integralisti oggi». A diciotto anni è arrivata a Parigi per fare l’università, si è iscritta al master di sociologia delle religioni all’Ehess, la scuola di scienze sociali dove sono passati Lévi- Strauss, Bourdieu, Foucault. Ha vissuto due anni in Egitto, insegnando all’università del Cairo, prima di decidere di tornare in Marocco, nel 2007. «Sentivo che era lì che dovevo fare le mie battaglie». Zineb scrive su Le Journal Hebdomadaire, giornale francofono e indipendente. Insieme a un gruppo di amici fonda “Mali”, acronimo di Mouvement alternatif pour les libertés individuelles, che in arabo marocchino significa anche “Cosa c’è che non va?”. Nel 2009 il Mali organizza un picnic all’aperto durante il periodo di Ramadan per protestare contro l’articolo 222 del codice penale che mette in prigione chiunque mangi pubblicamente durante il digiuno religioso. Zineb e gli altri militanti vengono arrestati, poi rilasciati. L’anno dopo, la polizia entra nella redazione de Le Journal Hebdomadaire, mette i sigilli. Nel 2011, con le primavere arabe, diventa portavoce del “movimento del 20 febbraio”, data della prima di una serie di manifestazioni per chiedere riforme democratiche. Presto i contestatori si dividono, la repressione si fa più dura. Zineb decide di lasciare Casablanca per la Slovenia dov’è stata inserita nel programma “Icorn”, l’ International Cities of Refuge Network, che dà rifugio a scrittori e giornalisti perseguitati. «Se fossi rimasta in Marocco sarei davvero finita nei guai» ricorda fumando un’altra sigaretta.
È durante la sua fuga che incontra la banda di Charlie Hebdo. Una giornalista del settimanale la intervista a Parigi sulle primavere arabe. Due giorni dopo è a pranzo con i vignettisti Charb e Riss. Zineb comincia a mandare articoli sul mondo arabo, su quella che chiama «decostruzione dell’ideologia integralista», offre una sponda erudita per rispondere alle critiche che il giornale riceve dal 2006, quando pubblicò le vignette danesi su Maometto. Una mattina il direttore Charb chiama Zineb in Slovenia: «E se raccontassimo chi era davvero Maometto? Tutti conoscono la vita di Gesù o Mosè, nessuno quella del messaggero di Allah». Lei scrive i testi, lui disegna. Una cosa seria, senza caricature né battute. La biografia a fumetti, allegata al giornale, diventa un libro, con note bibliografiche in cui l’autrice rimanda agli antichi racconti sulla vita del Profeta. «Non abbiamo inventato nulla, anche perché la vita di Maometto è già abbastanza straordinaria così». Il Profeta è rappresentato con l’omino giallo, feticcio di Charb.
Il 7 gennaio scorso Zineb era nella casa di famiglia in Marocco. Aveva messo la sveglia presto, doveva mandare una proposta di articolo prima della riunione di redazione. La sua email è rimasta senza risposta. Zineb ha continuato per tutto il giorno a chiamare Charb, anche se ormai sapeva che era morto. Non voleva crederci. Era lui il più coraggioso di tutti. Ogni volta che si trovava davanti a un problema, gridava ai colleghi «Allah Akbar!». Un giorno Zineb gli chiese di smetterla. «Quando verranno per ucciderti non sapremo se è uno scherzo» gli aveva detto. A dicembre, avevano pranzato insieme prima delle vacanze. Il vignettista-direttore ironizzava sulle difficoltà finanziarie del giornale, sulle questue cui era costretto presso le istituzioni per sopravvivere. «Mi ritrovo a battere come una puttana» le aveva detto. La redazione è sempre stata molto maschile, osserva Zineb, «ma col tempo Charlie ha imparato a essere femminista. Noi ragazze siamo riuscite a farci rispettare». Qualche settimana fa sono venute a Parigi delle guerrigliere curde che combattono l’Is. «Gli integralisti le temono più degli uomini. Sono convinti che se vengono uccisi da una donna non avranno lo statuto di martiri e quindi niente Paradiso, niente vergini: una fregatura, insomma».
Ogni tanto vede Tignous o Charb all’angolo della strada, in mezzo alla folla. Allucinazioni. «Non abbiamo avuto il tempo di elaborare il lutto». Della paura non vuole parlare. «Sono finita in mezzo a una guerra, sarebbe da vigliacchi capitolare per salvare la pelle. E comunque non servirebbe». Sta preparando il prossimo articolo. La traduzione commentata di un questionario dell’Is a proposito della vendita di donne. Ne racconta qualche estratto. «“Se compro due sorelle posso fare sesso con tutte e due?”. Risposta del Califfato: “No, una può essere compagna, l’altra domestica”. “Se una delle mie schiave ha un bambino, posso rivenderlo?”. “Sì”. “Quando compro una donna posso fare l’amore subito?”, “Se non è vergine bisogna aspettare che abbia il ciclo per essere sicuri che non sia incinta”». L’articolo di Zineb uscirà presto su Charlie Hebdo. Era la proposta che aveva mandato a Charb il 7 gennaio. «Ho interpretato il silenzio come un sì».
Anais Ginori, la Repubblica 22/3/2015