Il Sole 24 Ore 22/3/2015, 22 marzo 2015
ALTRI PEZZI CINA PER GDA
Se Pechino punta 100 miliardi sull’Italia
Quindici anni fa le grandi società cinesi in Italia si contavano sulle dita di una mano. Conglomerate statali con sedi commerciali, nulla di più. Siti produttivi, zero. Le attività cinesi erano quelle degli immigrati dal Fujien e dallo Zheijiag: ristoranti, società di import-export, small commodities, abbigliamento e affini. Se qualcuno avesse detto che la Banca centrale cinese stava rastrellando sul mercato azioni blue chip si sarebbe pensato a uno scherzo.
E, invece, in pochi mesi, di recente, Zhou Xiaochuan, il Governatore che sostiene di aver immobilizzato in Italia almeno 100 miliardi in asset tra partecipazioni e investimenti finanziari, ha superato il 2% in Eni, Enel, Prysmian, Mediobanca, Generali, Fiat, Telecom, più facile dimostrare chi non c’è, in ossequio a una strategia precisa: privilegiare la diversificazione dell’investimento valutario, spostando qualche granello delle riserve - 3mila miliardi di dollari - dai certificati di deposito americani ad altri asset.
Colpi come Ansaldo energia-Shanghai electric e State Grid- Cassa depositi e prestiti-Reti hanno dato una scossa imprimendo un’accelerazione che ha portato l’Italia al primo posto nel 2014 per gli investimenti cinesi: è stata il primo mercato dell’Eurozona, con ben 2,490 miliardi nell’energia, 598 milioni nei macchinari industriali, a seguire nel settore alimentare e agrobusiness 50 milioni e nei prodotti di consumo 32. Gli investimenti diretti cinesi erano quasi inesistenti fino al 2004, poi la media è stata di poco meno di 1 miliardo all’anno. A partire dal 2009 i flussi d’investimento sono triplicati a quasi 3 miliardi, prima di triplicare ancora nel 2010 oltre i 10 miliardi. Tanto per favore un paragone, in totale dal 2009 i flussi d’investimenti cinesi in Europa sono stati di 55 miliardi.
Oggi questa cinese è una realtà consolidata e l’arrivo in massa di altre banche cinesi oltra alla storica Bank of China che ha due filiali, Icbc in fase di raddoppio, China construction bank, Agricoltural bank sta a testimoniare il cambio di passo. Ieri durante il China Development Forum Tian Guoli il numero uno di Bank of China ha detto che il QE sarà un grande vantaggio per queste realtà cinesi. In contemporanea, aggiungiamo noi, un euro che in un anno ha perso un quarto del valore sul renminbi incentiverà ulteriori mosse da parte di Pechino.
Per non parlare del gran numero di aziende a contenuto tecnologico acquistate da cinesi con M&A di aziende ad alto valore aggiunto trattori per l’agroindustria, pompe idrauliche. Oggi Snam entra nel mercato cinese con PetroChina ma anche per operare su mercati terzi.
C’è di più: la tanto vagheggiata mossa del Cic, il fondo sovrano cinese potrebbe verificarsi quest’anno, con l’ingresso come azionista in Cassa, il nostro fondo sovrano, sempre per le infrastrutture, quindi dentro F2i.
La sleeping beauty europea si è svegliata, dal 2000 In Italia nel periodo 2000 – 2014 gli investimenti cinesi italiani si sono concentrati principalmente nei seguenti tre settori: nell’energy con 2,660 miliardi di dollari, nel settore dei macchinari industriali con 835 milioni e nel settore automotive con 600 milioni. Seguono i prodotti e servizi di consumo con 191 milioni, l’IT con 101 milioni, il real estate con 68 milioni e il settore alimentare e agricoltura con 51 milioni.
La tipologia di operazioni di M&A è cambiata negli ultimi cinque anni, una delle più rilevanti tendenze è la crescita delle piccole e medie operazioni di M&A realizzate spesso da investitori finanziari che però si affianca ai megadeal, come quello in corso tra Pirelli e China Chem.
La flessione del mercato interno cinese nel 2013 e 2014, e il boom dei viaggi dei cinesi all’estero nello stesso periodo - per ragioni di turismo, studio ed emigrazione – stanno spingendo, adesso, sull’immobiliare.
Se i cinesi di Insigma sono rimasti a bocca asciutta con i treni di Ansaldo breda di Finmeccanica finiti ai giapponesi, in Italia ci sono grandi societa come Huawei Hisense Haier. E la moda? Fosun è entrata in Caruso, e domani, a Pechino, sfila Marisfrolg che, per chi non lo sapesse, è il marchio di ZhuChongYun, l’imprenditrice di Shenzhen che ha comprato Krizia. Anche nella moda, è solo l’inizio.
di Rita Fatiguso
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PECHINO
Al China Development Forum che si svolge a Diaoyutai, la prestigiosa State Guesthouse della capitale, Ren Jianxin, 57 anni, dal13 gennaio scorso chairman di China Chemical, non si è visto, nessuna ombra della sua presenza nei panel o seminari dedicati - guarda caso - alla Cina del “new normal”.
Eppure, l’evento clou che chiude idealmente il Congresso nazionale del popolo di marzo aprendo la Cina al mondo, non potrà ignorare a lungo quelli come Ren Jianxin, gli uomini del “new normal”, i nuovi manager in grado di traghettare colossi malfermi e improduttivi come le imprese statali cinesi ammalate di overcapacity, verso nuove mete, lungo le traiettorie non sempre facili del Go Global. Una strategia, quella dell’internazionalizzazione, sulla quale Ren, in carica da tre mesi, sembra avere da tempo idee molto chiare, professando la necessità di crescere attraverso le acquisizioni e la diversificazione dell’attività.
Carriera interna, competenze tecniche in linea con l’attività aziendale, curriculum gradito al partito, Ren vanta anche una storia di produzione di valore, ha creato Blue Red Star, società per i lavaggi industriali poi confluita in China Chem.
Per questo il suo nome è finito nella lista dei “premiati” da Sasac, in rigoroso ordine alfabetico, quando l’ente che vigila sulle societa’ statali ha comunicato le nuove nomine nella chimica, tra cui il mandato triennale per Ren, che sarà al comando di China Chem fino al novembre 2017.
Dal G ansu, sua terra natale, al ruolo di chairman of China National Chemical Corporation, in mezzo, c’è la Cina che deve cambiare passo. Intanto, Ren è un manager a tempo, come si è detto, non a vita. Oggi i giganti pubblici devono rinunciare agli esorbitanti stipendi, tagliati da Xi Jinping, dribblare le trappole della corruzione (e non è facile) e, in ultima analisi, preparsi all’audit non solo interno, già attivato sul mercato locale, ma anche a quello delle acquisizioni fatte all’estero. Il Governo centrale non ha ancora deciso a chi affidare il monitoraggio, ma il dado è tratto e anche i ritorni, spesso risibili, degli investimenti realizzati all’estero, sempre più spesso bacchettati dal Mofcom, il ministero del Commercio, dovranno essere passati al setaccio. Il ricambio manageriale è un passo obbligato. Ren Jianxin ama ricordare un momento cruciale della sua carriera, quando decise di rimuovere un direttore generale nonostante la riluttanza del partito locale. Doveva farlo, e lo fece. Soprattutto, dimostrò che si poteva farlo, per il bene dell’azienda. Il tempo gli ha dato ragione.
R. Fa
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Prede e predatori nel nuovo capitalismo–
La vicenda Pirelli ha un valore paradigmatico. La sua acquisizione da parte di Chem China rappresenta la definitiva uscita dal Novecento industriale italiano. E l’ingresso nelle nuove mappe di un capitalismo globalizzato in cui Europa e Cina si affrontano con durezza.
L’operazione sancisce la fine di un secolo lungo segnato per il nostro Paese dalla capacità di essere uomini di fabbrica e da una spinta all’internazionalizzazione che hanno sempre dovuto fare i conti con un capitalismo familiare interessato al controllo dell’impresa e dotato di minori capitali rispetto ai concorrenti stranieri. Un profilo, dunque, molto italiano. Ma l’operazione di Chem China su Pirelli è anche l’ulteriore prova del nuovo confronto fra grandi aggregati politico-territoriali, in cui il nuovo soggetto forte della globalizzazione – la Cina – sceglie di assimilare pezzi tecnologici e manifatturieri occidentali, secondo scelte di politiche industriali a cui invece l’Unione Europea – lacerata da micro politiche nazionali - non riesce a replicare. Qualcosa che, dunque, riguarda tutta l’Europa. «Questo episodio – riflette Franco Amatori, decano degli storici economici della Università Bocconi – si iscrive in una vicenda di lungo periodo in cui la spinta a crescere sui mercati esteri, essenziale fin dagli anni Cinquanta vista la piccola dimensione del mercato italiano, ha sempre avuto un freno in due caratteristiche del nostro capitalismo nazionale: l’ansia di controllo della famiglia fondatrice sull’impresa e i mezzi finanziari inferiori alle ambizioni». Franco Amatori, che ha avuto modo di raccogliere la testimonianza di Leopoldo Pirelli poco prima della sua scomparsa otto anni fa e che poi ha avuto accesso al suo archivio, ricorda il passaggio a vuoto del 1971. Allora si arrivò a pochi centimetri dalla fusione fra Pirelli e Dunlop. In quel passaggio storico Michelin aveva il predominio commerciale e tecnologico. L’operazione Pirelli-Dunlop aveva una significativa ragione industriale: i prodotti erano complementari. Ma Dunlop aveva un azionariato diffuso. Era una public company. «Leopoldo – rammenta Amatori – non se la sentì di vedere la sua quota diluita in una nuova impresa in cui avrebbe faticato non a comandare, ma anche solo a determinare l’indirizzo strategico». C’è la questione del desiderio del controllo. E c’è il tema dei soldi. Ai Pirelli e alla Pirelli degli anni Settanta e Ottanta - «assolutamente centrali nel sistema di Mediobanca», secondo Giandomenico Piluso, docente di Storia di impresa all’Università di Siena - non si attaglia il giudizio severo che, su quel mondo ormai prossimo all’autunno, avrebbe formulato nel 1991 Napoleone Colajanni nel saggio pubblicato da Sperling & Kupfer “Il capitalismo senza capitale”. Ma, di certo, Leopoldo comprese la differenza delle regole e delle misure in gioco quando nel 1988 provò ad acquisire negli Stati Uniti la Firestone. Un mondo – fra Akron in Ohio, Chicago e Wall Street – in cui non valeva la frase di Enrico Cuccia «le azioni si pesano, non si contano». Il tentativo di scalata fallì per l’offerta dei giapponesi di Bridgestone, di gran lunga migliore sotto il profilo finanziario. Il tema della capacità finanziaria al servizio dell’espansione internazionale – cruciale in ogni periodo storico, anche quando i mercati erano più chiusi come negli anni Ottanta – rappresenta una continuità di lungo periodo per la Pirelli, che in questo appare davvero paradigmatica della fisiologia del nostro capitalismo. Fra il 1990 e il 1991 l’impresa italiana imposta una scalata alla Continental. Una operazione che non ha una origine ostile. «Dopo una fase iniziale positiva – sottolinea Amatori – i negoziati prendono una brutta piega non soltanto quando Pirelli mostra di volere comandare non rispettando il principio di condivisione del potere proprio del capitalismo renano, ma soprattutto quando la proposta finanziaria viene formulata parte in denaro e parte conferendo la Pth, la holding quotata ad Amsterdam che racchiudeva delle attività internazionali. A quel punto, il sistema tedesco, formato in particolare da Deutsche Bank, da Volkswagen e da Bmw, dice no». Nella continuità di lungo periodo, gli anni Novanta e gli anni Duemila sono stati segnati sul piano micro dalla leadership familiare e societaria di Marco Tronchetti Provera che, nonostante il vulnus rappresentato dall’investimento in Telecom Italia, ha perversato in Pirelli nella strategia di risanamento e di sviluppo, di razionalizzazione delle procedure e dei processi interni e di internazionalizzazione. Questa consistenza industriale ha fatto il paio con il binomio formato dal controllo della società attraverso catene societarie e dalla ricerca di investitori in grado di apportare, appunto, nuovi capitali. Una ricerca di nuovi capitali, all’interno delle ragioni e degli interessi sia della famiglia che dell’impresa, che alla fine ha appunto portato all’arrivo dei cinesi. Invece, sul piano macro, nella dialettica fra particolare e generale fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta in Europa è successo qualcosa i cui effetti perdurano ancora oggi. E che mostrano le cause dell’assenza di una risposta sistemica europea – di qualunque genere, beninteso - di fronte a una Cina che procede, rispettando le regole del mercato, come un cingolato, in questo come in altri casi. Fra il 1985 e il 1994 Jacques Delors da presidente della Commissione Europea prospettò la necessità di politiche industriali comunitarie. «Il suo consigliere Alexis Jacquemin – nota Franco Mosconi, docente di Economia industriale all’Università di Parma – dimostrò che era necessario abbandonare politiche industriali difensive su base nazionale. I singoli Stati preferirono, invece, procedere in autonomia. Il risultato è che, oggi, manca una politica industriale comunitaria, all’interno della quale si muovano i grandi gruppi industriali come Pirelli, che non sono italiani, ma europei». Che non erano italiani, ma europei, viene da dire. Dato che, ora, sono cinesi. «Pirelli doveva crescere. Aveva bisogno di capitale nuovo, per aprire per esempio un mercato come quello cinese che, fra il 2020 e il 2025, varrà quanto quello europeo», afferma Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia. Che aggiunge: «Non ha più senso parlare di Paesi. Ormai il confronto è fra piattaforme produttive di grandi dimensioni, soprattutto alla luce delle nuove tecnologie Industry 4.0. Dunque, anche le policy devono misurarsi su queste scale. I cinesi si muovono con decisione. L’Europa non sempre sa che cosa vuole dalla sua identità manifatturiera». E se non lo sa l’Europa, figuriamoci l’Italia.
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Paolo Bricco
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L’operazione Pirelli è la conferma che le condizioni finanziarie per favorire le fusioni tra aziende sono praticamente idilliache. I tassi sono sui minimi storici in gran parte del mondo occidentale. La liquidità, anche nei bilanci delle aziende, è a livelli record. I mercati azionari sono sui massimi. È così che le acquisizioni (in gergo tecnico M&A) sono destinate ad aumentare a vista d’occhio nei prossimi due anni. Lo rivela un sondaggio condotto da Deloitte tra 2.500 top manager di aziende Usa e di fondi di private equity: l’84% degli intervistati prevede attività sostenuta, se non un aumento, nel settore dell’M&A. E il 75% prevede di acquisire presto aziende fuori dai confini nazionali.Questa è l’altra faccia dei mercati a tassi zero, che aiuta le aziende di tutto il mondo ad aggregarsi e a cercare sinergie. Anche verso l’Italia - nota Deloitte - l’interesse è in crescita. Soprattutto da parte di investitori americani e asiatici, verso aziende con tecnologia avanzata.
I numeri segnalano grande fermento: in America in una sola settimana dello scorso mese di febbraio le aziende hanno annunciato fusioni per circa 120 miliardi di dollari, pari all’11,5% di tutta l’attività di M&A nell’intero 2013. Il rischio però, guardando questo fermento, è che si torni agli eccessi del 2007, quando le acquisizioni erano un business così esuberante che le aziende passavano di mano a prezzi troppo elevati e i fondi si indebitavano eccessivamente. Il rischio, insomma, è che si formi una nuova e rovinosa bolla speculativa, favorita dall’eccesso di liquidità. Ma secondo Dan Schweller, global financial advisory manufacturing industry leader di Deloitte, per ora l’esuberanza non è ancora su quei livelli: «Dopo la bolla del 2007 i regolatori americani hanno imposto un limite alla leva finanziaria, pari a 6 volte». Questo significa che che ogni dollaro di capitale, l’acquirente può indebitarsi fino a 6 volte. «Il limite non è obbligatorio, ma caldeggiato dalle Autorità - spiega Schweller -. E le operazioni negli Usa effettuate da fondi di private equity hanno mantenuto fino ad ora una leva media di 5,9 volte: si tratta di un livello elevato, ma non paragonabile a quello raggiunto prima della crisi. Se l’economia continua a crescere, non preoccupa». Anche i prezzi pagati per acquisire le aziende continuano a crescere. «Non sono pubblici - spiega Schweller -, ma la sensazione è che stiano aumentando. Questa è una fonte di preoccupazione, anche se per ora c’è un buon equilibrio tra le esigenze degli acquirenti e quelle dei venditori». Insomma: anche su questo fronte non siamo tornati ai livelli della bolla del 2007. Il fermento c’è. Il rischio anche. Ma per ora è lontano.
Morya Longo
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Tre riassetti finanziari e uno, quello preannunciato con Chem China, più industriale. È la cronaca degli ultimi sei anni di Pirelli, con il gruppo degli pneumatici al centro di rivoluzioni “azionarie”. Ma soprattutto è la sintesi della battaglia personale portata avanti da Marco Tronchetti Provera che senza aver dalla sua la forza della liquidità che possono vantare vecchi e nuovi partner, sembra ora prossimo ad ottenere quella stabilità azionaria necessaria per poter gestire la nuova fase di Pirelli. Migliorare ancora non sarà impresa facile perchè Pirelli ha già conquistato livelli di redditività importanti che i prezzi di Borsa riflettono, con il valore del titolo raddoppiato nel giro di tre anni. Ma è altrettanto vero che se l’obiettivo, nell’ambito del grande accordo italo-russo-cinese, è dividere il segmento gomme per camion dai pneumatici per auto e moto ci sono almeno due elementi da mettere in conto.
Il primo è di natura squisitamente finanziaria. Separare le due componenti porterebbe il gruppo Pirelli a creare una società pura di pneumatici consumer premium, avvicinandosi ai multipli da prima della classe di Nokian. E se si andassero oggi ad applicare i multipli del gruppo finlandese all’Ebitda della parte consumer, la creazione di valore sarebbe sensibile.
Il secondo è di natura industriale. Pirelli da tempo cercava un partner per la divisione gomme per camion. E il gruppo cinese, attraverso Aeolus ha già una attività nel comparto. L’unione con la divisione truck di Pirelli potrebbe così raddoppiare le dimensioni del gruppo in tale segmento, fino a collocarsi ai primi posti tra i produttori mondiali, oltre che elevare la qualità dei pneumatici per mezzi pesanti in Cina. Senza contare, e questo vale sia per la parte “truck”, sia per la parte “premium”, che l’intesa con Pechino apre le porte del mercato cinese, una grande, enorme, opportunità per la Pirelli made in Italy. E qui, appunto, emerge la principale diversità del riassetto in corso rispetto ai precedenti. La prima alleanza firmata da Tronchetti Provera risale al 2009 e coinvolgeva la famiglia Malacalza. Il socio genovese, dalla sua, aveva quella forza finanziaria e quella liquidità che andavano a «rafforzare» la proprietà, fino ad allora sostanzialmente rappresentata da Tronchetti e dal patto di sindacato. Il matrimonio con il socio genovese è però poi finito a carte bollate e nel 2013 è stato decisivo l’intervento di UniCredit, Intesa Sanpaolo e del fondo Clessidra per sbrogliare la complicata matassa che si era venuta a creare. Una cordata di partner finanziari che ha accompagnato, se vogliamo, la fase di transizione della Pirelli, con una proprietà più debole rispetto al passato per il venir meno di quel capitalismo fatto di patti di sindacato che per anni aveva garantito il controllo. Dopo soli dodici mesi il terzo passaggio: l’ingresso con il 13% indiretto di Pirelli del socio Rosneft. Probabilmente, se non fosse subentrata la crisi Ucraina e il crollo del rublo il percorso sarebbe stato diverso. Ma tali vicende hanno imposto un cambio di marcia improvvisa. Questa volta però con un riassetto che incide profondamente sulla proprietà, dato che Chem China è pronta a prendere in mano il controllo di diritto della Pirelli. Un prezzo alto da pagare. Ma quali sarebbero state le alternative? Se si esclude l’opzione Cdp, legata più a scelte di politica, le possibilità erano sostanzialmente due: la cessione ai fondi di private equity o la vendita ai big europei e americani. Ma in entrambi i casi il risultato sarebbe stato, probabilmente, uno smembramento della Pirelli, vuoi per la natura e la strategia dei soggetti coinvolti(private equity), vuoi per i problemi legati all’Antitrust (i vari Continental , Bridgestone e Michelin).
Marigia Mangano