Stefano Stefanini, La Stampa 21/3/2015, 21 marzo 2015
PERCHÉ SERVE UN PIANO PER LA LIBIA
La Libia sta precipitando nel baratro. Fazioni, milizie armate, ostilità trascinano inesorabilmente il nostro dirimpettaio mediterraneo in una spirale d’ingovernabilità e di violenze. Per l’Italia è triste assistere da vicino alla tragedia del popolo libico. E’ snervante l’alea sui rifornimenti energetici; non sono venuti meno grazie alla tenacia tecnica e manageriale dell’Eni e all’abilità della nostra diplomazia e dei nostri servizi, ma sono appesi a un filo che si può spezzare in qualsiasi momento. E’ preoccupante la crescente pressione migratoria che fa della Libia un’autostrada per il traffico di esseri umani verso l’Europa.
Ed è irresponsabile non prendere le misure necessarie per proteggere il nostro Paese dalla minaccia del terrorismo che, indisturbato, sta mettendo radici alle porte di casa. O, quanto meno, non cominciare a pensarvi seriamente. Non saranno altri a farlo per noi.
Costa o deserto, i confini libici sono porosi e incontrollati. Non fanno certo da barriera al raggio d’azione delle varie affiliazioni jiahdiste, da Daesh a Al Qaeda, i cui obiettivi e rete di collegamenti vanno ben oltre Tripolitania e Cirenaica. Quattro italiani hanno perso la vita nell’attentato al Museo del Bardo, in una Tunisi che ha faticosamente conquistato stabilità e democrazia. Siamo alla vigilia della stagione turistica mediterranea. Non si possono certo proteggere tutte le località e siti che avranno milioni di visitatori nei prossimi mesi. Né gli obiettivi potenziali sono solo quelli. La gamma è infinita. Le minacce all’Italia e, specificamente a Roma quale capitale della cristianità, non sono mancate. La mini-strage del Bardo dovrebbe essere un campanello dell’allarme del rischio che stiamo correndo. Non solo in Italia, ma l’Italia è certamente la più vicina all’epicentro libico.
E’ ancora in corso l’iniziativa diplomatica per portare intorno al tavolo le varie «parti» della crisi libica. L’Inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, non ha ancora gettato la spugna. Fa benissimo l’Italia a continuare a sostenerlo. Ma quand’anche, inaspettatamente, la diplomazia conducesse alla formazione di una coalizione in grado di rivendicare una rappresentatività nazionale, non spariranno dal giorno all’indomani né milizie ed armi, né si dilegueranno le componenti più radicali e terroriste ormai saldamente insediate sul territorio. A Sharm El Sheikh Matteo Renzi ha coraggiosamente riconosciuto il ruolo di prima linea dell’Egitto. Ma questo ruolo avrà bisogno di appoggio concreto – e non solo politico – e non può tradursi in carta bianca per il Cairo, pur sempre un Paese straniero.
Il vuoto di sicurezza nel Mediterraneo occidentale non ha soluzioni militari, ma neppure si colma con sole misure diplomatiche, politiche. L’indubbia efficacia dei nostri servizi di intelligence non basta a individuare e contrastare tutte le possibili infiltrazioni terroristiche. Cento storie di successo, di attentati sventati, non risparmiano dal fallimento nel caso di uno solo portato a termine.
Malgrado le ripetute dichiarazioni sulla doppia minaccia, da Est e da Sud, l’attenzione della Nato e dell’Ue è rivolta quasi esclusivamente a Est. La crisi ucraina ha innescato caute misure di dissuasione militare dell’Alleanza Atlantica, mentre nei confronti della Russia l’Unione ha messo in piedi un solido apparato sanzionatorio che il Consiglio Europeo ha appena prorogato fino alla fine del 2015. Nulla di tutto questo per la Libia o per il Mediterraneo. Va però aggiunto che a Bruxelles l’Italia ha mostrato sulla Libia una frazione dell’attivismo che altri alleati mostrano sulla Russia, e più verbale che propositivo.
Sul «Washington Post», Jim Stavridis, già comandante supremo della Nato in Europa, ora alla guida della prestigiosa Fletcher School of Diplomacy, ha ricordato l’Articolo IV del Trattato di Washington col quale ogni alleato può chiedere consultazioni politiche in caso ritenga esistere una minaccia alla propria sicurezza. Ricorrervi non mette in moto alcun automatismo militare. La Turchia lo ha invocato durante la crisi siriana. E’ inesplicabile che l’Italia non se ne avvalga se non altro per focalizzare l’attenzione sul fronte Sud.
Stavridis ci ricorda anche che toccherà all’Italia assumersi buona parte degli oneri militari necessari alla tenuta di qualsiasi soluzione politica in Libia. Altri parteciperanno, ma qualcuno deve prendere l’iniziativa. Deve mettere sul tavolo delle proposte, comprese misure, come l’embargo di armi e il controllo dei flussi finanziari, che facciano pressione sulle parti e taglino i cordoni ombelicali del terrorismo. Questo qualcuno non può essere che l’Italia.
La sicurezza non s’improvvisa. La lista delle misure accessorie a qualsiasi operazione di peacekeeping è lunga, dalla copertura aerea alla logistica. In aprile il presidente del Consiglio sarà a Washington. Chiederà, ed otterrà, l’appoggio degli Stati Uniti sulla Libia. Sarebbe auspicabile che egli abbia una risposta anche all’inevitabile domanda di Barack Obama: per fare cosa? quali sono i vostri piani?
Oggi Matteo Renzi non saprebbe rispondere.
Stefano Stefanini, La Stampa 21/3/2015