Roberto Giardina, ItaliaOggi 21/3/2015, 21 marzo 2015
MERKEL PUÒ LICENZIARE I MINISTRI
Berlino
C’è una differenza fondamentale tra un Cancelliere teutonico e un presidente del consiglio italico. Il primo può pronunciare la fatidica minaccia a ministri e sottosegretari: alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai. Il secondo invece è costretto a pregare, a supplicare (almeno pro forma) il colpevole di dimettersi di sua spontanea volontà.
Il reprobo rimane attaccato alla poltrona, anche a costo di far perdere milioni di elettori. Il ministro Lupi ha preso la decisione di dimettersi, ma se avesse voluto resistere, costi quel che costi, Renzi non avrebbe potuto costringerlo a andarsene. Lupi sostiene di essere innocente, ma sembra colpevole almeno di totale incompetenza. Un premier italiano non può cambiare un suo ministro se fa male il suo lavoro. Ne va dell’efficienza del governo, ma contano altre logiche partitiche e gli egoismi personali e le norme di legge dementi che andrebbero modificate.
Dal 2009 al 2013, la Merkel cambiò quasi un terzo del suo governo, come un allenatore che manda di volta in volta i migliori in campo. Nel 2003, Silvio Berlusconi sbagliò tutto il possibile quando il suo ministro al turismo, il leghista vicentino Stefano Stefani, non trovò di meglio che insultare proprio i turisti che scendevano e scendono dalla Germania. «Tutti ubriachi, malvestiti e chiassosi», sentenziò. Evidentemente non si era mai imbattuto in torme di nostri turisti in giro per il mondo, da Samarcanda alle cascate del Niagara. Si rischiò la crisi diplomatica, il Cancelliere Schröder, dal fiuto populista non inferiore al Cavaliere, annullò le vacanze nelle Marche. Ma Berlusconi non riusciva a convincere i tedeschi che non aveva i poteri per licenziare l’ingombrante Stefani, che a Berlino tutti pronunciano Stefàni.
Un anno prima, Schröder aveva degradato sul campo il suo ministro alla Difesa, Rufolf Scharping. L’amico Rudolf, dopo una tranquilla vita matrimoniale, si era perdutamente innamorato della contessa Kristina Pilati von Thassaul zu Daxberg. Come si sa, i socialdemocratici non sanno resistere ai lunghi titoli nobiliari. Si lasciò fotografare mentre sguazzava con la contessa in piscina per una rivista di gossip. Gerhard chiuse gli occhi. Poi però il ministro della difesa tedesco dirottò un aereo della Luftwaffe dai Balcani per visitare l’innamorata (ora sua moglie) a Palma de Majorca. E il Cancelliere pronunciò la frase ideata da Sergio Tòfano per il signor Bonaventura. Una fine da Corriere dei piccoli per Scharping. «Lede il prestigio delle forze armate», spiegò Schröder.
Anni dopo, Frau Merkel costrinse rapidamente alle dimissioni il suo pupillo, e probabile delfino, Karl-Theodor zu Guttemberg, sorpreso a copiare la tesi di dottorato. Se non si fosse piegato, l’avrebbe cacciato. Fine di una carriera. Né Rudolf né Karl Theodor avevano commesso reati, solo peccato contro il buon gusto. Lupi, incensurato fino a prova contraria, offendeva la pazienza degli italiani, e comprometteva il prestigio dell’Italia, come rivelano impietose intercettazioni. Sono i casi come questi che tengono lontano gli investitori stranieri, non l’articolo 18. A Berlino, e altrove, si conferma l’impressione che neanche il rottamatore Renzi riesca a rottamare gli eterni vizi italici.
Imitare la Germania? Non saprei. È giusto che il capo del governo non sia un semplice primus inter pares come da noi, però a Berlino anche il Cancelliere può essere licenziato dal parlamento, che non si limita a votare sempre «ja» su comando dei partiti. Non si può copiare solo quel che di volta in volta ci conviene.
Roberto Giardina, ItaliaOggi 21/3/2015