Andrea Di Biase, MilanoFinanza 21/3/2015, 21 marzo 2015
CI VUOLE LA SCOSSA
Più capitale di rischio e meno debito, specie se il denaro è preso a prestito dalle banche. È questa la strada consigliata alle aziende italiane per cogliere al meglio i segnali di ripresa dell’economia, gettando allo stesso tempo le basi per una crescita solida e duratura. Come sottolineato dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle ultime considerazioni finali le imprese italiane sono ancora troppo dipendenti dal credito bancario e «avrebbero bisogno di un aumento del patrimonio di circa 200 miliardi e una pari riduzione dei debiti».
Un obiettivo ambizioso ma che mai come ora sembra essere alla portata, visti gli effetti prodotti dal Qe della Bce sui tassi di interesse, che sta scoraggiando gli investimenti sui titoli a reddito fisso, e a fronte di un risparmio delle famiglie che appare ancora tonico nonostante i morsi della lunga crisi: oltre 133 miliardi, secondo Assogestioni, la raccolta netta nel 2014 dell’industria del risparmio gestito in Italia. Insomma non si può certo dire che manchino le risorse da investire. Il problema è che molto spesso questa liquidità prende altre strade. Come evidenziato da Guido Salerno Aletta su Milano Finanza del 3 gennaio scorso, nel 2014 oltre 100 miliardi di risparmi degli italiani, invece di entrare nel circuito produttivo attraverso il mercato dei capitali domestico, sono stati investiti in asset stranieri.
Secondo alcuni osservatori una fetta importante di responsabilità per questo mismatching tra risparmio interno ed esigenze di capitale delle imprese l’avrebbe Borsa Italiana, da anni ormai parte integrante del London Stock Exchange Group (la cui proprietà fa capo alla borsa di Dubai e alla Qatar Investment Authority).
Nonostante gli sforzi messi in campo negli ultimi anni dalla società di gestione del mercato per incentivare le imprese italiane a quotarsi a Piazza Affari (si pensi al programma Elite), i risultati non sembrano essere incoraggianti. Secondo uno studio realizzato dal centro di ricerca Baffi-Carefin dell’Università Bocconi redatto in collaborazione con Equita Sim e presentato lo scorso 22 gennaio, tra il 2008 e il 2014 le ipo completate a Piazza Affari sono state solo 13, mentre quelle ritirate sono state 17 (Sisal, Intercos, Italiaonline, Favini, Fedrigoni e Rottapharm, solo per citare i casi più recenti), dunque più della metà (57%) delle 33 operazioni annunciate. Colpa della crisi? Di certo le turbolenze che hanno investito l’economia e i mercati finanziari del vecchio continente nei sette anni presi in esame hanno fatto la loro parte. Non può tuttavia sfuggire che nello stesso periodo (si veda la tabella in pagina) le altre borse europee hanno registrato un tasso di insuccesso per le ipo annunciate più basso rispetto a quello di Piazza Affari: dal 9% di Parigi al 46% di Madrid, passando per il 28% di Londra. Una peculiarità tutta italiana, dunque, che l’ad di Borsa Italia, Raffaele Jerusalmi, in una recente intervista ha provato a spiegare facendo riferimento alle «condizioni di estrema volatilità dei mercati» a fronte delle quali le ipo sono state ritirate, ma evidenziando anche le responsabilità delle banche collocatrici per avere creato negli imprenditori aspettative di prezzo eccessive, che al momento decisivo non si sono poi concretizzate. Responsabilità che nel mondo delle banche d’affari c’è invece chi ritiene siano proprio della società di gestione del mercato i cui sforzi non sarebbero sufficienti per fare in modo che le medie imprese italiane che decidono di quotarsi siano poi effettivamente seguite e comprate dai gestori di tutto il mondo. A sostegno di questa tesi viene fatto notare come oltre il 65% dei volumi scambiati a Piazza Affari in termini di controvalore si concentri su dieci soli titoli, cinque dei quali appartenenti al comparto bancario e finanziario (Unicredit, Intesa, Mps, Generali e Bpm). Una situazione analoga a quella della Bolsa de Madrid, dove questa percentuale arriva addirittura al 70%, ma superiore a quella delle borse di Francoforte e Parigi, dove il peso dei primi 10 titoli del listino per controvalore scambiato, impattano rispettivamente per il 49,10% e per il 45,5% del listino. Inoltre è sempre più evidente il trend intrapreso dalle società di gestione dei mercati regolamentati che stanno diversificando sempre più il business verso prodotti a più alto valore aggiunto (clearing su derivati, creazioni di indici), tanto che l’attività tradizionale pesa su Lse per solo il 25% del fatturato.
Secondo un altro punto di vista, le colpe non sarebbero tutte di Borsa Italiana e poco cambierebbe se anche al posto dell’Lse ci fosse una proprietà italiana più attenta alle esigenze del sistema Paese. Questo perché, specie quando si parla di aziende di medie e piccole, a fare la differenza non sarebbero tanto gli investitori esteri quanto la presenza di soggetti nazionali di tipo di istituzionale, che invece sul mercato scarseggiano. Anzi, il fatto che oggi siano circa duemila le società di gestione internazionali che investono sul listino di Borsa e che la componente istituzionale estera sul mercato italiano è pari al 95% sarebbe più un rischio che un’opportunità. L’esperienza della crisi ha infatti dimostrato che, essendo gli investitori esteri per loro natura più sensibili al rischio Paese, quando questo è percepito come più alto, tali soggetti dirigono i propri capitali su altri mercati, con tutto ciò che ne consegue in termini di volumi e prezzi per il listino italiano. Quello che manca, dunque, è uno zoccolo duro di investitori italiani capaci di dare maggiore liquidità ai titoli delle medie imprese quotate e a invogliare così anche altre aziende a quotarsi. Da questo punto di vista le responsabilità sono principalmente delle istituzioni, che in questi anni non sono state capaci di creare un contesto normativo e fiscale in grado di incentivare l’investimento in equity da parte degli investitori istituzionali italiani.
Come sottolineato dall’head of investment banking di Equita Sim, Andrea Vismara, in apertura del convegno tenutosi all’Università Bocconi a fine gennaio, il trattamento fiscale riservato agli investitori domestici in titoli azionari quotati, è tutt’altro che favorevole. Non solo per via della Tobin tax, introdotta dal governo Monti, che si è dimostrata inutile dal punto di vista del gettito fiscale e dannosa per il mercato azionario italiano, ma anche per come sono attualmente modulate le aliquote sulle plusvalenze. Gli investimenti nelle imprese sono infatti tassati a un livello molto più elevato rispetto agli investimenti in titoli di Stato e persino agli investimenti in immobili che, a 5 anni dall’acquisto, non sono più soggetti a imposte sul capital gain. Al contrario, chiunque invece impieghi il proprio capitale in azioni o obbligazioni emesse da una impresa che cresce e crea occupazione, mantenendo l’investimento per due giorni o per dieci anni pagherà invece il 26% del capital gain, senza alcuna differenziazione sulla base del periodo dell’investimento. Questo incoraggia gli italiani che risparmiano molto a investire quasi esclusivamente in titoli di Stato e sul mercato immobiliare, a scapito dell’economia reale e della costruzione di un portafoglio di investimenti diversificato. Anche, ma non solo per questo motivo, i fondi pensione e le casse previdenziali italiane continuano a dedicare una minima parte dei loro patrimoni alle imprese italiane mentre in altri Paesi come il Giappone, i principali fondi pensione hanno deciso di aumentare drasticamente gli investimenti in azioni e obbligazioni domestiche, a sostegno dell’economia produttiva. Come si può notare dalla tabella relativa alla composizione del portafoglio delle principali classi di investitori istituzionali italiani, redatta dal centro di ricerca Baffi-Carefin della Bocconi e relativa al 2013, i fondi pensione italiani, pur avendo un patrimonio in gestione di circa 86 miliardi di euro, avevano investito in titoli azionari quotati a Piazza Affari solo 700 milioni. Un po’ di più hanno fatto gli enti di previdenza che hanno investito in azioni circa 1,9 miliardi (ma solo perché nel dato riportato sono compresi anche titoli azionari di emittenti esteri). In questo senso la recente autoriforma varata dalle Fondazioni di origine bancaria d’intesa con il ministero dell’Economia potrebbe essere un primo segnale di svolta, visto che tali enti dovranno diversificare il proprio portafoglio, ancora prevalentemente concentrato sulla banca conferitaria, liberando risorse da investire anche sul mercato azionario.
C’è poi un terzo aspetto, di certo non trascurabile, che secondo altri osservatori avrebbe frenato finora un compiuto sviluppo del mercato dei capitali italiano. Non può infatti non essere notato il fatto che, a differenza dei mercati più sviluppati, dove esiste una pluralità di broker e case d’affari indipendenti che si prendono cura delle medie imprese quotande e quotate, in Italia anche in questa fetta del mercato, e non solo per le blue chip, sono pressoché dominanti i principali gruppi bancari nazionali, che affiancano alla tradizionale attività creditizia anche servizi di investment banking per le imprese che vogliono quotarsi. Un doppio ruolo che comporta spesso corti circuiti, che con la normativa e i regolamenti attualmente in vigore vengono gestiti (ma non risolti) semplicemente evidenziandone l’esistenza in poche pagine del prospetto informativo dell’ipo.
E infine va sottolineata la scarsezza di report e analisi sulle medium e small cap. Sui mercati anglosassoni più o meno tutte le società godono di una copertura da parte di almeno una casa di ricerca. In questo modo i potenziali investitori possono farsi un’idea, almeno di massima, sulle potenzialità di un’azienda. Ma non solo, in molti casi ci sono market maker che danno liquidità al titolo, garantiscono un corretto equilibrio tra denaro e lettera e controllano, per quanto possibile, le oscillazioni repentine e ingiustificate.
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 21/3/2015