Giuliano Castagneto e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 21/3/2015, 21 marzo 2015
NESSUNA IMPAZIENZA
Molto rumore per nulla. Potrebbe essere questa la sintesi, di sapore shakespeariano, di tutto quello che è avvenuto sui mercati alla vigilia della riunione del Comitato Monetario della Fed mercoledì 18 marzo. Prima della due giorni del Fomc, il 17 e il 18 marzo, gli operatori davano praticamente per scontato un aumento dei tassi a giugno.
E gli andamenti dei vari asset sui mercati si sono mossi di conseguenza, con un sensibile rafforzamento del dollaro e giornate piuttosto volatili a Wall Street. Ma dal comunicato, e dalle parole del presidente del board Janet Yellen in conferenza stampa, la Fed ha fatto capire chiaramente che non c’è alcuna urgenza di avviare una politica monetaria restrittiva, pur avendo rimosso l’indicazione che sarà «paziente» nell’attendere il momento opportuno per riportare i tassi a livelli più normali. La Yellen ha sintetizzato bene il nuovo orientamento della banca centrale, evidenziando come la rimozione del riferimento a essere paziente non significhi che la Fed adesso muoia dalla voglia di alzare i tassi. E la reazione dei mercati non si è fatta attendere. Lo S&P500 è rimbalzato dell’1.2%, il dollaro ha perso il 2.5% contro l’euro e il rendimento del decennale si è ridotto di più di 13 punti base. Forse il dato più concreto emerso da questi ultimi giorni è che le decisioni della banca centrale statunitense saranno il motore delle piazze finanziarie nel 2015.
Sono stati diversi gli elementi che hanno evidenziato un atteggiamento più cauto delle attese da parte della Fed.
In primo luogo la Yellen e i suoi hanno rivisto al ribasso le stime sull’andamento di pil e inflazione nel 2015 e nel 2016 visti i segnali di una crescita più moderata dell’economia a inizio 2015 e le ridotte pressioni inflazionistiche legate al calo del prezzo del petrolio. Il pil è visto in crescita del 2,5% nel 2015 e nel 2016, contro il 2,8 e il 2,75% rispettivamente delle stime di dicembre, mentre l’indice dei prezzi delle spese personali dovrebbe portarsi all’1,35% nel 2015 (1,65% la stima di dicembre) e all’1,7% nel 2016 (contro 1,85%), livelli abbastanza lontani dall’obiettivo del 2%, soprattutto il primo.
In secondo luogo, i membri della Fed hanno rivisto al ribasso le proiezioni future sull’andamento dei tassi sui Fed Fund, stimando rialzi più contenuti nei mesi a venire. La stima mediana è di tassi sui fondi federali allo 0,625% a fine anno, in ribasso dall’1,125%, e all’1,875%, dal 2,5%, a fine 2016.
Lo scenario più probabile, quindi, è che la Fed possa sì alzare i tassi di 25 punti base, ma non ma di settembre, pur non essendo ancora escluso del tutto un rialzo in giugno, e poi di altri 25 punti base nel corso del trimestre successivo.
La Fed, comunque, non inizierà una serie programmata di rialzi, bensì deciderà di volta in volta sulla base dello scenario economico.
La possibilità di rialzi più graduali dei tassi sui Fed Fund ha avuto un effetto molto forte sui rendimenti del mercato obbligazionario, in particolare sulla parte a lunga termine della curva. Il rendimento del decennale, che ha chiuso mercoledì all’1,91%, è tornato sotto la soglia del 2% per la prima volta da fine febbraio e ha segnato mercoledì la chiusura più bassa dal 5 febbraio. Con la Fed che, secondo le sue stime, dovrebbe procedere a rialzi molto contenuti dei tassi nei prossimi trimestri, il rendimento del Treasury decennale non dovrebbe avere grosse impennate per un lungo periodo, anche se nelle ultime sedute della settimana si è riportato a ridosso del 2%. Solo un’improvvisa impennata dei prezzi potrebbe vanificare questo scenario, che ora però appare improbabile grazie alla forza del dollaro e ai rialzi contenuti dei salari. Il rendimento del titolo a due anni, invece, ha reagito in maniera più contenuta, scendendo mercoledì a 0,55% dallo 0,64% di lunedì, per poi risalire a 0,6% giovedì.
Aiutano a mantenere i rendimenti dei governativi su valore bassi anche i flussi di capitali stranieri in entrata negli Usa. I rendimenti dei governativi statunitensi, infatti, sono gli unici tra quelli del mondo sviluppato che possano esercitare un certo appeal per gli investitori internazionali. Nell’Eurozona, per esempio, il decennale tedesco offre lo 0,19% e per ottenere più dell’1% bisogna muoversi sui titoli dei Paesi periferici come l’Italia, dove il Btp decennale rende l’1,24% (si veda anche articolo a pag. 18).
Il basso livello dei rendimenti dei Treasury dovrebbe dare una mano a Wall Street. Storicamente lo S&P500 ha messo a segno performance superiori alla media nelle fasi di rendimenti in ribasso o stabili sui titoli di Stato. La performance media mensile dell’indice di borsa quando il rendimento del decennale è inferiore a quello dell’anno prima (ora è all’1,96% contro il 2,77% di 12 mesi fa) è stata dell’1% contro lo 0,4% realizzato quando è più alto. Non a caso lo S&p500 si mantiene a ridosso dei massimi storici.
La reazione del dollaro per contro è stata molto volatile. Dopo avere perso il 2.5% tornando sopra quota 1,08 al momento del comunicato della Fed, il biglietto verde ha recuperato nelle sedute successive scendendo sotto quota 1,07. L’andamento del cambio è stato guidato negli ultimi mesi, e continua a esserlo, dai rendimenti a breve termine sui mercati obbligazionari di Stati Uniti ed Eurolandia. Il Treasury a 2 anni è salito dal minimo dello 0,3% di ottobre allo 0,6% mentre quello tedesco è ulteriormente sceso in territorio negativo a -0,2%. Fino a quando la divergenza tra i due rendimenti persisterà, difficilmente l’euro tornerà a rafforzarsi sul dollaro in modo sostenuto. In questo scenario, gli asset statunitensi, e in particolare il mercato obbligazionario, continuano a restare interessanti per gli investitori europei.
Giuliano Castagneto e Matteo Radaelli, MilanoFinanza 21/3/2015