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 2015  marzo 21 Sabato calendario

Compriamo Italia Nel 2014 la Repubblica Popolare è stato il primo Paese per controvalore di acquisizioni in Italia con 6 mld

Compriamo Italia Nel 2014 la Repubblica Popolare è stato il primo Paese per controvalore di acquisizioni in Italia con 6 mld. E lo stock è di 15 mld. Gli acquisti in borsa dell’anno scorso sono stati vincenti con un guadagno medio del 15% e un plus di 834 milioni A leggere le cronache finanziarie delle ultime settimane c’è sempre qualche cinese pronto a fare la parte del cavaliere bianco. L’imminente ingresso della China Chemical in Pirelli , con contestuale delisting di una delle società più storiche di Piazza Affari, nonché simbolo dell’industria tricolore, è soltanto l’ultima di una lunga serie di acquisizioni nel Vecchio Continente, una corsa all’acquisto che certo non rallenterà in futuro. Soltanto in Italia, nel 2014 , si contano almeno 16 operazioni portate a termine, per un valore complessivo che sfiora i 6 miliardi di euro, come risulta da un report esclusivo di Kpmg. E lo stock complessivo degli investimenti cinese si aggira ormai sui 15 miliardi. La rosa dei nomi di possibili investitori d’oltre Muraglia si allunga di giorno in giorno. Si parla per esempio di Wang Jianlin, secondo uomo più ricco della Repubblica popolare. Chi invece in Europa è già entrato dalla porta principale è il magnate del colosso dell’immobiliare e dell’intrattenimento Dalian Wanda, che per 1 miliardo ha acquisito dal fondo Bridgepoint la Infront di Philippe Blatter (la cui branch italiana è guidata Marco Borgarelli). Wanda si è così garantita il controllo dei diritti del calcio europeo e italiano in particolare. Non solo, poche settimane prima dell’accordo con la società di Blatter, Wanda si era infatti assicurata il 20% dell’Atletico Madrid per 45 milioni di euro e ora, secondo alcuni osservatori, potrebbe puntare sul Milan. Nella strategia «go global» promossa da Pechino, le incursioni nello sport e in altri settori come turismo, mattone e intrattenimento dimostrano la volontà di diversificare gli investimenti rispetto alle tradizionali aree dell’energia, delle materie prime e delle infrastrutture. La People’s Bank of China, nella sua strategia per l’Italia, ha messo infatti in portafoglio partecipazioni nelle blue chip di Piazza Affari che spaziano dagli energetici alla finanza, fino all’automobile. Tutte quote di poco superiori al 2%, scelte secondo una logica cinese, per dimostrare che Pechino in Italia c’è e investe. Per quanto riguarda il solo 2014, si è iniziato a marzo, quando dalle comunicazioni Consob sulle partecipazioni rilevanti emerse che la banca centrale cinese era entrata in possesso del 2,102% di Eni e del 2,071% di Enel . Una seconda ondata si è avuta in estate: a fine luglio la Pboc ha reso noto di essere salita oltre il 2% in Fiat (2,001%), Prysmian (2,018%) e Telecom Italia (2,081%). L’8 agosto è stata comunicata la partecipazione in Generali . Infine la campagna di autunno e inverno: a ottobre i cinesi sono entrati in Mediobanca salendo oltre il 2% nel giorno dell’incontro tra il primo ministro cinese, Li Keqiang, e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. A fine dicembre è stato il turno della partecipazione in Saipem , anche questa volta poco sopra il 2%, con un investimento complessivo che si aggira attorno a 80 milioni di euro, per scendere poco dopo sotto la soglia rilevante e risalire nuovamente a stretto giro a metà gennaio 2015. Sempre a gennaio l’istituto guidato dal governo Zhou Xiaochuan ha rafforzato la propria presenza in Italia con l’acquisto del 2,01% del capitale di Terna . E di Terna , come di Snam , è azionista indiretto anche la State Grid Corp che ha rilevato il 35% di Cdp Reti, il veicolo dove Cassa custodisce le quote nella società della rete gas e in quella della rete elettrica. Ma le incursioni cinesi in borsa hanno portato frutti? Secondo un’elaborazione di Milano Finanza le istituzioni cinesi hanno speso lo scorso anno circa 5,5 miliardi in quotate; ora il giardinetto (che tiene conto anche delle quote in trasparenza di State Grid in Terna e Snam rispettivamente del 10,4% e 10,5% che sono costate 2,1 miliardi) vale 6,4 miliardi. Significa 834 milioni di plusvalenza, al netto del prossimo stacco cedola, che equivale a un guadagno del 15%, con un solo investimento in negativo. Insomma la Cina nel 2014 è stata la protagonista assoluto nell’acquisto di partecipazioni (ma anche di intere società) in Italia, distaccando per controvalore valore sia il Regno Unito fermo a 3,3 miliardi in 20 operazioni completate e gli Stati Uniti che hanno finalizzato 44 acquisizioni per poco più di 2,9 miliardi. Nel 2008 la Repubblica Popolare non era neppure tra i primi cinque Paesi acquirenti. A dominare la classifica erano gli Usa seguiti da Francia, Gran Bretagna, Spagna e Germania. Fu però proprio nel 2008 che, con un’operazione da 500 milioni di euro, il colosso dell’edilizia Zoomlion comprò l’italiana Cifa, azienda leader nelle betoniere. Fu in un certo senso un punto di svolta. Si trattò della più grande acquisizione cinese in Italia e seconda in Europa. Lo scorso anno il 40% di Ansaldo Energia è andato lo scorso maggio alla Shanghai Electric Corporation per 400 milioni. Il 2014 dello shopping cinese in Italia si era però aperto all’insegna della moda, a febbraio, con il passaggio dello storico marchio del made in Italy Krizia alla Shenzhen Marisfrolg. «Sono decisa a rafforzare il mito di Krizia nel mondo, seguendone lo stile e ripetendone i grandi successi», spiegava la fondatrice di Marisfrolg, Zhu ChongYun, che ha l’intenzione di aprire nei prossimi tre anni boutique a Pechino, Shanghai, Chengdu, Guangzhou e Shenzhen. «Moda italiana con caratteristiche cinesi», insomma, per usare la sintesi fatta dal China Daily. Lo stesso si può dire degli yacht Ferretti, pionieri dello sbarco cinesi visto la Shandong Heavy Industry Group (Shig) li acquistò nel 2012. In entrambi i casi le acquisizioni vanno incontro ai gusti e alle aspirazioni dei nuovi ricchi cinesi. Su questa linea si colloca, in Francia, anche la scalata del colosso Fosun a Club Med vittorioso nella lunga battaglia a suon di rialzi contro al gruppo di investitori capitanato da Andrea Bonomi. La società francese, nei progetti del gruppo guidato dal miliardario Guo Guangchang, offre quel genere di servizi che incontra la domanda della nuova classe urbana cinese. Il passo successivo per Guo è stato rilevare il 5% dell’operatore turistico britannico Thomas Cook per circa 130 milioni di euro. Restando nell’ambito alberghiero il gruppo Hna di Cheng Feng ha acquistato da Intesa Sanpaolo l’8,3% del gruppo NH Hoteles. I nuovi orizzonti del divertimento non spingono tuttavia i gruppi cinesi ad abbandonare i vecchi pallini nell’energia e nelle infrastrutture. In particolare nei Paesi del Sud Europa. La stessa Fosun ha dimostrato interesse nel Novo Banco del Portogallo, fondato dopo il crollo del Banco Espírito Santo. Mike Poon, presidente del fondo di Hong Kong, Friedmann Pacific Asset Management, ha a sua volta esortato il governo greco a privatizzare l’aeroporto internazionale di Atene. Già a dicembre in consorzio con Shandong Hi-speed, era stata scelta dal governo parigino candidato privilegiato all’acquisto del 49,99% dell’aeroporto Blagnac di Tolosa. In Italia si torna invece a parlare dell’interesse della China Investment Corp, il fondo sovrano di Pechino con una dotazione di 575 miliardi di dollari, per F2i. Delle trattative si era già parlato lo scorso settembre. Ora il filo sembra essersi riallacciato. (riproduzione riservata) Lo shopping di Pechino: la cina compra Pirelli, maxi Opa da 7 miliardi Serie di cda tra ieri e oggi, in Borsa ci sarà un’offerta pubblica di acquisto totalitaria. Tronchetti: “Chiuderemo l’operazione nel week end” di ANDREA GRECO 21 marzo 2015 Articoli Correlati L’ultimo assalto di Pechino le banche cinesi si preparano Pirelli: chi è ChemChina, il prossimo socio forte della Bicocca Pirelli: chi è ChemChina, il prossimo socio forte della Ceduto il gioiello della rinascita milanese, ma Tronchetti Provera resterà ancora in sella Ceduto il gioiello della rinascita milanese, ma Tronchetti MILANO. La Pirelli sta per diventare cinese. Un’icona dell’industria italiana nel mondo, l’azienda degli pneumatici nata 142 anni fa nella Milano della rivoluzione industriale, capitale dell’imprenditoria, avrà presto Chem-China - una conglomerata a controllo statale - come socio di maggioranza assoluta. "Entro il weekend si chiude. Ci sono ancora dei passi da fare" ha detto il presidente di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, in serata. Ai giornalisti che chiedevano se Pirelli resterà italiana ha risposto: "Finché non ci saranno i comunicati non posso dire nulla". I cinesi dal canto loro vogliono il 51% della nuova catena di controllo: "Vogliono consolidare la partecipazione, che non sarà finanziaria, ma industriale", spiegano i loro emissari. E per farlo sono disposti a investire 3,5 miliardi di euro nella catena societaria del gruppo, che sarà sottoposta al quarto riassetto in quattro anni per fare spazio ai nuovi soci e dar modo ai precedenti di monetizzare parte delle quote. Un riassetto che prevede l’offerta pubblica di acquisto su Pirelli e il suo probabile ritiro dalla quotazione a Piazza Affari, dopo 93 anni. In Borsa Pirelli ci potrebbe tornare poi, solo con la parte pneumatici per auto (più redditizia), mentre le gomme per l’industria potrebbe unirsi ad Aeolus Tyre, controllata dei cinesi nel segmento. I dettagli dell’operazione non sono ancora formalizzati: la convocazione dei cda dei soci della Bicocca è iniziata ieri sera con Nuove Partecipazioni (che raggruppa le quote di Tronchetti e dei sodali italiani), Unicredit e Intesa Sanpaolo. Si prosegue oggi e domani con gli altri soci Rosneft e Camfin, così lunedì l’azione riaprirà con informazioni ufficiali e simmetriche. Ma da ieri erano giunte le ammissioni alle voci circolanti da giorni. Ha rotto il ghiaccio la Consob, che dopo un giovedì di silenzio mentre l’azione Pirelli saliva del 3%, ieri mattina ha chiesto all’azienda un commento: "Ad oggi Pirelli non ha ricevuto alcuna formale comunicazione di un lancio di un’Opa", è stata la risposta. Più loquace la risposta alla Commissione fornita da Camfin, holding del 26% dei titoli Pirelli: "Camfin e i suoi soci comunicano che sono in corso trattative con un partner industriale internazionale per un’operazione sulla partecipazione in Pirelli, finalizzata a garantire stabilità, autonomia e continuità nel percorso di crescita del gruppo, che manterrebbe gli headquarter in Italia". Tra gli elementi in limatura, "il trasferimento dell’intera partecipazione Camfin al prezzo di euro 15 per azione a una società italiana di nuova costituzione, controllata dal partner industriale internazionale con contestuale reinvestimento di Camfin in detta società", e a seguire "un’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni Pirelli". Un secondo comunicato Camfin specificava, a scanso di cattive sorprese, che "l’Opa verrebbe lanciata sulla totalità di Pirelli al medesimo prezzo di 15 euro per azione". A tutti 15 euro, per totali 7 miliardi: ma in due tempi diversi. Prima ai soci Camfin, che avranno 1,9 miliardi e pare ne reinvestiranno una metà per restare azionisti di peso. Poi il mercato, che ieri tra rotondi scambi anticipava gli sviluppi e ha portato Pirelli, sui massimi dagli anni ’90, a 15,23 euro (+2,2%). Senza la cedola da staccare a giugno siamo già ai prezzi dell’Opa ventura. Tra i temi più delicati c’è la tenuta dell’azionariato nostrano. "Ciò che conta è che la centralità di Pirelli resti in Italia, vedremo - ha detto il viceministro dello sviluppo economico, Claudio De Vincenti - . L’arrivo di capitali esteri in sé è un bene. E il 2015 è iniziato alla grande come mostrano Hitachi e Lucchini". Nel rarefarsi degli investimenti nostrani, con la crisi sono finite sotto il controllo estero Parmalat, Edison, Bulgari, Valentino, Alitalia, Ansaldo Sts, Rinascente, Coin. E il denaro cinese ha accumulato quote del 2% di Enel, Eni, Fca, Saipem, Mediobanca, Generali, Telecom, Prysmian, il 35% di Cdp Reti che controlla Terna e Snam, il 40% di Ansaldo Energia. Per questo saranno importanti, nei patti parasociali in stesura, le prospettive di radicamento della Pirelli "italiana": a quanto si apprende il management sarà confermato 5 anni, la sede e le attività di ricerca & sviluppo resteranno in Italia, e sono ipotizzabili clausole di riacquisto e vendita a tutela dei soci che stanno per diluirsi. Ma il noto slogan "la potenza è nulla senza controllo" da qui in avanti suonerà più cinese che altro. L’ultimo assalto di Pechino le banche cinesi si preparano allo sbarco in occidente Nel 2014 tra i 10 istituti di credito cresciuti di più ben 6 sono del dragone. E l’ad di jp morgan lancia l’allarme: tra breve possono superarci. Allo studio prestiti in yuan in vista della piena convertibilità. Sempre più filiali in occidentedi GIAMPAOLO VISETTI Pechino non si limita più a puntare su comunicazione, agricoltura, sport, elettronica, trasporti, immobiliare, turismo e alimentare. Vuole un controllo maggiore sulla cassa globale, la gestione di debiti e prestiti. L’obiettivo è accorciare i tempi per l’internazionalizzazione dello yuan, arrivando alla piena convertibilità per sfidare la storica egemonia del dollaro Usa. Il go west dei colossi del credito cinese, unito al boom dell’interscambio in renminbi, solleva domande cruciali sull’equilibrio del sistema monetario mondiale. Stati, mercati e investitori devono prepararsi a un mondo in cui valuta e banche cinesi occuperanno un posto decisamente più importante. A Pechino, per ora, il tramonto del credito occidentale non conviene. La Cina è il primo detentore di valuta estera e colpire la banche di Europa e Usa causerebbe il crollo del valore delle proprie riserve. La concorrenza è un’altra cosa e la leadership rossa pensa sia giunta l’ora di far sentire il fiato del credito di Pechino sul collo degli istituti stranieri. Vedere un risparmiatore occidentale varcare la soglia della filiale di una banca cinese per chiedere un mutuo, o per aprire un conto corrente, può non essere una scena quotidiana nel breve periodo. Secondo il governatore della Banca popolare cinese, Zhou Xiaochuan, questa realtà è però una tendenza inevitabile. Il credito occidentale, colpito dalla crisi, per recuperare competitività minaccia di avere bisogno di molto tempo. Quello cinese, pur regolato dallo Stato, vanta oggi dimensioni e prestazioni insostenibili per i concorrenti esteri: la sua espansione nelle aree di euro e dollaro nell’immediato rischia di sconvolgere il settore, ma in prospettiva può costituire la leva decisiva per guarire un sistema minato da inefficienze e interessi non trasparenti. A confermarlo, l’ultimo rapporto mondiale sui brand delle banche, pubblicato da «The Banker». Tra i primi dieci istituti internazionali accreditati dei marchi di maggior valore, quattro sono già made in China. Industrial and Commercial Bank (Icbc) è seconda, dietro l’americana Wells Fargo, con un valore di 27,4 miliardi di dollari e una crescita 2014 del 20%. Quarto posto per China Construction Bank (più 39% lo scorso anno), ottava posizione per Agricoltural Bank of China (+28%) e nona per Bank of China, che precede la spagnola Santander con un rafforzamento annuo del 22%. A impressionare non è la classifica assoluta, dove i quattro giganti cinesi del credito di Stato erodono posizioni da anni, ma la percentuale dell’incremento del loro valore. Qui Pechino vanta le prime due piazze, con China Construction Bank e Agricoltural Bank of China, e poi la quarta (Icbc), la quinta (Bank of China), la sesta (China Merchants Bank) e la nona (China Citic Bank). Questo significa che nel 2014 sei banche su dieci, tra quelle che hanno registrato la maggior crescita mondiale, sono cinesi: una sola statunitense, una indiana, una brasiliana e una australiana. L’amministratore delegato di JP Morgan, Jamie Dimon, ha ammesso che le straorganizzate banche occidentali potrebbero essere superate dai marchi cinesi. Solo gli istituti del Medio Oriente reggono il passo dell’espansione di Pechino, ma il crollo del prezzo del petrolio e l’imparagonabile peso dell’economia cinese preludono ad una fuga solitaria del Dragone. Per i mercati il punto è prevedere quando la Cina deciderà di ufficializzare il suo tentativo di conquista del credito occidentale, non solo per accompagnare l’espansione delle imprese nazionali all’estero, ma pure per finanziare gli investimenti stranieri in Cina. La Banca mondiale ha fissato il limite «entro il 2020», ma il ritmo di apertura di nuove filiali estere dei colossi cinesi tende ad anticipare i tempi. Icbc, per esempio, in Europa negli ultimi mesi ha investito a Londra, Mosca, Milano, Francoforte, Lussemburgo, Parigi, Bruxelles, Budapest, Amsterdam e Madrid, oltre che in tutti i Paesi dell’Est. Tutte le grandi banche cinesi sono state quotate e l’integrazione economica tra Pechino e il resto del mondo registra un’accelerazione senza precedenti: in vent’anni l’interscambio è cresciuto di venti volte, la Cina rappresenta il 9% dell’interscambio mondiale di beni e servizi ed entro quest’anno un terzo del commercio estero cinese sarà regolato in yuan. Uno studio del Fondo monetario internazionale lancia l’«allarme shopping» delle banche cinesi, ma osserva anche che «l’internazionalizzazione del sistema del credito della Cina e della sua valuta possono convenire a tutti». La ragione è semplice: un renminbi pienamente convertibile e istituti bancari cinesi costretti a rispettare le regole del mercato, per Pechino riducono i rischi legati al cambio negli investimenti e semplificano le operazioni di cassa per le imprese, mentre agli stranieri offrono prezzi scontati e un aumento dei potenziali fornitori. Gli analisti avvertono che affinché «l’offensiva delle banche cinesi non si traduca in una neo-colonizzazione delle nazioni emergenti e in un conflitto con le economie sviluppate», le condizioni «sono strette». Lo Stato, e dunque il potere del partito comunista, non «può più controllare sia i maggiori istituti di credito nazionali che la Banca centrale, la quotazione dello yuan deve essere affidata al mercato e le autorità pubbliche non possono più influenrisparmio interno, frena il ricorso occidentale al credito di Pechino. L’ostacolo maggiore è rappresentato dalle piccole e medie imprese, le più colpite dalla concorrenza cinese. All’avanzata degli istituti del Dragone ha corrisposto sia quella dei suoi investimenti che quella delle sue imprese. Il timore è che i soldi dei risparmiatori occidentali finiscano per finanziare proprio le aziende straniere che contribuiscono ad aggravare la crisi dello stesso sistema produttivo, arricchendo banche e industrie cinesi al punto da rafforzare lo stesso autoritarismo di Pechino, che si contrappone alla democrazia dell’Occidente. Un paradosso: consumata la «grande delocalizzazione » di lavoro e produzione, ecco la Cina riesportare i capitali acquisiti da Usa, Europa e Giappone per acquistare i loro mercati finanziari, le loro valute e ciò che resta dei loro sistemi industriali. I pessimisti in queste ore assicurano che l’irruzione delle banche cinesi in Occidente distruggerà non solo il nostro credito, ma il cuore del capitalismo. Gli ottimisti osservano che al contrario l’ultimo stadio dell’integrazione economica, occidentalizzando la Cina e costringendola al mercato, obbligherà Pechino a rinunciare al comunismo e ad aperture altrimenti impossibili. «Sbagliano entrambi – ha detto il presidente Xi Jinping - : dal credito al commercio oggi decide solo il consumatore, unico ormai su tutto il pianeta». Lo spettro è che ad essere unico sia presto anche il potere che lo governa. Pirelli: chi è ChemChina, il prossimo socio forte della Bicocca L’azienda cinese ha un fatturato di circa 36 miliardi di euro. A controllo statale, è attiva in sei aree - dalla gomma alla chimica - e in 140 Paesi. Lo shopping recente l’ha portata in Francia, Australia e Norvegia. Ora punta all’Italia 20 marzo 2015 Pirelli: chi è ChemChina, il prossimo socio forte della Bicocca(ansa) MILANO - E’ un colosso da 244 miliardi di yuan di fatturato (circa 36 miliardi di euro), al diciannovesimo posto tra le ’big’ mondiali della Cina e al 355esimo nella classifica di ’Fortune’. "Chimica tradizionale, materiali avanzati" è il motto della China national chemical corporation (ChemChina), società a controllo statale nata nel 2004 e amministrata dalla Sasac, il braccio del governo di Pechino cui fanno capo buona parte delle industrie di Stato cinesi. ChemChina opera in sei diversi settori, che vanno dalla chimica dei nuovi materiali alla gomma, ed è presente in 140 Paesi con 118 controllate, tra cui nove quotate, 6 divisioni e 24 centri di ricerca; impiega 140 mila persone. Pirelli verso i cinesi di ChemChina, rush finale sul riassetto. Nel weekend i cda decisivi di Marigia Mangano 20 marzo 2015 Il riassetto del gruppo Pirelli è in dirittura di arrivo. In serata è stato convocato il board di UniCredit e, in rapida successione, il consiglio di amministrazione di Nuove Partecipazioni. A partire da sabato dovrebbero susseguirsi i vari board dei soggetti coinvolti in modo da deliberare quanto necessario per definire tutta l’operazione. L’obiettivo è arrivare a completare i passaggi richiesti prima dell’apertura di Borsa di lunedì. «Entro il weekend si chiude. Ci sono ancora dei passi da fare», ha detto il presidente di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, lasciando la sede di Camfin. Pirelli resterà italiana? Gli è stato chiesto. «Finché non ci saranno i comunicati non posso dire nulla», ha risposto. L’operazione, per come è stata confermata fino a questo momento, prevede che Camfin (titolare del 26% di Pirelli) conferisca la sua partecipazione nella Bicocca a una newco che vedrà l’ingresso di China Chemicals Corporation. Al riassetto a nord di Pirelli seguirà il lancio dell’opa a 15 euro sul totale delle azioni. articoli correlati Per Pirelli nuovo socio asiatico e Opa, titolo ai massimi da 25 anni Il tutto per deliberare il nuovo passaggio di controllo della Bicocca, questa volta nelle mani di un socio cinese, ChemChina. L’operazione è stata confermata in mattinata dai grandi soci riuniti in Camfin, Nuove Partecipazioni di Tronchetti Provera, le due banche, UniCredit e Intesa Sanpaolo e i russi di Rosneft. In una nota, dietro richiesta di Consob, Camfin e i suoi azionisti hanno comunicato « che sono in corso trattative con un partner industriale internazionale per un’operazione relativa alla partecipazione detenuta da Camfin in Pirelli». In particolare l’operazione comporterebbe «il trasferimento dell’intera partecipazione detenuta da Camfin (26,2% circa) ad un prezzo di euro 15 per azione a una società italiana di nuova costituzione, controllata dal partner industriale internazionale con un contestuale reinvestimento di Camfin in detta società». Il pacchetto sul mercato costa già oltre gli 1,87 miliardi calcolati sul valore attribuito dalla stessa società. Una volta perfezionatosi tale trasferimento, verrebbe lanciata un’offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni di Pirelli che porterebbe al delisting. Un esito tutt’altro che scontato. Piazza Affari ha preso atto dell’Opa in arrivo sul gruppo della Bicocca ma sembra chiedere un premio superiore per aderire alla proposta (non ancora ufficiale). Nella seduta odierna è stato scambiato il 4,5% del capitale ordinario e le quotazioni hanno viaggiato costantemente sopra il prezzo di 15 euro. Dalla Francia all’Australia, ChemChina ha puntato sin dalla fondazione sulla crescita internazionale secondo la strategia del ’going global’ (divenire globali) largamente esplicitata nel suo sito internet. Tra le operazioni più importanti, l’acquisizione della francese Adisseo e dell’australiana Qenos nel 2005 e, nel 2011, l’acquisto della norvegese Elkem e di una quota di controllo nell’israeliana Makhteshim Agan, sesto produttore mondiale di pesticidi. Nel mirino ora c’è l’italiana Pirelli. ChemChina, chi è il gigante della chimica di Pechino 20 marzo 2015 In questo articolo Media Argomenti: Fusioni e Acquisizioni | Cina | Makhteshim Agan | Adisseo My24 ascolta questa pagina È un colosso da 244 miliardi di yuan di fatturato (circa 36 miliardi di euro), al diciannovesimo posto tra le big mondiali della Cina e al 355esimo nella classifica di Fortune. «Chimica tradizionale, materiali avanzati», è il motto della China national chemical corporation (ChemChina), società a controllo statale nata nel 2004 e amministrata dalla Sasac, il braccio del governo di Pechino cui fanno capo buona parte delle industrie di Stato cinesi. ChemChina opera in sei diversi settori, che vanno dalla chimica dei nuovi materiali alla gomma, ed è presente in 140 Paesi con 118 controllate, tra cui nove quotate, 6 divisioni e 24 centri di ricerca; impiega 140 mila persone. articoli correlati Pirelli verso i cinesi di ChemChina, rush finale sul riassetto. Nel weekend i cda decisivi Dalla Francia all’Australia, ChemChina ha puntato sin dalla fondazione sulla crescita internazionale secondo la strategia del going global (divenire globali) largamente esplicitata nel suo sito internet. Tra le operazioni più importanti, l’acquisizione della francese Adisseo e dell’australiana Qenos nel 2005 e, nel 2011, l’acquisto della norvegese Elkem e di una quota di controllo nell’israeliana Makhteshim Agan, sesto produttore mondiale di pesticidi.