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 2015  marzo 20 Venerdì calendario

Talleyrand al Congresso di Vienna e i cento giorni di Napoleone

Nell’inverno 1814-15, a Vienna, i potenti d’Europa riuniti per ridisegnare la mappa del continente si ritrovano, dopo aver smaltito i postumi di feste, balli, ricevimenti e un’indefessa attività amatoria, in una grande sala dello Hofburg. L’aria è quella di una riunione familiare, tra il pranzo di Natale e un incontro notarile per beghe ereditarie. Sono ammessi anche i cani. Inglesi, prussiani, austriaci e russi avevano già raggiunto a settembre un accordo di massima prima ancora che il congresso si aprisse, e l’avevano sottoposto a Talleyrand, quasi chiedendogli di sottoscriverlo. In pratica, la Russia vuole la Polonia e la Prussia la Sassonia. Lui, arrivato con calma, li blocca con gelido sdegno: il Congresso non è stato nemmeno aperto, manca la Spagna e la maggior parte degli aventi diritto, la Francia non può sottoscrivere patti che vanno contro le norme più elementari del diritto pubblico. Quei metodi, quello stile, ricordano molto quelli del Bonaparte. Dopo averlo vinto, adesso tutti sembrano condividere gli istinti del predatore che vuol imporre la sua legge. Anche il granduca di Sassonia osserva amaramente che da Napoleone gli alleati avevano imparato, insieme a tante altre cose, anche la protervia.

Le eccezioni procedurali sollevate da Talleyrand, che si comporta come un vincitore, creano imbarazzo e sconcerto. Puro miele per i 38 o 39 staterelli tedeschi, da sempre avversi allo strapotere della Prussia, che lo eleggono a loro santo patrono e fanno causa comune. Diventa l’uomo più ricercato e blandito del Congresso. Ma che cosa è il diritto? Per lo zar Alessandro, è semplicemente quel che conviene all’Europa, cioè a lui. «Sire, questo linguaggio non vi appartiene, e il vostro cuore lo sconfessa», ribatte Talleyrand, che giostra con gelida sicurezza. Il Congresso è aggiornato al 1° novembre, il “Diavolo zoppo” ha il tempo di tessere le sue trame tra incontri riservati e altre cene a effetto. Riesce a tirare dalla sua austriaci e inglesi, mentre le pretese espansionistiche dello zar alimentano tensioni e malumori crescenti. Gli alleati di ieri cominciano a trovarsi detestabili. Il 1 febbraio 1815 Talleyrand annuncia trionfalmente al suo re: «Sire, la coalizione è sciolta per sempre». La Francia non è più isolata, può contare su un “sistema federativo” che comprende Inghilterra e Austria, la Baviera, l’Hannover, le Province Unite, e presto altri stati. I disegni egemonici di Russia e Prussia sono stati sventati.
Il 9 febbraio il diabolico mediatore può dire di aver ottenuto quel che si era prefisso: la Sassonia è salva, fungerà da stato-cuscinetto tra Prussia e Austria, che tuttavia avranno i loro bravi guadagni territoriali. Per valorizzare i propri meriti, si dichiara mortalmente stanco: non si può vivere sei mesi in una tempesta continua di lettere, appunti, conferenze. «L’opera di intrigo logora di troppo tutte le facoltà». Era arrivato lì senza alcuna influenza, e adesso era la Francia a trarre i maggiori vantaggi da una trattativa che coinvolgeva l’amor proprio e il puntiglio di tanti Paesi.

Si spengono le candele. Ma a Vienna c’è un convitato di pietra di cui ufficialmente non si parla ma si discute a porte chiuse in toni preoccupati. Napoleone all’Elba resta un pericolo. Luigi XVIII non intende versargli il milione e mezzo di franchi previsto dai trattati, ma sarebbe disposto a pagare una cifra anche maggiore se solo lo si potesse trasferire altrove. Si parla delle Azzorre, a cinquecento miglia dalla terraferma; a novembre qualcuno ha fatto il nome di Sant’Elena. Il 10 febbraio la deportazione è decisa in seduta segreta. Napoleone, che ha ottimi informatori, è venuto a saperlo, a conferma delle sue previsioni. Ha già deciso di andarsene e attende soltanto l’occasione propizia: partirà il 24. Quando il 1° marzo sbarca a Golfe-Juan, Talleyrand ha appena scritto al suo re che per vincere la noia del Congresso si organizzano delle ricche lotterie in cui ciascuno porta un premio. Per eccesso di zelo, la principessa Esterhazy vorrebbe organizzare le cose in modo che i premi più belli vadano a quattro signore molto ammirate dallo zar e dal re di Prussia. La cosa viene giudicata molto sconveniente.
La mattina del martedì 7 marzo scatta l’allarme rosso, viene indetta una riunione urgente. È arrivato da Genova un dispaccio che comunica la fuga di Napoleone dall’Elba per destinazione ancora ignota. «Va dritto a Parigi», pronostica Metternich. «Un colpo da maestro, me lo aspettavo», commenta Talleyrand. Adesso, dice, bisognerà trattarlo per quello che è diventato, un bandito. Nelle conversazioni con i colleghi lo copre di ingiurie: brutale, vile, ipocrita, furbastro, rettile. Mentre il brigante avanza verso Parigi senza sparare un sol colpo e i reggimenti mandati a fermarlo solidarizzano con lui, domenica 12 il suo ex ministro fa sottoscrivere a una nuova alleanza di otto potenze un proclama che chiama nuovamente i popoli alla lotta contro «quest’ultimo tentativo di delirio criminale e impotente». Anche Maria Luisa scrive lettere in cui si dichiara «indignata con la persona che metteva così a repentaglio la sua sorte futura e quella di suo figlio». Invano Napoleone le scriverà da Lione di raggiungerlo a Parigi con il figlio. La lettera è intercettata, i congressisti si cavano gli occhi per decifrare gli scarabocchi di quei foglietti vergati nervosamente.
Il Congresso è preoccupato, le feste interrotte. È come se, scrive un testimone, migliaia di candele si fossero spente in un colpo solo. Talleyrand raccomanda invano al suo re, in fuga dalle Tuileries, di non dimenticare le carte riservate che gli aveva spedito da Vienna, tra cui un accordo segreto con inglesi e austriaci per far guerra a prussiani e russi se insistevano nelle loro pretese. Così Napoleone trova il documento e lo fa avere ai russi per gettare zizzania tra le file nemiche. Lo zar si premura di dire a Luigi d’aver sempre saputo che il suo governo era pieno di incapaci, vissuti all’estero, che della Francia non sapevano nulla. La vacanza è finita, la guerra è di nuovo vicina.

Nuovi equilibri. L’atto finale del congresso (centoventuno articoli) viene firmato il 3 giugno, a quella data Talleyrand è diventato l’esponente di un governo in esilio che si è rifugiato in Belgio. È appena tornato in Francia quando lo raggiunge la notizia di Waterloo. Scrive alla nipote: «La battaglia di Lipsia non è nulla in confronto a quella del 18. Il campo di battaglia è ricoperto di morti. Su diciassette persone che stavano intorno all’ammirevole duca di Wellington, tredici sono rimaste uccise o ferite. Ha vinto per la sua tenacia, per il suo talento, per il suo genio».
Nei mesi che precedono Waterloo, i prussiani cercano invano di arrivare almeno a una Confederazione anche provvisoria degli stati tedeschi. Fanno troppa paura a chi è più piccolo di loro, e l’Austria non ha nessun interesse a favorire il progetto. Dopo estenuanti maneggi, il Congresso si chiude con un senso diffuso di frustrazione e di aleatorietà. La pace si era rivelata più difficile degli stessi anni di guerra, in cui si faceva fronte a un nemico comune. Nella Vienna tornata alle dimensioni abituali si respira l’aria pesante delle feste appena terminate, tra tovaglie macchiate di vino, fiori appassiti e avanzi che si decompongono.
Tuttavia, anche se animato da attori spesso mediocri o frivoli, qualcosa il gran baraccone viennese aveva prodotto: l’idea che bisognasse metter da parte ogni pretesa egemonica per trovare assetti nuovi e sostenibili, un sistema d’equilibri che garantisse lo sviluppo di industrie e commerci, trasporti fluviali inclusi. Se non era ancora il germe di una comune politica europea, era qualcosa che andava in quella direzione, anche se restavano aperte, a nord come a sud, due grandi questioni: la Germania e l’Italia ancora volutamente frammentate, per la tranquillità dei loro potenti vicini.
Da molti anni gli Stati europei, poco meno numerosi di quelli che a Vienna lottavano per un posto al sole, siedono a un altro congresso, assai meno pittoresco, che si tiene in permanenza a Bruxelles. L’aria non è molto cambiata: dichiarazioni di principio, blocchi d’interessi contrapposti, trattative macchinose, stanchi rituali, dispetti, ripicche, un diffuso senso d’impotenza, nessuna visione strategica. Le escort hanno preso il posto delle granduchesse ingioiellate, l’Europa conta sempre meno. Come diceva Gramsci, la Storia è un’ottima maestra, ma gli uomini sono dei pessimi allievi.

3 - fine