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 2015  marzo 19 Giovedì calendario

IL SUICIDIO DI MIO PADRE IN CELLA HA SPEZZATO MOLTE VITE

[Intervista a Stefano Cagliari] –
Per moltissimi anni ho continuato a sognare mio padre. Sogni ossessivi, sempre uguali. Sognavo che il suicidio l’avesse solo finto, che fosse fuggito in luoghi sconosciuti. In certi sogni si era rifatto una vita negli Stati Uniti, dove il suo know-how era apprezzato. Evidentemente proiettavo su di lui il desiderio di nascondermi: dopo il suo arresto, noi Cagliari eravamo come lebbra. Io avevo uno studio di architettura e persi tutti i miei clienti. Oggi ho ancora paura di mettermi in luce». Sono giorni di ricordi per Stefano Cagliari, figlio dell’ex presidente Eni arrestato nella notte fra l’8 e il 9 marzo 1993 e morto suicida a San Vittore il 20 luglio, dopo 134 giorni di carcerazione preventiva. Anche alle vicende di suo padre Gabriele è dedicata 1992, la serie Sky in onda a fine mese. E nonostante siano passati ormai 22 anni, il figlio è ancora schiacciato dalla paura e dai sensi di colpa, anche mentre racconta a Panorama
una delle pagine più nere di Mani pulite.
La mattina dei funerali di suo padre venne trovato morto Raul Gardini. Davanti a Palazzo Belgioioso, dove si era adunata una piccola folla, qualcuno gridò ad Antonio Di Pietro: «Bravo, bravo, vai avanti così». Lo ricorda, vero? Era il piacere del sangue che scorre. Il potere che crolla è un gran spettacolo. Non potrò mai dimenticare l’ultima volta che vidi papà, il venerdì prima dell’arresto. Viveva a Roma, a Milano veniva solo nei weekend. E ogni volta, fingendo con mia madre che l’aereo avesse ritardato, passava da me per giocare con mio figlio Francesco, il suo nipotino di tre anni. Erano giorni assai difficili: mia moglie aveva un cancro al seno e morì due mesi dopo, purtroppo proprio nell’unica notte in cui io, che la vegliavo, mi ero addormentato. Quella sera, mentre mio padre stava per andare, mio figlio lo guardò e gridò: «In galera! In galera!». Raggelammo. Ripeteva, senza capirla, una frase udita all’asilo. Era l’atmosfera che si viveva allora. L’arresto per voi non fu una sorpresa... Ogni mattina mi dicevo: «Ci siamo». Ce l’aspettavamo tutti, anche se in casa non se ne parlava. Ma all’epoca, quando i giornali iniziavano a sparare in una direzione, sapevi che stavano arrivando le manette. Certi amici si erano offerti di farlo fuggire, ma papà rifiutò. Quando poi lo arrestarono davvero, e mia madre in lacrime mi avvertì per telefono, non riuscii a dirle una parola. L’avevano prelevato a mezzanotte. Lei era a teatro, lui le lasciò un biglietto. Dopo, non disse mai cos’aveva provato quella notte, né io lo chiesi.
E il resto della famiglia?
Quella stessa mattina ricevetti una telefonata da Pechino: mio fratello Silvano stava molto male, dovevo autorizzare un intervento. Organizzammo un’aeroambulanza per Parigi: fu un volo drammatico, con vari scali perché non c’era carburante a sufficienza. Presto sarebbe morto anche lui. Mio padre di tutto questo non ha mai saputo nulla. Non ci sembrò il caso di caricarlo di quel peso. D’altronde, dopo l’arresto ci aveva fatto sapere tramite gli avvocati che non voleva incontrarci né parlarci. Si vergognava di farsi vedere in quelle condizioni. Finché un giorno non arrivò quella lettera.
Quella che vi mandò prima di togliersi la vita. «Miei carissimi: sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore...». Arrivò alcuni giorni prima di quel 20 luglio. Era indirizzata a mia madre. C’era scritto: «Da aprire al mio ritorno». Lei, come sempre, obbedì. Forse, se io l’avessi saputo, avrei insistito per leggerla. Chissà. Ma quando la trovai, dopo esser stati a San Vittore per il riconoscimento della salma, la disperazione era già tale che non c’era posto anche per il rimorso.
Tutte queste parole non dette, tra di voi. Quante emozioni negate. Perché? Per sopravvivere, ritengo. Anche se da noi l’emotività non è mai stata di casa. Solo due volte avevo visto mio padre perdere il controllo. Ma piangere mai. Era un uomo d’altri tempi, uno che si era arruolato a 17 anni (nella Repubblica di Salò, ndr) per evitare che prendessero suo padre. Quella sua aggressività gli fu fatale in carcere, dove più i magistrati lo incalzavano, più lui si irrigidiva. Speravano, così facendo, di arrivare a Bettino Craxi: ma lui, pur ammettendo le sue responsabilità, non volle mai parlare. Noi rispettammo la sua decisione. Tentare di convincerlo non sarebbe servito. Ma quella lettera... Che senso ha la frase «Da aprire al mio ritorno»? Sua madre deve pur esserselo chiesto, no? È quello che mi sono sempre ripetuto.
Il magistrato non volle firmare l’ordine per i domiciliari e andò in vacanza. Per mio padre fu l’ultima goccia. La lettera venne pubblicata sul Giorno e divenne una denuncia della situazione carceraria. Il cappellano di San Vittore, con cui mio padre collaborava per aiutare detenuti più disgraziati di lui, disse che il suo era stato «un sacrificio». Dopo, mi riferirono che in chiesa, al funerale, tanti avevano fischiato. Io sentivo solo gli applausi. Che uomo era suo padre? Estremamente ambizioso. Pretendeva moltissimo da sé e da noi figli. Anche se averlo in casa, da bambino, era una rarità. Stava via per mesi, e quando c’era di lavoro non parlava mai. Ho saputo che faceva l’ingegnere quando avevo dieci anni, da mia madre. Ma alle elementari, quando capivo che stava per tornare, ero terrorizzato. M’interrogava in tutte le materie: finivo sempre in lacrime. Poi, crescendo, lui socialista e io nel Movimento studentesco, c’erano tante incomprensioni. Ma papà non era una persona con cui si potesse litigare. E quando lo arrestarono? Fu un momento di grande rottura, anche se a 36 anni avevo avuto modo di conoscere il mondo, di capire che aveva fatto certe cose perché faceva parte di quel gioco. Ma non riuscivo a immaginarmelo in prigione, mi sembrava un film di Totò. Glielo scrissi in una delle tre lettere che gli mandai in quei mesi. Lui rispose a due. Si parla sempre di suo padre. In realtà, a fare politica era sua madre, Bruna. Era una vecchia socialista. Fino alla fine degli anni Settanta era stata molto attiva nel partito. Poi, con il crescente arrivismo di alcuni, se ne allontanò. Restò accanto a papà, pur non condividendo certe scelte, e dopo l’arresto non smise mai di difendere lui e la sua memoria. Finché, cinque anni dopo, non decise di morire pure lei.
In che modo?
Aveva avuto la tubercolosi e dopo i 70 anni i suoi problemi di respirazione si aggravarono. Fu ricoverata. Volevano intubarla, ma si rifiutò. Quel giorno mi raccontò tutta la sua vita: di quando da bambina pascolava le oche in Friuli, di come con papà fossero partiti dal nulla. Poi, lei che odiava il cibo, fece una mangiata pantagruelica. Un piatto enorme di spaghetti, un arrosto con patate... Morì quella notte stessa.
All’epoca lei lavorava anche con l’Eni. Che cosa accadde dopo l’arresto? Non solo smisero di darci commesse, ma non vollero neanche pagare i lavori finiti. Poi sono arrivate le cause di risarcimento contro di noi: se n’è andato tutto. Quando è morta mia moglie, e subito dopo anche mio suocero, sono andato in analisi. Per prevenire, sa... Ma qualche anno dopo è morto anche lo psicoanalista, e non me la sono sentita più di continuare.
Cos’ha pensato quando, lo scorso 25 febbraio, è stata approvata la legge sulla responsabilità civile dei magistrati? Non cerco vendette. Mio padre è morto, nulla lo farà resuscitare. Recriminare può solo accrescere il dolore. Era colpevole, fu l’inchiesta a essere gestita con profonda ingiustizia. Mani pulite era in delirio d’onnipotenza. Mio padre fu uno strumento di propaganda da ostentare a chi stava fuori. E suo figlio Francesco?
Del suicidio non gli dicemmo nulla, facendogli credere che il nonno era morto di vecchiaia. Lo scoprì a casa di una compagna di liceo. «Ti chiami Cagliari? Il nipote di Gabriele?» Tornò a casa sconvolto, la frattura di quel giorno non si è mai sanata tra di noi. Oggi, a 25 anni, vive nascondendosi. Non risponde al telefono, esce senza avvisare, rientra di soppiatto. Percepisce le mie angosce e le fa sue. Purtroppo, quando succede una cosa come quella che accadde a mio padre, non è solo la tua vita che viene distrutta, ma anche quella dei tuoi figli, e dei figli dei tuoi figli.