Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 19 Giovedì calendario

ATTACCO AL CREMLINO


«La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe». Un’affermazione così impegnativa non è apparsa su qualche pubblicazione eurasiatista di nicchia, ma sulle pagine di Repubblica appena due settimane fa. A formularla, un esperto di geopolitica come Lucio Caracciolo, direttore di Limes e di Heartland, rivista euroasiatica di geopolitica. Che è sembrato offrirla come chiave interpretativa per chiarirsi le idee sulle ragioni profonde delle tensioni che hanno investito i rapporti fra l’Unione Europea e la Russia da poco più di un anno a questa parte e sulle radici della crisi ucraina che ha ricreato il clima della Guerra Fredda in Europa. Prosegue infatti dopo l’attacco: «Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa». Viene in mente il Nikolaj Berdjaev de L’idea russa, dove il filosofo scrive che i russi detestano l’impero come fonte d’iniquità, ma che la Russia, per le sue dimensioni geografiche, presuppone uno Stato autoritario e imperiale, e che questa è «una contraddizione inerente alla stessa struttura spirituale del nostro paese e del nostro popolo». Abbiamo approfondito un po’ con lo studioso.
Caracciolo, lei ha cercato di spiegare che «La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe». Secondo lei le élites occidentali sono consapevoli di questo dato o credono veramente che il futuro della Russia sia la democrazia, che si debba portare il Maidan di Kiev a Mosca? Sono sincere e presuntuose, oppure sono in malafede e male intenzionate?
La gran parte delle élites europee è consapevole di questo fatto, ma ci sono differenze sulle conseguenze che ne traggono. Mentre per italiani, francesi, tedeschi e spagnoli l’interesse per la stabilità della Russia prevale sull’auspicio di un suo sviluppo democratico, in alcuni paesi dell’Est europeo che sono stati soggiogati dalla Russia per molto tempo o che comunque hanno una rivalità storica con Mosca – pesi baltici, Svezia e Polonia – la consapevolezza del fatto sopra detto li porta a spingere verso una disintegrazione attraverso la democratizzazione. Sperano nella creazione di tante Russie democratiche, ma non possono dirlo apertamente perché questo presuppone dichiararsi per la disintegrazione della Russia. Per l’America vale un discorso diverso. Lì dopo la fine della Guerra Fredda si è coltivata l’illusione che la Russia fosse stata vinta e debellata, e instradata verso il capitalismo e la democrazia occidentali. Oggi invece buona parte dell’élite guarda alla Russia nello stesso modo in cui la guardava ai tempi della Guerra Fredda, ma con una differenza: mentre dell’Unione Sovietica avevano paura, la Russia di oggi è guardata dall’alto in basso, e Putin viene condannato per le sue “interferenze”. Questo si traduce in una visione irrealistica della geopolitica russa. Naturalmente non si strapperebbero le vesti se la Russia dovesse disintegrarsi, purché questo avvenga in modo relativamente pacifico e controllato, come avvenne ai tempi dell’Unione Sovietica. Ma difficilmente le cose andrebbero così.
A suo tempo alla Russia è stato dato un posto nel G7 e offerta una partnership con la Nato, è stato creato il Consiglio Nato-Russia; il Fmi è intervenuto nel momento della crisi del rublo. Non erano questi segni di una volontà seria di partenariato da parte occidentale?
No, non lo erano. Il G7 è rimasto G7, hanno solo aggiunto un posto a tavola. E il Consiglio Nato-Russia non ha mai davvero funzionato: i paesi Nato si mettevano d’accordo su di una posizione, che in generale era quella americana, e dall’altra parte c’era il russo, solo contro tutti. Non c’è stata una vera volontà di collaborazione perché prevaleva la diffidenza, alimentata da una parte e dall’altra dal ricordo della Guerra Fredda. Si sono trovati accordi su singoli dossier, come quello della guerra al terrorismo, come l’Afghanistan. Ma con l’idea di costruire lo scudo antimissile e di collocarlo a ridosso della frontiera russa e altre mosse di carattere finanziario internazionale e geopolitico, l’America e l’Occidente hanno segnalato alla Russia di non volerla integrare, come inizialmente anche Putin sperava fino al 2007. Nell’idea – che a noi può risultare balzana ma che alla maggioranza dei russi appare naturale – di essere un terzo e autonomo polo di un mondo cristiano i cui nemici naturali sono la Cina e l’islam.
Il ritratto di Putin sui media occidentali diventa sulfureo ogni giorno di più. Come se il problema non fosse geopolitico ma legato all’eccesso di potere di una singola persona. A quali esigenze risponde la personalizzazione del nemico?
C’è un dato antropomorfico: Putin incarna anche fisicamente la tipologia della spia che viene dal freddo. Quindi per la sua biografia – viene dal Kgb – e per le sue frequentazioni e amicizie, tutte nel mondo dell’intelligence. E anche per quel suo modo di fare sdegnoso e arrogante, che nei rapporti personali con alcuni leader gli ha procurato problemi: in particolare con Obama. Poi c’è un dato che riguarda il sistema: la Russia non è una democrazia e non vuole esserlo, il sistema è centrato sul Cremlino, anche se il potere di Putin non è così assoluto come amiamo dipingerlo. Lui è l’amministratore delegato di un sistema che ha molte componenti e che ha il compito precipuo di tenere insieme la Federazione. Putin si è guadagnato i galloni con la guerra in Cecenia e poi con misure politiche ed economiche che hanno ricentrato il potere su Mosca ed emarginato le opposizioni. Le quali, nella loro componente democratica che a noi sta molto simpatica, sono molto deboli e sono diventate ancora più deboli nell’attuale clima di scontro. Questo significa che se ci dovesse essere un cambio della guardia ai massimi livelli, difficilmente il governo andrebbe a “sinistra”. Putin può perdere il potere solo a vantaggio di elementi ipernazionalisti molto più a destra di lui. Oggi come oggi in Russia dopo Putin non c’è la democrazia di Westminster, ma un regime più autoritario di quello attuale.
Negli anni della presidenza Eltsin la Russia è stata sull’orlo dell’implosione. Quelle circostanze potrebbero ripresentarsi? Quante possibilità ci sono che la crisi ucraina inneschi meccanismi di disgregazione istituzionale in Russia?
Ci sono, e la spiegazione dell’intervento in Crimea e del sostegno ai ribelli del Donbass si trova proprio qui. Non dobbiamo dimenticare che nel 1997, alla vigilia dell’avvento di Putin, l’allora primo ministro Primakov dichiarava che la Russia stava cadendo a pezzi, che la disgregazione era alle porte. Nel caso che la pressione delle sanzioni, il crollo del rublo, la caduta del prezzo del petrolio e il dissanguamento conseguenza della guerra in Ucraina continuino, non mi sento di escludere nulla. Certamente non lo escludono né Putin, né i suoi nemici nell’Europa nordorientale e in America.
Al contrario, la crisi ucraina può essere un momento di svolta che ripropone un’area di influenza russa nell’Europa orientale? Ci sono paesi che potrebbero essere attratti in una rinnovata sfera di influenza russa in Europa?
Lo escludo completamente. Siamo in una fase di contrapposizione frontale per alcuni aspetti più aspra di quella dei tempi della Guerra Fredda tra quella che una volta era l’Europa sovietica e la Russia. Siamo in un clima di guerra che per ora è per procura, combattuta dalla fazione di Kiev sostenuta dall’Occidente contro la fazione del Donbass sostenuta anche con forze sul terreno da Mosca. La situazione è peggiore di come viene raccontata sui nostri media. È una situazione molto rischiosa.
Tuttavia l’Europa, nonostante gli interessi e le sensibilità riguardo al rapporto con la Russia siano differenti, ha mantenuto finora una forte unità di linea politica. Durerà? Cosa sarebbe meglio fare per l’Europa nel suo complesso?
Non mi pare che ci sia una linea unitaria. Il fatto che ci siano delle sanzioni decise insieme dai paesi dell’Unione Europea non significa che esprimano una politica unitaria. Esprimono un compromesso al ribasso fra posizioni molto diverse, cioè fra chi le sanzioni non le voleva proprio, come l’Italia, e chi le avrebbe volute molto più dure o avrebbe voluto andare in qualche modo alla guerra, come i paesi baltici. In posizione intermedia troviamo i tedeschi. Le sanzioni non sono una politica, sono una supplenza a una politica che non c’è. Inoltre proprio a causa delle differenze di fondo di ordine culturale prima ancora che politico-economico che esistono in Europa in rapporto alla Russia e che sono sedimentate nei secoli, una politica unitaria dei Ventotto nei riguardi della Russia non è nelle possibilità.
Il presidente della Commissione europea Juncker ripropone l’esercito europeo a difesa dei valori europei. È una proposta seria che può servire anche in chiave di rapporti con la Russia? Come potrebbe convivere con la partecipazione della maggior parte dei paesi dell’Unione Europea alla Nato?
Juncker non brilla per senso dell’umorismo. Proporre oggi, nell’attuale situazione, un esercito europeo significa parlar d’altro. L’esercito europeo non c’è e non può esserci. Per quale ragione gli inglesi e i francesi dovrebbero concedere ai tedeschi di mettere le mani sui loro arsenali atomici? Un esercito presuppone una guida politica: qual è il potere politico che avrebbe la prerogativa di decidere come deve essere usato questo esercito? Il signor Juncker?
Si è molto enfatizzato il ruolo degli Stati Uniti e del sottosegretario agli Esteri Victoria Nuland nella crisi ucraina. Però resta il fatto che a spingere per l’accordo di associazione dell’Ucraina all’Unione Europea sono stati i tedeschi. L’Europa non era cosciente della crisi che stava per innescare?
A volere l’accordo con l’Ucraina sono stati soprattutto i baltici, con qualche spinta da parte americana e britannica. Agli Stati Uniti lo scoppio di una crisi serviva per due obiettivi. Il primo era di riportare Putin a quelle che, almeno secondo gli americani, sono le sue dimensioni geopolitiche naturali: quelle di una potenza regionale che deve occuparsi esclusivamente del cortile di casa. Dal quale è esclusa l’Ucraina, naturalmente. Il secondo obiettivo era che quest’ultimo paese andava sganciato dal rapporto storico e fino a ieri anche sostanziale con la Russia in termini economici, energetici e infine politici. Questi due obiettivi sono stati raggiunti da Obama: Putin è stato ridimensionato e la Russia con lui, i rapporti Russia-Germania hanno subito un logoramento. In realtà a ben guardare i rapporti peggiorati sono quelli fra le élites politiche, fra Merkel e Putin, mentre il mondo industriale ed economico tedesco continua a scommettere sulla Russia. Non ci sono fughe di capitali germanici dalla Russia, e gli imprenditori tedeschi hanno ripetuto in pubblico e in privato che loro non apprezzano le sanzioni. Come spesso accade, i tedeschi dicono una cosa e ne fanno un’altra: la Germania è il paese più attivo nell’aggirare le sanzioni alla Russia che essa stessa ha voluto. Ciò avviene attraverso triangolazioni commerciali con la Bielorussia, la Cina e la Corea del Nord. Mentre l’Italia applica quasi alla lettera, pur recalcitrando, le sanzioni decise collettivamente.