Daniela Cipolloni, Focus 20/3/2015, 20 marzo 2015
IO LEGGO (E CONTO) COSÌ
Quanto fa sei per sette? Se impiegate più di due secondi per rispondere, potreste appartenere a quella schiera di persone che fa a cazzotti con la matematica. Circa il 5-7% della popolazione conta con le dita, non sa le tabelline, confonde le cifre (per esempio, scambia 38 con 83). Ma non chiamateli asini. Si tratta di discalculia, un limite congenito verso i numeri. È l’equivalente aritmetico della dislessia, l’incapacità di leggere le parole. Questi due disturbi, evidenti dall’età di 6-7 anni, quando si approda alla scuola elementare, vanno spesso a braccetto, insieme alla disgrafia (la calligrafia incomprensibile) e alla disortografia (la scrittura piena di errori, con lettere sostituite, omesse o invertite). Rimproveri, punizioni, tirate d’orecchie non fanno altro che peggiorare il disagio dei bambini, inutilmente esortati ad applicarsi di più nello studio. «È come chiedere a un miope di guidare senza occhiali o di correre a una persona che ha una gamba rotta», spiega Stefano Vicari, primario di Neuropsichiatria infantile all’Ospedale Bambin Gesù di Roma. «Il problema di chi fatica a leggere, scrivere e far di conto non è una questione di forza di volontà, né tantomeno ha qualcosa a che fare con l’intelligenza. Dipende, infatti, da una diversa organizzazione dei circuiti cerebrali preposti a quelle funzioni».
GENI E NEURONI. Anche se la ricerca scientifica non ha ancora fatto completa chiarezza, ormai su un punto sono tutti d’accordo: la causa dei disturbi specifici dell’apprendimento è neurobiologica. Dislessici o discalculici, insomma, si nasce. Altro che problemi emotivi o psicologici, come in passato si sospettava. Semmai quelli arrivano dopo, quando basta aprire un libro o impugnare una penna per sentirsi frustrati e incapaci. «Nel 40 per cento dei casi c’è una componente ereditaria, cioè una familiarità per lo stesso problema», dice Roberta Penge, neuropsichiatra infantile dell’Università La Sapienza di Roma. «Sono stati identificati 5 o 6 geni chiave, tuttavia ci sono gemelli omozigoti, con lo stesso Dna, in cui uno è dislessico e l’altro no, sebbene la concordanza sia molto frequente. La genetica c’entra, ma non spiega tutto». Anche i fattori ambientali entrano in gioco. Per esempio, secondo alcuni ricercatori dell’Università di Yale, il fumo di sigarette in gravidanza potrebbe ripercuotersi negativamente sulle capacità di linguaggio e di lettura del futuro bambino. Che il deficit cognitivo prenda forma già nella pancia della mamma lo ha confermato anche un recente studio dell’Ospedale e Università San Raffaele di Milano, secondo cui alla base della dislessia ci sarebbe un malfunzionamento della migrazione neuronale, quel processo durante lo sviluppo del feto che permette ai fasci nervosi di sostanza bianca di raggiungere la loro destinazione finale. Ne risulterebbe un’alterata conformazione delle connessioni cerebrali. In effetti, le moderne tecniche delle neuroscienze hanno svelato parecchie differenze tra il cervello di chi legge fluentemente e chi no. Mentre, di norma, di fronte a un testo scritto si “accendono” la corteccia frontale (dietro la fronte), parietale e temporale (sopra e dietro l’orecchio), che insieme permettono di decifrare le parole e tradurle in suoni, nei dislessici si nota una marcata attivazione solo dell’area frontale, con le altre due quasi spente, proprio a causa di una minore connettività tra neuroni. In particolare, l’attenzione degli scienziati si è concentrata sul fascicolo arcuato, che nei soggetti dislessici o discalculici appare più stretto e lascerebbe passare meno informazioni.
TEORIE A CONFRONTO. Comunque è da cinquant’anni che la scienza cerca di trovare risposte. Una delle prime teorie tirava in ballo problemi di elaborazione visiva, una sorta d’incapacità degli occhi di focalizzare e, in contemporanea, scorrere le lettere. «Si tratterebbe, piuttosto, di un deficit di attenzione visiva», puntualizza Vicari. «È come se i dislessici non riuscissero a concentrarsi sul susseguirsi delle lettere nello spazio». La conferma viene dai videogiochi d’azione. Proprio così: secondo un team dell’Università di Padova, nove sedute da 80 minuti con un joystick in mano, per un totale di 12 ore di spasso, migliorano le capacità di lettura più di quanto non faccia un anno di lettura spontanea o guidata. Pare che, a furia d’inseguire bersagli periferici in movimento, si affinino abilità che poi tornano utili anche davanti a un libro aperto. C’è, poi, chi punta il dito su difetti di percezione uditiva: molti dislessici faticano a codificare suoni ravvicinati, specialmente se sono consonanti, o quando c’è forte rumore di fondo, tant’è che dispositivi che trasmettono la voce direttamente nelle orecchie – riducendo le distrazioni – hanno migliorato le abilità di lettura di piccoli scolari, in una sperimentazione della Northwestern University. «Un’altra ipotesi riguarda la memoria implicita», spiega Vicari. «Di solito, più eseguiamo un compito, più ci viene automatico, come andare in bicicletta o sciare: all’inizio siamo lenti, perché l’azione richiede ragionamento, poi impariamo, memorizziamo e lo facciamo senza pensarci. Sembra che i bambini dislessici abbiano difficoltà a compiere questo passaggio: la lettura non diventa mai automatica. Potrebbe dipendere da un’alterazione a livello del cervelletto, struttura che presiede agli automatismi cognitivi». Queste tre idee (difetti visivi, uditivi e del cervelletto) fanno parte della cosiddetta “teoria magnocellulare”, legata a quella parte del sistema nervoso che elabora i cambiamenti.
PER I CINESI È PEGGIO. Tuttavia, oggi, riscuote più successo un’altra teoria, quella fonologica. Il problema fondamentale della dislessia, e di conseguenza della disortografia, riguarderebbe il modo in cui il cervello rappresenta i suoni in segni scritti. Lo proverebbe anche il fatto che, mentre la “cecità verso i numeri” ha la stessa prevalenza ovunque, la “cecità verso le parole”, no. Varia da Paese a Paese. Se in Italia ne soffrono circa tre, quattro bambini su cento, soprattutto maschi, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si arriva a percentuali bulgare, fino al 17%. Al punto che alcune persone bilingui possono incespicare in un idioma, ma andare spediti come treni nell’altro. «Le lingue che creano maggiori difficoltà sono quelle con un’ortografia non trasparente, cioè in cui a un segno corrispondono più suoni (per dire, la i di pink si legge i, mentre la i di blind si legge ai), o in cui a uno stesso suono corrispondono più segni (per esempio, where e were)», spiega Vicari. Con i suoi 40 fonemi e 1.120 forme grafiche per rappresentarli, l’inglese è ben più ostico per un dislessico rispetto all’italiano, che conta solo 25 fonemi e 33 forme grafiche. In cinese le cose si complicano ulteriormente. Per codificare un testo, non è sufficiente elaborarele lettere dell’alfabeto, unirle in parole, convertirle in suoni e tradurle a voce. Bisogna memorizzare un gran numero di simboli diversi, i cosiddetti ideogrammi (circa cinquemila), a ciascuno dei quali corrisponde una parola. Secondo Li Hai Tan, professore di scienze cognitive dell’Università di Hong Kong, per un dislessico, al disturbo fonologico nei Paesi asiatici si aggiungerebbe un disturbo visuo-spaziale, cioè la doppia difficoltà di estrapolare da una forma sia il suo suono che il suo significato. Insomma, chi ha ragione? «Tutti. Ormai è chiaro che il disturbo della lettura e della scrittura può essere il punto di arrivo di processi alterati diversi tra loro, ed è cruciale capire quale sia l’inghippo di partenza per orientare la terapia», chiarisce Vicari.
CHI NON SA DARE I NUMERI. A differenza della dislessia, che ha attirato una mole di studi, la discalculia è stata a lungo sottovalutata. Negli ultimi anni, l’attenzione è cresciuta, è stata fatta luce sulle cause neurobiologiche e sono stati sviluppati strumenti e strategie per aiutare i bambini che arrancano paurosamente in matematica. Come “Number Catcher”, un gioco per computer e smartphone creato dall’Istituto nazionale francese per la ricerca in medicina (Inserm) che, mentre si sparano in aria palline colorate, si acchiappano gettoni d’oro o si incastrano mattoncini, permette di maneggiare addizioni, moltiplicazioni, frazioni, rafforzando i circuiti cerebrali della rappresentazione e manipolazione dei numeri. «Più gli interventi di riabilitazione sono precoci, maggiori sono i risultati», commenta Penge. Tuttavia, dislessia, disortografia e discalculia non se ne vanno mai del tutto. Non si “guarisce” e la fatica rimane.
Sono ancora pochi gli studi sull’evoluzione della dislessia in età adulta e la diagnosi è difficile, perché in Italia sono pochi i centri che si fanno carico di soggetti sopra i 18 anni. Comunque sia, a qualsiasi età si può imparare ad aggirare gli ostacoli e conviverci bene. Come? Trovando vie alternative per studiare. E confidando nella tecnologia. Perché, accanto a test mnemonici, giochi linguistici, esercizi fonologici, di solito previsti per migliorare le competenze, vengono in soccorso computer, video-lezioni, audio-libri, correttori ortografici, sintetizzatori vocali, software di dettatura che alleggeriscono, e parecchio, l’impegno sfiancante per gestire l’informazione scritta. Quel che conta, in fondo, è il fine, non il mezzo. Lo scorso anno, uno studio dello Smithsonian, pubblicato su Plos One, ha dimostrato che almeno un terzo dei dislessici legge meglio su e-book rispetto ai libri tradizionali, grazie alla possibilità di impostare righe di testo più brevi e in quantità inferiore. Anche il carattere tipografico può aiutare. «Ne sono stati sviluppati diversi per dislessici. In generale, i caratteri (font) con le “grazie”, cioè code e uncini (come quello di queste pagine, ndr), sono meno leggibili dei caratteri “bastoni”, senza fronzoli, come Arial». Secondo il sito Dislexic.com, il migliore è il Trebuchet MS, disegnato per Microsoft nel 1996, con il suo corpo snello e i lunghi tratti ascendenti e discendenti (come la gamba della q o Tasta della b). Fra gli ultimi arrivati c’è Dyslexie, studiato dal designer Christian Boer affinché ogni lettera abbia una forma unica e facilmente riconoscibile.
COME IN MATRIX. Intanto la ricerca continua a sperimentare strategie sempre nuove. «Negli adulti si sta testando la stimolazione magnetica transcranica, che consiste nell’indurre impulsi elettrici a livello della corteccia cerebrale attraverso un campo magnetico per dare una scossa alle aree che funzionano un po’ meno», illustra Vicari. «Una tecnica più soft consiste nell’indossare una cuffia che emana una debole corrente continua, paragonabile a quella del mouse. Migliorerebbe le performance cognitive e la capacità di apprendimento». Ma mentre si profilano questi scenari alla Matrix, il consiglio più importante è invece alla portata di tutti: prenderla con filosofia (soprattutto i genitori, che hanno un ruolo cruciale su come il figlio vive la propria condizione). «Raccomando di sdrammatizzare e vivere con serenità il disturbo, ché non è una malattia e non è la fine del mondo», sottolinea Vicari. «Pensiamo sempre che dietro a un dislessico può nascondersi un piccolo Albert Einstein». E scusate se è poco.
Daniela Cipolloni