Michele Smargiassi, il Venerdì 20/3/2015, 20 marzo 2015
LA MIA VITA IN BIANCO E NOIR
[Pupi Avati]
Pupi Avati è un ragazzo di 76 anni che in soffitta non ci va, dopo mezzo secolo di lavoro e una cinquantina tra film, sceneggiati, libri e altre cose. C’è da pensare che nessuno dei due protagonisti del suo romanzo noir, Il ragazzo in soffitta, in uscita da Guanda, sia un suo alter ego, come spesso capita ai personaggi dei suoi film. Lo abbiamo rubato al lavoro, a Milano, dove sta girando un mediometraggio per l’Expo, una storia d’Italia lunga come un treno.
Avati, questo libro lo dobbiamo solo leggere, o lo vedremo?
«Libri miei che non siano anche film non ce ne sono. Ma questa potrebbe essere la prima volta: è un romanzo, di autobiografico c’è ben poco, c’è un presente adolescenziale...».
Scrivere di adolescenti non è facile, e farlo a 76 anni...
«...è più facile. A una certa età c’è lo scollinamento. Per la prima parte della vita ti allontani dalla nascita, poi arriva un giorno in cui la polarità si inverte, la locuzione “per sempre” non si applica più a nulla, se non alla morte. E comincia un viaggio di ritorno che è un dis-apprendimento».
Ma si torna alla propria adolescenza. Qui lei scrive di ragazzi d’oggi.
«In tanti li descrivono pieni di cellulari e di griffe, non c’era bisogno che un settantaseienne accattonasse un’adolescenza che non conosce. Ma avendo figli e nipoti so che le ragioni della gioia e del rammarico restano le stesse».
Il ragazzo in soffitta racconta un’educazione sentimentale drammatica: due ragazzi scoprono assieme sentimenti opposti, amicizia e orrore. Non è una visione serena dell’adolescenza, né della famiglia.
«No di certo, le famiglie dei due ragazzi sono entrambe spaventose».
Ma lei non è un difensore della famiglia?
«Ostinato. Ho festeggiato pochi mesi fa cinquant’anni di matrimonio».
E tuttavia in queste famiglie si incrociano tradimenti, cinismo, squilibrio, la sensazione di non conoscere chi ti vive accanto, a volte veri e propri abissi del male...
«Verissimo. Ho un’opinione della famiglia molto elevata, ma riconosco che nella realtà non è così. Del resto, io sono cristiano cattolico praticante, ma sono un pessimo cristiano cattolico praticante. Non è una contraddizione conoscere l’imperfezione del mondo, se hai un’idea di come idealmente dovrebbe essere».
Lei fa un cinema di vita, spesso autobiografico. Dunque questa è anche la sua esperienza di famiglia?
«Il mio matrimonio ha avuto incidenti anche gravi, ho vissuto fuori di casa per un periodo, facendo pagare ai miei figli un prezzo. So di non essere stato il padre che avrei dovuto essere, forse solo ora, da nonno, somiglio a quel genitore migliore. Però non credo che questo mi delegittimi dall’avere un’idea elevata dei ruoli all’interno della famiglia, né dall’affermare che famiglie scadenti producono cittadini scadenti».
Ha firmato appelli per la difesa della famiglia naturale. Che cos’è?
«L’idea di famiglia che candido alla perfezione è quella dove esistono un padre che fa il padre, maschio, va a lavorare, sparisce, torna, garantisce protezione, e una madre pronta ad ascoltarti e perdonarti... E poi dei figli, dico dei figli al plurale, perché privare un figlio di un fratello, e tendenzialmente di zii e cugini, è obbligarlo a una rinuncia, è togliere alla società la ricchezza delle relazioni orizzontali.
Così abbiamo la famiglia verticalizzata di oggi, che qualche danno lo produce».
Ma il suo libro ci racconta che anche una famiglia tradizionale può scaricare pesi spaventosi sulle spalle dei figli.
«In un mio film, Il bambino cattivo, ho raccontato come un figlio vive la deflagrazione tra i suoi genitori, le violenze che esercitano uno sull’altro usando l’amore che fu come arma per nuocersi... In questo libro arrivo a ipotesi anche più estreme, però esistono davvero esseri come il padre di Dedo, che più demente non può essere, mentre l’altro padre è il mistero, fino alle ultime pagine il lettore legge il manuale dell’orco...».
Lei è quel ragazzino, è ovvio. Perché la affascina tanto lo squilibrio?
«Conosco la malattia della mente, forse perché io ne soffro, mia moglie ha il terrore che un giorno a tavola faccia qualcosa di assurdo. Noi del cinema siamo carta moschicida per chi ha problemi mentali, piacciamo moltissimo ai matti. Sul set si avvicinano sempre, abbiamo una lingua comune, ci intendiamo... I ragazzi problematici sono affascinanti, hanno una fantasia non frenata dalla ragione, sono le uniche interlocuzioni che mi arricchiscono, le persone ragionevoli diventano presto di una noia mortale».
Ecco, forse questo sentimento del crinale stretto che separa virtù ed follia potrebbe essere la cifra di tutta la sua carriera... Altrimenti come starebbero insieme i suoi primi film horror-splatter; Bordella e Balsamus l’uomo di Satana, con Ragazzi e ragazze?
«La continuità c’è, ma è anagrafica. Badi, non rinnego nessuno dei miei film, ciascuno somiglia a quel che ero in quel momento. Quei primi film sono perfino un eccesso di coerenza, ero totalmente immerso, ecco perché mi imbarazza rivederli: scopro come sono stato, in quale stazione mi sono fermato. Sono sempre io, perennemente io, ma nella mutevolezza, nella libertà di contraddirmi... Per La casa delle finestre che ridono mi definirono “il Polanski della pianura Padana”, avrei potuto camparci sopra benone, come ha fatto un mio collega illustre, facendo sempre quel tipo di film lì, era una formula originale, l’Emilia paciosa delle trattorie che però nella parte in ombra della siepe nasconde serpi, rospi, veleni, streghe... Ma sarebbe diventato un cinema di maniera, totalmente disonesto».
Ma Bologna, dove torna anche in questo libro, non è proprio questo per lei? Una soffitta piena di cose graziose e di fantasmi spaventosi?
«Bravissimo, è questo, una soffitta dell’amore e dell’orrore, proprio come quella del libro. La mia Bologna è una città non reale, ho cominciato a raccontarla quando ero lontano, la odiavo tanto che non la guardavo, mi servirono 352 chilometri per vederla: era il ring dove andai due volte al tappeto, prima come jazzista poi come regista. La detesto e ne ho bisogno. Per Il papà di Giovanna ho chiesto agli scenografi di ricostruire a Cinecittà la mia casa d’infanzia, tale e quale, centimetro per centimetro. Sapevo che aprendo quella porta... Come Dedo, il ragazzino del romanzo, che scopre di avere sopra la testa, in soffitta, un orco, una cosa più grande di quanto sia giusto sopporti un ragazzino».
Il cinema che sente davvero suo, qual è allora?
«Tutti i miei film mi somigliano, ma non ho mai fatto il film della mia vita. Idealmente saprei come dovrebbe essere, ma non lo farò mai, e sono fortunato in questo, perché conservo quella piccola illusione che la prossima volta lo farò, ma col terrore che capiti davvero, perché mi si spegnerebbero tutte le attese».
Dipende da questo la sua lunghissima filmografia? Lei gira al ritmo di uno o due film l’anno.
«No, quella dipende dalla cultura contadina, cultura del racconto. Un complesso di inferiorità che ti spinge a esserci attraverso il dire».
La sua prolificità l’ha danneggiata?
«Eccome. Se avessi centellinato, uno ogni sette otto anni: silenzio, mistero, arriva non arriva, come sarà... Strategie d’attesa che ho disattese. Ho sbagliato. Però ho detto quel che volevo dire quando lo volevo dire».
Amarezze per una critica che l’ha sempre tenuta in un limbo fra cinema d’autore e popolare?
«La persona creativa soffre l’emarginazione, cova sentimenti perfidi, io sono cattolico e dovrei esser buono, ma confesso d’aver sognato la vendetta, magari postuma ma gloriosa. Poi scopri che l’hai già consumata con la tua serenità. Magari un giorno incontri in ascensore quel critico che ti ha sempre stroncato, tu e lui soli, ma lui ti abbraccia sorridente, “Puuuuupi!”, ed ecco, sei fregato...».
Appagato, dunque?
«No, perché ho fatto i film che volevo fare, ma non quelli che dovevo. Bellini ha fatto 8 1/2, levalo e resta un buon regista e basta. Io non ho fatto il mio 8 1/2 e questo mi tormenta, ma mi dà ragioni per continuare: può darsi che lo faccia. Sono fortunato, il senso di emarginazione è il mio carburante. All’inizio della mia avventura romana, Laura Betti mi introdusse a quelle serate con Pasolini Moravia Bertolucci Bellocchio, orecchiavo, emulavo, ma mi stavo spogliando di me, così un giorno me ne uscii con una cosa terrificante: “sono democristiano!”, detta lì era una bomba, un’eresia».
Anti-anticonformista.
«Scelta un po’ snob, costosa, ho fatto tanti film ma non ho mai fatto un blockbuster. Non ho fatto Ultimo tango. Premi, stima, sì, ma mai il film per il quale un Paese intero si ferma. Io sono molto competitivo. Ci terrei».
Continua a ripassare ogni sera il suo discorso per il premio Oscar?
«No, mi sono rassegnato, ma sono pacificato, ho ripetuto tante volte quel discorso che mi sembra di averlo preso davvero, l’Oscar».
Michele Smargiassi