Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 20/3/2015, 20 marzo 2015
COSTITUZIONE MODELLO MAASTRICHT
[Intervista a Fausto Bertinotti] –
Fausto Bertinotti è tornato. Non che fosse mai andato via, ovviamente. Ma con Colpita al cuore, il pamphlet che ha scritto per Castelvecchi, 115 pagine dense, non solo propone una lettura da sinistra della questione del lavoro, ma chiude con le parole, assai significative, di un proverbio ebraico: «Quando non vedi sentieri davanti a te, bisogna rimettersi in cammino».
Perché la sinistra non c’è più, spiega questo milanese classe 1940, una vita nel sindacato, nella politica con Rifondazione comunista e nelle istituzioni con la presidenza della Camera.
Domanda. Presidente, questo pamphlet o, come si sarebbe potuto dire una volta, questa lettera aperta...
Risposta. ...no, lettera aperta mi parrebbe davvero una formulazione troppo tenue (ride).
D. Ha ragione, questo libello esce praticamente in contemporanea ai decreti attuativi del Jobs Act. Coincidenza voluta, immagino...
R. Non così cercata come potrebbe sembrare, anche se il percorso di quella legge era prevedibile e previsto. Ma l’esito del Jobs Act, come scrivo, è solo l’atto conclusivo di un processo che dura almeno da 35 anni, quando cioè si sono messe nel mirino le conquiste degli anni ’70: lo Stato sociale, il contratto nazionale, la democrazia partecipata, lo Statuto dei lavoratori.
D. Si è cioè tradita la Costituzione che vuole, all’articolo 1, l’Italia fondata sul lavoro. Lei fa un po’ di ricostruzione storica, ricorda il dibattiti fra i padri costituenti, da Palmiro Togliatti a Giorgio La Pira, finché Amintore Fanfani fece la sintesi.
R. Fanfani portò ragione allora molta convincenti, tanto da persuadere lo stesso Togliati che voleva la «Repubblica democratica fondata sui lavoratori». Era più corretta, da un punto di vista linguistico, ma fu scarta una ragione di opportunità perché riecheggiava troppo la Costituzione sovietica del 1936.
D. Lei dice che se, oggi, si dovesse chiedere a un costituzionalista di riformulare il dettato sulla base della situazione di fatto, dovrebbe forse scrivere «fondata sul capitale» o sulla «parità di bilancio». Lei come lo riscriverebbe?
R. Direi che l’Italia è una nazione poco democratica fondata sul mercato e sull’attività economica.
D. Lei osserva anche che, dal ’94, con lo scontro politico berlusconismo-antiberlusconismo, il tema del lavoro, centrale fino a quel momento, finisce sullo sfondo. Però mi pare che ci si soffermi poco.
R. Lei ha ragione, ma lo faccio pour cause: sono convinto che questo elemento sia stato periferico. Il processo è mondiale: la Francia non ha avuto Silvio Berlusconi eppure è arrivata fin lì, la Germania idem e l’ha fatto con Gerhard Schroeder.
D. Però, per vent’anni, non abbiamo parlato che di Berlusconi, specialmente a sinistra.
R. C’è stato un slittamento, in effetti. Dallo scontro destra-sinistra, ci si è spostati su B. ed è accaduto, è vero, un oscuramento. Però, attenzione, c’è una sorta di relativa indifferenza alla natura politica della coalizione che governa.
D. In che senso?
R. Nel senso che, da un certo punto in poi, è il governo che determina la natura delle politiche. Mi spiego con un esempio: fino a Francois Mitterand, in Francia, la sinistra vinceva, prendeva l’esecutivo e faceva politiche diverse. Con la globalizzazione, questo elemento tende a scomparire: chi governa applica la costituzione di Maastricht, destra o sinistra che sia, non importa.
D. Ho visto che lei cita il giurista Giuseppe Guarino, che spiegò, proprio su ItaliaOggi, come il grande accordo europeo fosse un golpe giuridico. E oggi l’alternativa qual è?
R. Lei ricorderà certo Che Guevara e il suo «uno, due, tre, 100 Vietnam».
D. Già e oggi?
R. Oggi dico: «Un, due, tre, 100 Syriza».
D. Lei spera in Alexis Tsipras, dunque?
R. La Grecia di Tsipras è l’unica possibilità di cambiamento. Le Monde oggi titola che «Tsipras fa l’unità dell’Europa a Bruxelles. Contro di sé». Oggi c’è un recinto per chi governa, una competizione per chi vince e chi fa, mentre fuori c’è solo lo spazio per i populismi di diversa natura. Così ci sono solo governi più forti che si scelgono addirittura gli avversari. Syriza e, spero, anche Podemos, muovendo da sinistra, con un carattere di forza popolare, sono in grado di unire l’alto e il basso della società.
D. Veniamo all’Italia, presidente. Lei in questo libro parla pochissimo di Matteo Renzi, giusto due accenni, quasi cronachistici. È per evitare personalizzazioni?
R. Più che altro perché mi occupo di più degli assetti economici e sociali che si sono creati con la globalizzazione. E poi, sa, se non c’era Renzi, ci sarebbe stato qualcun altro a fare quello che lui ha fatto. Oggi la politica è ricondotta a una condizione servile. Renzi avrà pure i tratti nuovi, del conduttore, di colui che sa occupare la scena, ma si adegua.
D. Però devo farle notare che le leggi sul lavoro che più si scontrano con la sua visione le ha fatte la sinistra. Prima con Tiziano Treu e quindi con Renzi.
R. Ma la mia tesi è che la sinistra non ci sia più. C’è stata una mutazione genetica: oggi abbiamo solo una sinistra intercambiabile con qualsiasi altra forza di governo. Anche in Europa è così. In un tempo antico avrei detto questa sinistra ha tradito o tradisce se stessa. Oggi semplicemente che non c’è più, che ha progressivamente smesso di essere.
D. Oggi fuori da Syriza non c’è sinistra, insomma.
R. Se non per coazione a ripetere non si può più parlare di sinistra. Conta solo sei al governo o meno. Infatti Renzi l’ha capito.
D. In che senso?
R. Nel senso che usa una formula fuorviante come Partito della nazione, che vuole dire che è irrilevante il disegno programmatico, rilevante è appunto il governo. L’alpha e l’omega stanno nella governabilità. Siamo in un regime che, oltre l’alternativa, ha abrogato anche l’alternanza.
D. Però, presidente, per cambiare le cose, bisogna pure governare...
R. Sarebbe certamente così se la sinistra esistesse. Perché la sinistra c’è nella società ma non come soggetto politico. È così vero, quello che le sto dicendo, che basta guardare cosa succeda in America.
D. Vale a dire?
R. Che negli Stati Uniti, dove lo scontro è fra Democratici e Repubblicani, Barak Obama fa politiche di sinistra, come tentare innalzare il salario minimo e di introdurre una sanità pubblica. Oppure in tutto il continente sudamericano dove si è scelto di fare politiche diversa dall’austerità.
D. Anche Nicolas Maduro, di cui si denuncia l’illiberalità?
R. Anche Maduro, ma parlo qui dei processi economici soltanto. E si potrebbe discutere poi dell’efficacia anche di quelli, come di quelli del governo del Cile, ma il punto è un altro: c’è una parte del mondo che ha un’idea diversa sul fatto che il mercato allochi in maniera ottimale le risorse e che ci voglia un intervento regolatore dello Stato.
D. Dopo aver visto gli scatoloni della Lehman Brothers, però, ci si aspettavano politiche keynesiane un po’ dappertutto. In Europa non è stato così.
R. Non io, mi permetta, non me l’aspettavo affatto. Scrivendone sul Alternativa socialista, dissi che non ci si doveva aspettare certo una storia keynesiana nel Vecchio Continente.
D. E perché?
R. Perché in Europa, si era costruito un compromesso sociale, ossia un sistema di Welfare e un potere democratico forte, più che altrove. Conquiste che, da un quarto di secolo, gli Stati cercano di abbattere, pensando di guadagnare competitività alle merci.
D. E che quindi si sarebbe continuato a comprimere...
R. Era chiaro che, qui, una politica espansiva, come quella americana, non l’avremmo avuta mai. Che qui si sarebbe cercato di abbattere il poter di acquisto dei salari, ridurre il welfare, imbrigliare i sindacati. A meno di una rivolta sociale, come ci si poteva aspettare un cambiamento da quelli, di centrosinistra o di centrodestra, che avevano condotto quella stessa politica?
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 20/3/2015