Rodolfo Parietti, Soldi, il Giornale 3/2015, 19 marzo 2015
DOPO TRE ANNI DI SOFFERENZA CI SIAMO: RIPARTE L’ECONOMIA
Fino a qualche mese fa, l’Italia sembrava immersa in un presente nero come il petrolio e avviata verso un futuro post-apocalittico alla Cormac McCharthy. Tre anni di recessione ininterrotta, col Paese piantato sui blocchi di partenza mentre altri scattavano con rinnovato slancio, lasciavano in eredità numeri da brivido. Una disoccupazione montante, schizzata ben oltre il 13%; un fatturato industriale crollato di circa 70 miliardi di euro rispetto al 2011; e una ricchezza delle famiglie erosa di un altro 10%. Cifre drammatiche, sintesi perfetta di un’aumentata fragilità socio-economica di cui sono state in parte responsabili le politiche di austerità attuate per risanare le finanze pubbliche e per rientrare nella camicia di forza dei parametri di Maastricht. Numeri che appaiono tristemente paradossali a chi ricorda le troppe volte che al Paese sono state fatte balenare quelle «luci in fondo al tunnel», poi rivelatesi false come tanti fuochi fatui.
Ma con l’inizio del nuovo anno, il velo scuro che a fine dicembre ancora avvolgeva l’Italia sembra essere stato squarciato. Abituati da troppo tempo alle passate di matita rossa sulle stime di crescita, con gennaio abbiamo assistito al fenomeno opposto: Fondo monetario e Banca d’Italia hanno corretto al rialzo le rispettive previsioni. Il miglioramento dell’outlook tiene conto dei segnali di schiarita già intravisti nell’ultimo scorcio dello scorso anno, a cominciare dalla crescita zero del Pil tra settembre e dicembre che ha interrotto una lunga fila di segni negativi, dal calo del tasso di disoccupazione in dicembre (dal 13,3% al 12,9% del mese precedente)
e dal forte aumento della fiducia di imprese e consumatori segnalato dall’Istat, oltre che dalla crescita del mercato immobiliare, che nel terzo trimestre del 2014 ha fatto segnare un rialzo del 3,7% su base annua per le compravendite.
Questo ritrovato ottimismo, seppur velato dalle necessarie cautele, poggia su un fondamento: la cometa di Halley che per anni ha stazionato sull’Italia è stata ora soppiantata da una congiunzione economica tanto rara quanto favorevole per la ripresa. Di cui, però, il contributo nazionale appare ancora marginale. La riforma del mercato del lavoro, attraverso il Jobs Act, dovrebbe per esempio, nelle stime elaborate da Prometeia, garantire quest’anno la creazione di circa 110 mila nuovi posti e riposizionare il tasso dei senza-lavoro al 12%. In ogni caso, una spinta ancora insufficiente per garantire una ripresa sostenibile.
Se l’Italia riuscirà quindi a tornare sul sentiero della crescita, lo si dovrà in parte alla congiuntura internazionale e, in buona misura, alle più recenti mosse della Bce. La repentina caduta dei prezzi del petrolio, piombati dagli 80 dollari della scorsa estate agli attuali 40, offre opportunità impensabili fino a poco tempo fa, aperte dalla decisione dell’Opec di non tagliare la produzione. Poco importa se il mantenimento dei livelli di outupt, nonostante la sete calante di energia a livello mondiale, sia stato dettato dall’intento di estromettere dal mercato i produttori Usa di shale oil, oppure (tesi opposta) se sia una manovra concordata con l’America per mettere la Russia in ginocchio: ciò che più conta sono i risparmi che si prospettano in
termini di bolletta energetica, uno dei tradizionali piombi per l’economia italiana. I conti sono presto fatti: un prezzo medio nel 2015 di 60 dollari il barile alleggerirebbe la fattura di 28 miliardi, facendola scendere attorno ai 34 miliardi. Un sollievo, sotto forma di minori costi per il riscaldamento, elettricità e carburanti, per le famiglie. Che, con budget meno in sofferenza, avranno più risorse da liberare per i consumi.
Non solo. Il cheap oil avrà un impatto tutt’altro che trascurabile sulla nostra filiera industriale, grazie a un abbattimento dei costi di produzione di cui dovrebbero beneficiare in particolare settori come i trasporti e l’industria (farmaceutica e costruzioni su tutti).
In sostanza, l’effetto-petrolio a buon mercato dovrebbe dare un contributo al Pil dello 0,5%, una stima su cui agisce però come variabile-chiave il rapporto di cambio tra euro e dollaro, la moneta con cui sono espresse le quotazioni del greggio. L’indebolimento della moneta unica rispetto al biglietto verde è sotto gli occhi di tutti: l’estate scorsa l’euro flirtava con quota 1,50, ora oscilla tra 1,11 e 1,15. E la discesa potrebbe proseguire, fino a raggiungere quella parità che non si vede dal 2002, se la Federal Reserve alzerà i tassi di interesse al giro di boa di metà anno. Ma anche con il cambio ai livelli attuali, i vantaggi sono evidenti e ben sintetizzati dal +0,8% di apporto al Pil calcolato da Confindustria. Vantaggi, in termini di maggiore esportazioni, che saranno colti soprattutto dall’industria della moda, della meccanica, oltre ai comparti del legno-arredo, degli elettrodomestici e dell’elettronica.
Ma è soprattutto dal varo del programma di acquisto titoli di Stato da parte della Bce che ci si aspetta quell’impulso ulteriore alla nostra economia che certo non potrebbe arrivare dal piano Juncker, visto che dei 320 miliardi di cui si parla ben 300 dovranno essere messi a disposizione dai privati. Finora, Francoforte ha sparato cartucce a salve: non ha funzionato portare i tassi a zero e quelli sui depositi presso la Bce in territorio negativo; né i 1.000 miliardi regalati alle banche sotto forma dei prestiti Ltro; per non parlare del flop del Tltro, che nelle intenzioni doveva servire proprio ad aumentare il credito destinato all’economia reale. Il quantitative easing è appena partito, in questi giorni, con l’istituto guidato da Mario Draghi che ha iniziato a mettere sul piatto della ripresa e della lotta alla deflazione 60 miliardi al mese. Il programma, nel complesso, vale 1.140 miliardi, se dovesse durare i 19 mesi indicati dall’Eurotower. Sulla carta è però potenzialmente illimitato: proseguirà finché l’inflazione non sarà ritornata prossima al target del 2% fissato dall’Eurotower.
I primi effetti del bazooka monetario sono già visibili nell’abbattimento dei rendimenti sul nostro Btp decennale, lo «specchio» che riflette l’immagine che il mercato ha del nostro Paese. Con tassi ai minimi storici, il Tesoro sta già risparmiando sulla spesa per interessi: un solo punto percentuale in meno dei tassi d’interesse può ridurre dell’1,3% i tagli al deficit imposti all’Italia per stabilizzare il suo debito. In più, viene controbilanciato l’impatto deleterio che l’attuale situazione deflazionistica ha sui conti pubblici di un Paese fortemente indebitato.
La manovra di stimolo, fortemente osteggiata dalla Bundesbank che la considera una forma mascherata di aiuti agli Stati, è stata però concepita senza quella condivisione dei rischi chiesta con forza anche dall’Italia. La Bce si accollerà solo il 20% del rischio, lasciando il residuo 80% sulle spalle delle singole banche nazionali. Ciò costringerà Bankitalia a provvedere con i necessari accantonamenti. Non è certo se le misure di stimolo andranno a impattare subito sul ciclo economico. La Fed, per esempio, ebbe bisogno di ben tre round di Qe prima di vedere muoversi qualcosa. Standard&Poor’s ha comunque stimato che la mossa di Draghi darà un apporto alla crescita dello 0,5%, soprattutto grazie alla leva virtuosa alle esportazioni offerta dal deprezzamento dell’euro. È inoltre probabile un effetto espansivo sul credito alle imprese e sui mutui che dovrebbe derivare dalla fetta di Qe che sarà messa a disposizione dell’Italia: si tratta di 130 miliardi, calcolati sulla quota nel capitale della Bce detenuta da Roma (il 12,3%). A patto, però, che le banche – alcune alle prese con i sempre più stringenti vincoli imposti dall’Autorità di vigilanza europa, altre con un crescente numero di sofferenze – non utilizzino i proventi generati dalla vendita di Btp alla Bce per migliorare i bilanci.
Pur nella consapevolezza che sulle macerie lasciate dalla recessione non sarà facile ricostruire, e tenuto conto delle mine geopolitiche (terrorismo islamico, Libia, conflitto russo-ucraino), ci sono tutte le condizioni per lasciarci alle spalle uno dei periodi economici più diffìcili dal secondo dopoguerra. Se sarà «la volta buona», come dice Renzi, lo sapremo presto. Incrociamo le dita.