Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 19/3/2015, 19 marzo 2015
RISCHIAMO LA REPLICA DEL CAOS LIBICO
L’attentato al Museo del Bardo, con l’ombra del Califfato, è l’urlo lacerante e doloroso di una sirena d’allarme che suona anche per noi. Se insieme alla Libia dovesse saltare o essere gravemente destabilizzata anche la Tunisia, perderemmo mezzo Nordafrica di fronte alle nostre coste e un pezzo di continente.
Questi Paesi e i loro popoli non sono “vicini distanti” perché arabi e musulmani ma dei confinanti a stretto contatto di mare. Non possiamo lasciarli soli contro il terrore, anche noi ci andiamo di mezzo.
La giovane e ammirevole democrazia tunisina ha sviluppato in questi anni gli anticorpi per resistere ai jihadisti ma deve essere sostenuta dall’Europa per evitare un altro caos come quello libico: dopo il precipitoso intervento internazionale contro Gheddafi nel marzo 2011 la Libia fu abbandonata al suo destino e i risultati che abbiamo avuto sono stati un Paese con frontiere fuori controllo, l’immigrazione clandestina dilagante e ora anche il Califfato, con relative minacce alla nostra sicurezza.
Perché la Tunisia è importante e i jihadisti l’hanno puntata? Tutto è cominciato proprio qui, lontano dai riflettori, quando in un’oscura località dell’interno, Sidi Bouzid, il 17 dicembre del 2010 il giovane ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco per protesta. Fu l’inizio della primavera araba.
Cinque anni dopo la Tunisia è cambiata radicalmente dal punto di vista del regime politico ma la condizione dei giovani rimane drammatica: il 40-50% sono senza un vero lavoro e il turismo, preso di mira ieri nel cuore di Tunisi, è ancora uno dei pochi serbatoi di occupazione. I jihadisti sanno dove colpire e fare maggiore danno.
Con la rivoluzione dei Gelsomini e la caduta del dittatore Ben Alì nel gennaio 2011 i tunisini hanno dato il via a una stagione di rivolte arabe: questa è l’unica sopravvissuta al caos e al sangue che hanno travolto il resto del mondo arabo.
Ma la Tunisia è piccola, non ha petrolio, anche se ci passa un pezzo del gasdotto algerino verso l’Italia, non attira i grandi investimenti ma soprattutto le piccole e medie imprese (tra le straniere 800 sono italiane), non batte i pugni sul tavolo alle conferenze internazionali, collabora con noi sul controllo dell’immigrazione e non ricatta nessuno. Ha inviato persino dei soldati nelle missioni all’estero e un tempo qui la Cia ci mandava i suoi agenti a imparare l’arabo.
La Tunisia è civile, democratica, rispetta l’Islam ma ha una grande tradizione laica e secolarista che iniziò subito dopo l’indipendenza dalla Francia con il presidente Habib Bourghiba che tolse il velo alle donne e concesse il divorzio prima che da noi. Persino gli attuali leader del Partito islamico Ennhada come Rashid Gannouchi hanno capito, dopo un’iniziale tollerenza, che estremisti islamici, salafiti e jihadisti sarebbero stati un pericolo anche per loro.
La Tunisia è il maggiore nemico arabo del terrorismo e dell’estremismo perché è un modello di compromesso e moderazione dove i laici, vincitori delle ultime elezioni, stanno al governo insieme al partito islamico: la Tunisia è tutt’altro che perfetta ma ci prova seriamente a essere democratica.
Per questo vogliono colpirla. Ci hanno provato diverse volte in questi ultimi quattro anni, con gli omicidi di personalità laiche come Choukri Belaid e Mohammed Brahmi, poi i salafiti hanno messo a ferro e fuoco l’Università di Tunisi issando la bandiera nera di
Al Qaeda mentre i predicatori venuti da Kuwait e Arabia Saudita hanno provato in tutti i modi a infiammare le piazze con i loro sermoni radicali. Sono stati tutti respinti dall’arco costituzionale dei partiti e dalla popolazione.
Ma il radicalismo in Tunisia
si è insinuato ugualmente sfruttando la precaria situazione sociale della gioventù locale e alcuni eventi epocali che hanno sconvolto
il Medio Oriente. I giovani tunisini si sono arruolati a migliaia (si stima 4mila) per andare a combattere in Iraq contro gli sciiti e in Siria contro il regime di Bashar Assad, poi hanno aderito anche ai gruppi radicali libici in espansione. Molti sono tornati dall’estero e le cellule jihadiste, anche quelle affiliate al Califfato, si sono moltiplicate, come dimostrano gli scontri e i recenti arresti, approfittando della porosità dei confini con la Libia.
Aiutare la Tunisia, come ha promesso di fare nella sua recente visita anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, non significa mandare le forze armate ma collaborare strettamente con l’intelligence, inviare specialisti della sicurezza, mezzi e finanziamenti destinati a risollevare i bilanci dello stato e la condizione economica.
La Tunisia è vulnerabile e l’Europa si deve muovere: o vuole forse replicare il disastro libico?