Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 19 Giovedì calendario

1945, QUEL BISOGNO OSSESSIVO DI NORMALITA’

Qualcosa, nella vita di mio padre, mi ha lasciato a lungo sconcertato. L’esperienza della seconda guerra mondiale non fu particolarmente insolita per un uomo della sua età e del suo ambiente: ce ne furono di molto peggiori. Fu però un’esperienza abbastanza brutta. Quando lo sentii parlare per la prima volta della guerra ero molto giovane. A differenza di altri, non era reticente al riguardo, benché certi ricordi dovessero essere dolorosi da richiamare alla mente. E a me piaceva ascoltarli. C’erano anche delle «illustrazioni».
Non ci sono fotografie che lo ritraggano sul punto di morire per la fame e la spossatezza, tormentato dai parassiti, costretto a usare come latrina comune, oltre che unico bagno disponibile, il cratere lasciato da una bomba, pieno d’acqua. Non erano tuttavia questi stenti a sconcertarmi. Era qualcosa di accaduto più tardi, dopo il suo ritorno a casa.
Casa era Nimega, città dell’Olanda orientale a maggioranza cattolica nelle cui vicinanze, nel 1944, si combatté la battaglia di Arnhem. (...) Dalla casa di mio padre si poteva andare in Germania a piedi e, siccome la Germania era piuttosto a buon mercato, la maggior parte delle vacanze in famiglia venivano trascorse oltre il confine, almeno fino a quando, intorno al 1937, la presenza nazista divenne insopportabile anche per i turisti. (...) La vita continuò, anche sotto l’occupazione tedesca. E per la maggior parte degli olandesi, a condizione che non fossero ebrei, rimase una vita stranamente normale, almeno nei primi due anni circa. Nel 1941 mio padre andò a studiare legge all’università di Utrecht. (...) I brutali rituali del nonnismo riservati ai nuovi membri dovevano svolgersi in segreto. Gli studenti del primo anno, noti nel corpo come «feti», non erano più costretti a radersi la testa, cosa che li avrebbe traditi agli occhi dei tedeschi, ma era ancora consuetudine farli saltellare di qua e di là come rane, privarli del sonno, trattarli da schiavi e umiliarli con tutti i disparati giochi sadici che la fantasia dei veterani potesse ideare. (...) All’inizio del 1943 i giovani furono sottoposti a un’altra, più severa prova. Gli occupanti tedeschi ordinarono a tutti gli studenti di firmare un giuramento di fedeltà, impegnandosi ad astenersi da qualsiasi azione contro il Terzo Reich. Coloro che si fossero rifiutati sarebbero stati deportati in Germania, dove avrebbero dovuto lavorare per l’industria bellica nazista. Mio padre, come l’85 per cento dei suoi compagni, rifiutò e si nascose.
Lo stesso anno, un po’ dopo, la resistenza studentesca di Utrecht lo esortò a tornare nella sua città natale. (...) Mio padre arrivò alla stazione accompagnato da suo padre. Purtroppo i nazisti avevano scelto proprio quel momento per radunare i giovani da mandare a lavorare in Germania. Le banchine erano bloccate a entrambe le estremità dalla polizia tedesca, che minacciava i genitori di ritenerli responsabili di eventuali fughe. Così, per il timore di mettere nei guai i suoi, mio padre accettò di partire. Fu un atto ponderato, ma non particolarmente eroico, che lo mette ancora a disagio, a volte. Insieme con altri uomini fu portato in un piccolo, osceno campo di concentramento, dove criminali olandesi venivano addestrati da uomini delle Ss nelle brutali tecniche che erano la loro specialità. Dopo avere passato lì un breve periodo, trascorse il resto della guerra lavorando a Berlino in una fabbrica che produceva freni ferroviari. (...) Nell’aprile 1945 il campo di lavoro era divenuto ormai inabitabile: tetti e muri erano stati spazzati via dal vento e dal fuoco. Tramite un contatto, ottenuto forse grazie a una delle chiese protestanti meno nazificate, mio padre trovò rifugio in una villa in periferia. (...) Una fotografia, scattata in Olanda oltre sei mesi dopo, lo mostra ancora gonfio per l’edema dovuto alla denutrizione. Indossa un abito fuori misura, forse quello che aveva ricevuto da un’organizzazione caritatevole degli Stati uniti, con delle macchie di urina sui pantaloni. O forse era un vecchio vestito di suo padre. Eppure, nonostante il gonfiore e un certo pallore, ha un’aria abbastanza allegra. Intorno a lui alcuni suoi coetanei che, con i boccali di birra alzati, le bocche spalancate, sembrano gridare di gioia o cantare canzoni studentesche. Doveva essere il settembre 1945. Mio padre aveva ventidue anni ed era tornato nel corpo studentesco dell’università di Utrecht. Poiché durante la guerra le iniziazioni al corpo erano avvenute in segreto, alcuni veterani dell’associazione avevano deciso che quei riti del nonnismo dovessero essere ripetuti. Mio padre non ricorda di essere stato costretto a saltellare come una rana, o di essere stato pestato duramente. Questo tipo di trattamento era riservato ai ragazzi più giovani, appena arrivati all’università; alcuni, magari, da campi ben peggiori del suo. E non è escluso che fra costoro vi fossero studenti ebrei rimasti per anni nascosti sotto le assi del pavimento di case di coraggiosi «gentili» pronti a rischiare il collo. Ma nessuno, nel ricordo di mio padre, si preoccupava per cose del genere; nessuno era interessato a storie personali, di ebrei o di chiunque altro; ognuno aveva la propria storia personale, spesso sgradevole. Per iniziarli al corpo, ai nuovi «feti» si urlava in faccia, li si umiliava, si arrivava persino ad ammassarli in cantine anguste (una pratica che in seguito, nelle associazioni studentesche, sarebbe divenuta nota come «giocare a Dachau»).
Proprio questo mi sconcertava. Come aveva potuto mio padre tollerare un comportamento così grottesco, dopo tutto quello che aveva passato? nessuno lo trovava – per usare un eufemismo – bizzarro? No, mi rispondeva ripetutamente mio padre. No, sembrava normale. Si faceva così. Nessuno lo metteva in discussione. Più tardi corresse il tiro dicendo che lui avrebbe trovato fuori luogo maltrattare un ebreo sopravvissuto, ma non poteva parlare per gli altri.
La cosa mi ha sconcertato a lungo, ma, poco a poco, credo di essere arrivato a capire. Una chiave mi sembra offrirla l’idea che quel comportamento fosse «normale». La gente era così ansiosa di tornare a quel mondo che aveva conosciuto prima dell’occupazione nazista, prima delle bombe, dei campi e delle stragi, che angariare i «feti» sembrava normale. Era un modo per tornare a come andavano le cose prima; un modo, per così dire, per tornare a casa.
© Ian Buruma
2013 e Mondadori Libri, 2015.
Traduzione di Massimo Parizzi