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 2015  marzo 19 Giovedì calendario

LE NORDCOREANE SCUOTONO IL «REGNO EREMITA»


La comparsa, nella primavera del 2012 di una giovane donna elegante a fianco del presidente Kim Jong-un – più tardi si è appreso che è il suo nome è Ri Sol-ju e che è sua moglie –, era destinata a dare del regime un’immagine più moderna. Questa presenza femminile girava pagina rispetto al mistero che aveva circondato la vita privata del padre, Kim Jong-il (morto nel dicembre 2011), raramente visto con le sue compagne. La discreta eleganza di Ri Sol-ju non è affatto straordinaria, come testimoniano diverse giovani donne, nei luoghi frequentati dai nuovi strati privilegiati.

Nelle strade, l’abbigliamento femminile è diventato più vario e colorato. I tacchi alti e le zeppe sono frequenti, anche ai piedi di giovani soldatesse in licenza. L’influenza della moda cinese è evidente sugli scaffali dei negozi di Stato: ormai il principale produttore di scarpe, Pothongang, lancia sul mercato modelli adatti a una clientela più esigente. Molto di moda i capelli corti, come quelli delle artiste del popolare gruppo di musica pop Moranbong Band (giacche militari, berretti all’indietro e gonne strette a metà coscia), o leggermente schiariti. La Repubblica popolare democratica di Corea (Rpdc) cerca di darsi un volto più avvenente e manda gruppi di ragazze nei propri ristoranti all’estero (Cina, Cambogia...), e ragazze ponpon durante le manifestazioni sportive. La televisione trasmette continuamente concerti di gruppi femminili di musica pop; Air Koryo, la compagnia nazionale, fa lo stesso sugli aerei.

La «nuova donna» coreana rivoluzionaria ma anche femminile

È il miraggio di Pyongyang, vetrina di un paese nelle cui province si vive spesso in povertà e dove l’immagine femminile non evolve affatto? Non solo. Per via della chiusura delle frontiere, della scarsità di informazioni e dell’assenza di contatti diretti fra i visitatori e la popolazione, cogliere la realtà nel paese è una specie di puzzle: pezzo dopo pezzo, visita dopo visita, sotto la cappa di un regime immutato si intravvede un’evoluzione della società. Ne sono un riflesso gli abiti, gli accessori e il comportamento delle donne della capitale, ma anche le attività femminili in tutto il paese.

La «nuova donna» coreana nata dalla liberazione nel 1945 doveva certo essere rivoluzionaria, ma anche «rimanere femminile», come esortava ancora nel 1989 il padre della patria Kim Il-sung sulla rivista Choson Nyosong («Donne della Corea del Nord»). Secondo Helen-Louise Hunter, che ha lavorato come analista per la Central Intelligence Agency, le nordcoreane «hanno mantenuto il fascino femminile, più delle cinesi e delle sovietiche (1)». Il loro abbigliamento è sempre stato più vario rispetto a quello della Cina maoista, dove le figure femminili sui manifesti erano para-maschili, con capelli corti e forme gommose. Nella Rpdc, esse apparivano talvolta in abito tradizionale, le caviglie scoperte per camminare meglio. A partire dalla fine degli anni 1960, il regime invita a portarlo nelle grandi occasioni, perché simboleggia la continuità fra passato e presente. Nella vita di tutti i giorni la maggior parte delle operaie, contadine o casalinghe sono vestite all’occidentale, i capelli legati, con la permanente o coperti da un foulard (2).

«La Rpdc non è mai stata un “regno eremita” in materia di abiti», fa notare Andrei Lankov, dell’università Kookmin a Seul, che ha vissuto a Pyongyang negli anni 1980. Ma la moda era certo castigata. Il timido arrivo della moda cinese contemporanea all’inizio del nuovo millennio ha determinato un irrigidimento della propaganda, attenuatosi poi negli ultimi anni. Dal 2002, a Pyongyang ogni autunno si tiene una sfilata di moda; nel corso dell’ultima, nel settembre 2014, sono stati presentati vaporosi abiti tradizionali dai colori più vivaci che mai e tailleur che ricordavano il classicissimo «stile Chanel» degli anni 1960.

Al di là del loro abbigliamento, le coreane sono diventate una forza viva della società con sviluppo di un’economia di mercato de facto, nata dalla ricerca della sopravvivenza durante la carestia (1995-1998). Nel campo politico, continuano a essere poco presenti ai vertici del potere. C’è Kim Kyong-hui (sparita dalla scena dopo l’esecuzione di suo marito, Jang Songtaek, nel dicembre 2013), e la sorella minore di Kim Jong-un, Kim Yo-jong, promossa lo scorso novembre, a 27 anni, alla carica di vicedirettrice del dipartimento della direzione e dell’organizzazione del Partito del lavoro; secondo altri osservatori, sarebbe vicedirettrice del dipartimento mobilitazione e propaganda del partito. Nel 2002 (ultime statistiche conosciute), le donne occupavano un po’ meno di un quarto dei seggi all’Assemblea popolare suprema e solo il 4,5% dei posti al comitato centrale del partito del lavoro.


Promotrici di un’economia parallela autogestita

Ma «il nuovo capitalismo nordcoreano ha senza dubbio un volto femminile», commentava Lankov già nel 2004. Dieci anni dopo, il fenomeno si è consolidato. Le donne erano state le grandi vittime della carestia – alle privazioni e alla fame si erano aggiunte violenze sessuali, aborti forzati e sevizie di diverso tipo (3). A causa di queste prove, esse hanno acquisito una maggiore indipendenza, più peso nella famiglia e una maggiore coscienza dei loro diritti, sostiene la ricercatrice Park Kyung-ae (4).

Le attività parallele, proteiformi e incuneate nella moribonda economia di Stato, sono nate come pressione dalla base. Dopo aver cercato di sopprimere quest’effervescenza mercantile, il regime, cosciente dell’impossibilità di un ritorno indietro, si mostra ormai più flessibile e cerca bene o male di combinare le rigidità della pianificazione con il dinamismo dell’economia di mercato (5). La sfera delle attività autonome (commercio, servizi, produzione) rappresenta una parte importante e tuttavia difficilmente quantificabile del prodotto nazionale (6).

Questa economia parallela ha diversificato gli interessi di una società in passato relativamente egualitaria, facendo emergere una nuova classe «privilegiata» (imprenditori, intermediari, commercianti, venditori al dettaglio) andata a ingrossare le fila dell’élite tradizionale (burocrati, alti funzionari discendenti perlopiù dai partigiani che lottarono con Kim Il-sung contro i giapponesi). Quanti sono? In assenza di dati, dobbiamo accontentarci di indicazioni frammentarie, come il numero di cellulari: 2,5 milioni nel 2014. In altri termini, un abitante su dieci dispone dei 200 o 300 dollari necessari a procurarsi uno di questi apparecchi.

I negozi di Pyongyang testimoniano delle nuove stratificazioni sociali: a quelli dello Stato, meglio forniti rispetto al passato, si aggiunge una decina di mercati coperti strapieni di generi alimentari e prodotti importati (da Cina, Singapore, Corea del Sud...), che attirano una folla di compratori (quelli che hanno i mezzi) e curiosi. Nei negozi di alta gamma, gli scaffali pieni di alcolici, cosmetici e abiti d’importazione fanno dubitare dell’efficacia delle sanzioni internazionali che dovrebbero colpire l’esportazione verso la Rdpc di prodotti detti «di lusso». I prezzi sono astronomici per la maggior parte della popolazione, ma non sono un ostacolo agli acquisti. E a tutti i livelli di questa economia parallela, si trovano donne.

Dal punto di vista delle leggi, la Rdpc è stata un paese pioniere in Asia: in termini di diritti civili e politici, le nordcoreane sono uguali agli uomini (istruzione gratuita, libera scelta del marito, diritto al divorzio e alla successione). Dopo la riforma agraria del 1946, le terre furono redistribuite a ogni nucleo familiare di contadini, indipendentemente dal genere del capofamiglia, minando le basi materiali del patriarcato. La donna fu liberata dai doveri tradizionali imposti da una società di impronta confuciana: il matrimonio non era più una faccenda di accordi tra famiglie; il partito avrebbe favorito il matrimonio «fra compagni».

Il regime, progressista sul piano dei principi, si mostrò conservatore nella concezione dei ruoli di genere. L’emancipazione fu subordinata alla costruzione del socialismo. La «nuova donna», rivoluzionaria, doveva essere anche «buona moglie» e «buona madre» – questa figura sarebbe diventata il «modello della cittadina rivoluzionaria» (7).

Dopo la guerra di Corea (1950-1953), la partecipazione delle donne alla ricostruzione del paese non rimase sul piano teorico: bisognava porre rimedio alla penuria di manodopera dovuta all’insufficienza di uomini, molti dei quali erano morti in guerra. Negli anni 1950-1960, le donne dovettero contribuire alla produzione, seguire le sessioni di indottrinamento ideologico, assumere i servizi pubblici di vicinato, assolvere ai compiti domestici, generare figli... Poi l’accento messo sull’Industria pesante ridusse la disponibilità di posti di lavoro, e le donne furono relegate a lavori subalterni.


Le madri, grandi eroine del regime

Con la stagnazione economica alla metà degli anni 1980, molte rinunciarono a lavorare dopo il matrimonio per dedicarsi all’educazione dei figli e alla gestione della casa. E la propaganda cominciò a promuovere un concetto più tradizionalista della donna, incoraggiata a procreare. L’immagine della madre, a incarnare virtù come bontà, semplicità, affetto veniva associata al Partito del lavoro, mentre la famiglia diventava metafora dello Stato. Le grandi eroine del regime sono madri: quella di Kim Jong-il, Kim Jong-suk, «madre della rivoluzione» e quella di Kim Il-sung, Kang Pan-sok, così come anonime e meritevoli operaie e madri.

Prima della carestia, le donne rappresentavano circa metà della popolazione attiva. Nel caos, diventarono un perno per la sopravvivenza del paese. Mentre gli uomini pensavano che la penuria alimentare sarebbe stata temporanea e, secondo l’espressione usata da una rifugiata a Seul, «abbaiavano alla luna», le donne presero l’iniziativa, anche facendo perdere la faccia a certi mariti, impotenti capifamiglia. Le casalinghe si lanciarono nel piccolo commercio di vicinato e quelle che lavoravano dovettero affrontare un dilemma: assolvere alle proprie responsabilità come madri o agli obblighi professionali; un tormento ben presente nei romanzi degli inizi del primo decennio 2000 (8).

I mercati contadini, diventati grandi mercati neri, furono il primo teatro della loro azione. Iniziarono a vendere o scambiare con cibo i pochi beni della famiglia: attrezzi, stoviglie, mobili, vestiti. Poi, nelle stradine defilate, fra i blocchi di palazzi o sui marciapiedi, si misero a vendere legna da ardere, erbe medicinali, ortaggi provenienti dai piccoli appezzamenti privati, dolcetti preparati a casa e via dicendo. Altre proponevano piccoli servizi: parrucchiere, calzolaie, sarte... Dall’alba, lunghe file di contadine, con le spalle curve sotto i pesi, si dirigevano verso le città. Alcune facevano lunghi tragitti a piedi, o strette l’una contro l’altra nei cassoni dei camion. Le donne sono tuttora attive nell’ambulantato: eccole cariche di enormi balle sui marciapiedi delle stazioni, come a Sinuiju, città alla frontiera con la Cina e «imbuto» attraverso il quale transita la maggior parte degli scambi, leciti e illeciti, fra i due paesi. Le donne hanno mantenuto il controllo sul commercio al dettaglio (o la vendita in fretta e furia), sulla ristorazione e sui servizi (9).

Ma il retaggio confuciano si fa ancora sentire. «Nel Nord, il patriarcato è tuttora radicato», spiega una rifugiata quarantenne arrivata a Seul nel 2011. «E anche qui permane questo genere di atteggiamento.» Questo fa la fortuna delle agenzie matrimoniali specializzate nelle unioni fra nordcoreane e sudcoreani. Sulla base dell’antico adagio «uomo del Sud e donna del Nord» (nam nam buk nyo), che indica in questa l’unione perfetta, i sudcoreani che trovano le loro compatriote «aggressive» preferiscono sposarsi con rifugiate.

La maggior parte delle nordcoreane non contesta questa posizione, perché secondo loro è il modo migliore per garantire la pace in casa, tuttavia spesso sono loro la principale fonte di reddito della famiglia; e il loro peso è aumentato (10). I più giovani non considerano più il matrimonio come un obbligo e lo ritardano il più possibile, dicono alcuni rifugiati.

Il caos della fine degli anni 1990 e degli inizi degli anni 2000, inoltre, si è tradotto in una relativa liberalizzazione dei rapporti fra i generi, percepibile ad esempio nella letteratura. Nel passato, gli scrittori mettevano l’accento sull’intesa ideologica della coppia. In seguito hanno iniziato a evocare l’innamoramento, l’emozione, e in filigrana il desiderio. Infine, sono apparse donne appassionate, determinate a sposare l’uomo sul quale hanno messo gli occhi (11).

L’emancipazione dei corpi e degli spiriti è ancora timida

Sono arrivati i divorzi, praticamente inesistenti fino agli anni 1970, e il loro numero è in aumento. Poiché la forma consensuale non è riconosciuta, il modo più semplice è evocare il «comportamento reazionario» del marito. Tuttavia la donna divorziata va incontro alla pubblica riprovazione: il divorzio rimane un atto sociale e non una questione privata, sottolinea Patrick Maurus nella prefazione alla traduzione del romanzo di Baek Manryong, Des amis (Actes Sud, 2011). Le rifugiate, al pari, indicano che casi di separazione sono provocati da un aumento delle violenze domestiche.

Inoltre, le donne durante i loro spostamenti sono vessate dalle forze dell’ordine che pretendono prestazioni sessuali per chiudere un occhio su infrazioni di poco conto. Le aggressioni e le molestie – in genere non riferite dalle vittime – nelle fabbriche e nell’esercito si sono moltiplicate, secondo le donne rifugiate al Sud. Dopo la decimazione dovuta alla carestia, il potere ha condotto una campagna sulla necessità di procreare, il che si è tradotto in una maggiore difficoltà nel reperire i contraccettivi. Gli ospedali tendono a non praticare l’aborto (ufficialmente legale), sono aumentate le interruzioni di gravidanza clandestine, con i rischi che comportano. Sembrano anche essere più diffuse le malattie veneree dovute alla prostituzione occasionale.

Le nordcoreane sono riuscite a utilizzare il caos della fine degli anni 1990 per ritagliarsi spazi di autonomia (12). Hanno resistito quando il regime ha fissato a 50 anni il limite di età per le venditrici ambulanti: ci sono state manifestazioni nell’ottobre 2007 a Hoeryong e nel marzo 2008 a Chongjin. Questa dissidenza civile, limitata, rivela comunque una solidarietà fra donne che non esitano a lanciarsi in un’embrionaria azione collettiva. Le coreane del Nord, prigioniere della tradizione, che le sottomette, e della rivoluzione, che le ha «liberate» facendone poi le guardiane della famiglia, lentamente si liberano di questi vincoli.

PHILIPPE PONS



Note:
1. Helen-Louise Hunter, Kim Il-song’s North Korea, Praeger Publisher, Westport (Etats-Unis), 1999.
2. Cf. Koen De Ceuster, «On representation of women in North Korean propaganda posters», International Convention of Asia Scholars, Adélaïde (Australie), 2009.

3. Lucia Jang, Susan McClelland, Stars Between the Sun and Moon: One Woman’s Life in North Korea and Escape to Freedom, Douglas & Mclntyre. Madeira Park (Canada), 2014.
4. «Economic crisis: Women’s changing economic roles, and their implications for women’s status in North Korea», The Pacific Review, vol. 24, n. 2, San Diego (Stati uniti), maggio 2011.
5. Si legga Patrick Maurus, «La Corea del Nord vuole essere dragone», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2014.
6. Nel 2013, l’ammontare delle attività sul mercato parallelo era valutata dall’Ibk Economic Research Institute fra 1 e 3 miliardi di dollari.
7. Suzy Kim, Everyday Life in the North Korean Revolution, 1945-1950, Cornell University Press, Ithaca, 2013.
8. Cfr. Patrick Maurus, «Héroïnes de Corée du Nord», in Béatrice Didier, Antoinette Fouque e Mireille Calle-Gruber (a cura di), Le Dictionnaire universel des créatrices, Des Femmes, vol. 3, Parigi, 2013.
9. Cfr. Stephan Haggard, Marcus Noland, «Gender in transition: The case of North Korea», East-West CenterWorking Papers, n. 124, Honolulu, novembre 2011.
10. Jin Woong Kang, «The patriarchal state and women’s status in socialist North Korea», Graduate Journal of Asia-Pacific Studies, vol. VI, n. 2, 2008.
11. Lim Soon-hee, «Value changes of the North Korean new generation and prospects», Korea Institute for National Unification, Seul, 2007.
12. Lee Mi-kyong, Ku Su-mi, «The life and consciousness of North Korean urban women after the economic crisis». North Korean Studies Review, vol. 8, n. 2, Detroit (Stati uniti), 2005.
(Traduzione di Marinella Correggia)