Piero Schiavazzi, Limes: Moneta e impero 2/2015, 18 marzo 2015
IL TESORO DEL PAPA
1. «Da credente dico che mi piace un papa che come prima cosa prega e fa pregare. E spero che quel suo appello a una Chiesa povera e per i poveri si realizzi anche nei sacri palazzi, dove magari sarebbe bello ci fosse un po’ meno politica e finanza e un po’ più fede e carità. Se anche sciolgono lo Ior, insomma, noi ce ne facciamo una ragione».
Il 18 marzo 2013, alla vigilia della cerimonia d’insediamento, mentre Matteo Renzi da Palazzo Vecchio dettava via tweet a Francesco il programma economico del pontificato, il papa era intento a ricevere la presidente argentina Cristina Kirchner, venuta a Canossa per sorseggiare il mate più amaro della propria vita e rendere omaggio al suo più grande oppositore. Di cui, a differenza del sindaco di Firenze, conosceva l’astuzia, la finezza e la concretezza.
A distanza di due anni, lasciate le rive dell’Arno, da presidente del Consiglio Renzi ha visto il suo auspicio inverato a metà. Per effetto della cura Bergoglio nei «palazzi» trova di sicuro più carità e più fede. Ma pure, contrariamente alle aspettative, più politica e più finanza. Sicuramente meno Italia.
Lo Ior (Istituto per le opere di religione), in luogo di essere sciolto, ha sciolto il legame con il sistema bancario italiano, di cui costituiva un asset pregiato e sostanzialmente integrato, ancorché formalmente non integrante; una filiazione mirabile e miracolosa in grado di moltiplicare i pani e i pesci, un’enclave profana in terra consacrata. Ha reciso d’emblée il cordone ombelicale, trasferendo in rapida progressione i terminali dell’operatività, che si avvale come noto di banche corrispondenti, dal momento che l’Istituto non possiede sportelli fuori dal Vaticano.
Il pellegrinaggio dei depositi verso i santuari creditizi tedeschi e americani descritto da Limes un anno fa può ritenersi completato. Rimane in terra italica niente più che un salvadanaio da cento milioni, per le piccole spese. Mentre i conti si spostavano all’estero, manager stranieri occupavano i posti che contano: finanze in uscita, finanzieri in entrata. Non è azzardato concludere che l’Italia, nei fatti, ha perso una banca, sulla scia delle aziende e dei marchi che cedono alla lusinga monetaria e vengono conquistati dai gruppi multinazionali.
Con il cambio della guardia è sceso altresì di mezzo miliardo (da 1.200 a 700 milioni) l’acquisto di buoni del Tesoro e altri titoli del debito pubblico italiano, che non esercitano alcuno charme sul neopresidente dello Ior, l’aristocratico di ascendenze yankee e genealogie transalpine Jean-Baptiste Douville de Franssu, cresciuto alla scuola dell’americana Insvesco e sincronizzato sul ritmo dei fondi strategici. Il Vaticano è così tornato nella zona alta, sprovincializzando il gioco e internazionalizzando la squadra, dopo la crisi di spogliatoio che l’aveva precipitato a metà classifica. La direttiva di avanzare verso le periferie, traslata dai convegni pastorali alle lavagne geopolitiche, rivela un disegno espansionistico e porta la Chiesa inevitabilmente a scontrarsi con le potenze di turno.
Sulla scia del secondo millennio, anche il terzo esordisce all’insegna del conflitto tra papato e impero, nella variante anonima e plurima degli «imperi sconosciuti», che privi di anima popolare asserviscono le democrazie, ridotte a «sistemi uniformanti di potere finanziario». Bergoglio contesta visceralmente la legittimità dello schema, in una versione postmoderna della lotta per le investiture, scandita negli ultimi mesi da un crescendo di pronunciamenti a tutto campo, tra piazza e istituzioni: dall’incontro del 28 ottobre con i campesinos delle Ande a quello del 25 novembre con i peones del Parlamento europeo. Scenario che a più di un cardinale fa tremare i polsi, spogli peraltro di gioielli, da quando l’oro è andato fuori corso tra le porpore.
La guerra mondiale alle centrali del capitalismo globalizzato e alla loro colonizzazione ideologica, che il pontefice ha dichiarato ad onta del proprio pacifismo, non solo presuppone un pensiero egemonico, ma impone un arsenale operativo e un laboratorio sperimentale. Non basta teorizzare l’alternativa, bisogna metterla in pratica e prefigurarla concretamente, conformemente al principio fondante dell’utopia pragmatica di Bergoglio: «La realtà è superiore all’idea».
In tale prospettiva, la peggiore «menzogna» consisterebbe nel rassegnarsi e rinunciare, «quasi che le promesse del Vangelo non si possano attuare, siano irreali», ha ribadito al Riza Park di Manila il 18 gennaio, consacrando il suo impegno al cospetto di sette milioni di azionisti: la più colossale assemblea di base nella storia dei pontificati. Davanti alle attese delle periferie diseredate, l’emulo di Francesco non poteva permettersi il lusso pauperistico di rinunciare all’eredità. Di fronte all’economia «che uccide», secondo la definizione cruenta dell’Evangelii gaudium, testé riproposta nel videointervento all’Expo delle idee, il discepolo di sant’Ignazio non intende presentarsi disarmato.
Se la Chiesa insomma vuol essere «la mano che tiene aperta la porta tra cielo e terra» per mostrare che «Dio non è indifferente al mondo», come scrive nel Messaggio per la quaresima 2015, la sua libertà di manovra non deve dipendere dal braccio secolare delle banche d’affari, dai fusi orari della Borsa e dalla variabilità dei suoi umori.
2. Utilizzando questa chiave di lettura riusciamo a interpretare il comunicato del 7 aprile 2014, che rovesciando i pronostici rende nota la decisione di non chiudere lo Ior, ma anzi di spalancarne i battenti e rilanciarlo: «Il Santo Padre ha approvato una proposta sul futuro dell’Istituto per le opere di religione, riaffermando l’importanza della missione dello Ior per il bene della Chiesa cattolica, della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. Lo Ior continuerà a servire con attenzione e a fornire servizi finanziari specializzati alla Chiesa cattolica in tutto il mondo».
La scelta ha visto Francesco esitare fino all’ultimo sull’uscio della Torre di Niccolò V, considerando che cento giorni prima, nell’intervista di Natale al quotidiano La Stampa, era sembrato propendere per il pollice verso: «Sul futuro dello Ior si vedrà. Per esempio, la banca centrale del Vaticano sarebbe l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica). Lo Ior è stato istituito per aiutare le opere di religione, le missioni, le Chiese povere. Poi è diventato come è adesso». Parole che parevano vidimare il presagio di Renzi. Se non che il pontefice, a sorpresa, invece di azzerare ha raddoppiato, dotando la Santa Sede di due banche centrali: quella di Stato e quella dell’impero, che stanno l’una all’altra come una tesoreria comunale e un fondo universale d’investimento. Il pozzo del villaggio e la piattaforma offshore.
Mentre l’Apsa costituisce la banca del Vaticano, cioè dello Stato Pontificio sopravvissuto all’assalto di Porta Pia nel ristretto recinto di San Pietro, lo Ior ambisce a diventare la banca della Chiesa: proiettandosi nella prateria sconfinata e inesplorata dei beni che, pur afferendo a organismi religiosi, sovente sfuggono al governo centrale, in una varietà di ramificazioni, denominazioni, congregazioni. Un immenso eldorado che il Sole 24 Ore ha stimato in duemila miliardi di euro nel solo comparto immobiliare, di cui la metà in Italia: un depositum fidei comparabile ai depositi complessivi, anch’essi misterici, delle banche elvetiche. Mentre non si possiedono dati sulla forza e consistenza dei patrimoni mobiliari: sconosciuti perfino allo Spirito Santo, asserisce umoristico un proverbio ecclesiale.
È questo il tesoro del papa. La sua potenza, in potenza. Rispetto ad esso retrocedono in seconda linea i tesoretti, per quanto ingenti, di cui l’australiano Cardinal George Pell, ministro delle Finanze di Francesco, ha polemicamente riferito in un articolo sul Catholic Herald del 5 dicembre e in un’intervista del 14 febbraio al Corriere della Sera, raccontando di somme ingenti (1,5 miliardi di dollari) tenute fuori bilancio e trattenute nei dicasteri pontifici, a cominciare dalla segreteria di Stato e da Propaganda Fide, nel braccio di ferro con il porporato accentratore.
Paradosso paradigmatico di una Chiesa futuristica e arcaica, in anticipo di due millenni sulla globalizzazione delle istituzioni politiche, ma in ritardo di mille anni su quella delle istituzioni economiche, dove reca un imprinting ancora feudale. Assolutamente monarchica e risolutamente anarchica: «Come i re avevano consentito ai loro rappresentanti regionali, principi o governatori, di avere mano pressoché libera, purché mantenessero in equilibrio i libri, così hanno fatto i papi con i
cardinali di curia. E fanno ancora con i vescovi diocesani», ha chiosato Pell. Dimentico però che anche l’arcidiocesi di Sidney, da lui retta, si guardava dal custode le proprie riserve in Vaticano.
Sullo sfondo, si delinea la missione «pastorale» del nuovo Ior: ritornare alle origini e riportare all’ovile le pecore smarrite, attirandole con tassi remunerativi ma ponendole al riparo da faccendieri e dittatori che insidiano un gregge ignaro, spesso incauto, talvolta complice, come attestano gli scandali che hanno colpito importanti famiglie religiose: «I significativi servizi che possono essere offerti dall’Istituto assistono il Santo Padre nella sua missione di pastore universale e supportano inoltre istituzioni e individui che collaborano con lui nel suo ministero», insiste il comunicato dell’aprile scorso.
3. All’indomani della quinta domenica di quaresima, che celebra la resurrezione di Lazzaro, l’annuncio della sala stampa è riecheggiato rassicurante nel torrione dello Ior, come le parole di Gesù davanti alla tomba dell’amico: «Togliete la pietra». Bergoglio ha messo a tacere il lamento funebre intonato anzitempo, unitamente ai suggerimenti di quanti, conformemente al copione evangelico e all’adagio pecunia olet, avevano dato voce all’obiezione di Marta: «Signore, già manda cattivo odore», convinti che il destino dell’ente fosse irrimediabilmente segnato.
Dopo la rinascita spirituale della Chiesa, Francesco si è proposto un miracolo ancora più arduo: la resurrezione materiale dei «corpi». Un assunto che è verità dogmatica in teologia, ma dovrà dimostrarsi altrettanto infallibile in economia. È possibile attirare nell’Urbe i capitali dell’orbe, considerando che le ricche diocesi del Nord Europa e del Nordamerica affidano allo Ior una quota residuale dei loro depositi (che non supera il 10%), preferendo le banche autoctone?
Ma un papato che dichiara guerra all’impero anonimo dei mercati non può rinunciare al sostegno dei propri «poteri forti», lasciando al controllo nemico cavalleria leggera e fanteria pesante, conti correnti e fortezze immobiliari, comprese scuole e ospedali. Non a caso il ministro del Tesoro che il papa si è scelto, Pell, arriva da una terra dove la Chiesa, pur rappresentando un quarto della popolazione, risulta il maggiore proprietario e imprenditore privato del paese, con 150 mila dipendenti e ricavi per 15 miliardi di dollari.
La partita dello Ior in definitiva è biografica e geopolitica, più che finanziaria o giudiziaria. Sulla decisione di Francesco hanno influito la memoria e il futuro, non la cronaca. Sebbene l’uso del termine sia vietato, l’identikit che si va delirando palesa il connotato, inconfondibile, della banca di sistema. Un ormeggio sicuro, per proteggere il naviglio dalle sirene degli speculatori e dalla pirateria dei regimi canaglia. Una nave di appoggio, per scongiurare il naufragio e tamponare le falle, in caso di collisione con uno scoglio. Come accadde a Buenos Aires sul finire degli anni Novanta, quando l’outsider Bergoglio si ritrovò al timone di una diocesi accidentata, in seguito al crack del Banco de Crédito Provincial, sportello di riferimento del suo predecessore Quarracino. Allora Bergoglio imboccò un lungo e travagliato percorso di risanamento, assistito da una squadra tempestivamente inviata da Roma.
L’Istituto per le opere di religione quindi non solo sopravvive, ma nella metamorfosi del papato da universale a globale si conferma una delle prime banche al mondo – a prescindere dall’entità delle dotazioni, che non raggiungono i sette miliardi: modesta cifra in confronto ai colossi del settore. Ad essa supplisce una capacità di relazioni e una proiezione senza eguali. Conscio di questa enorme valenza, Pell è montato in sella allo Ior come un cowboy australiano, chiarendo subito che il suo, a differenza degli uffici che l’hanno preceduto, non sarà un dicastero senza portafoglio: eseguirà da vicino il «controllo» demandatogli dal pontefice con il motu proprio Fidelis dispensator et prudens del 24 febbraio 2014.
Insieme a lui veglia l’episcopato statunitense, che con quello tedesco resta il principale contribuente degli enti economici vaticani. Lo fa tramite la due diligence e l’intelligence di Promontory, consulente fiduciario d’Oltreoceano, che ha espresso dai propri ranghi il direttore dell’Istituto Rolando Marranci.
4. Il rilancio dello Ior marca una svolta e modifica il profilo del pontificato, meno francescano e più gesuita. La Santa Sede, alla stregua degli Stati secolari, si avventura sul terreno scivoloso della politica economica e si accinge a operare scelte selettive, attraverso due figure nuove e di pari stazza, fisica e istituzionale: i ministri del Tesoro e della Programmazione. Da una parte il già citato Pell, conservatore, filoamericano e rigorista. Dall’altra il progressista, mitteleuropeo e socialdemocratico Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, presidente dei vescovi tedeschi ed europei, chiamato a coordinare il Consiglio per l’economia: un collegio di otto cardinali e sette laici «avente una propria autorità di indirizzo, non un mero organo consultivo», ha sottolineato padre Lombardi.
Anziché gettare la spugna, Francesco ha dunque indossato i guantoni, mandando sul ring due combattenti pugnaci, dal tratto incisivo e i natali evocativi. Pell è figlio di un pugile anglicano non praticante, che praticò in compenso con successo le liturgie della boxe, fino a cingere la corona dei massimi. Marx, oltre all’omonimia con l’autore del Capitale, ha ricevuto in dote dal padre sindacalista il dna dell’impegno sociale, che sin dall’ordinazione accompagna il suo sacerdozio.
Già nel sinodo di ottobre sulla famiglia i due porporati hanno manifestato un diverso approccio «macroeconomico», dividendosi sulla versione sacramentale del quantitative easing auspicato da Bergoglio.
Se la politica li separa, la geopolitica li unisce: Pell e Marx sono fautori di un progetto modernizzante e globalizzante che sancisce l’esclusione dell’Italia dalla guida dell’economia d’Oltretevere. «Osservando la composizione del tavolo, dove siete tutti stranieri, non le pare di assistere a uno scambio di ruoli, con l’Italia che adesso si ritrova down under; come voi australiani definite il vostro paese?». George Pell risponde tranchant alla domanda di Limes. «La Chiesa universale non è il vicariato di Roma!».
Il cardinale ha svelato il nome della world car concepita per trasportare nel XXI secolo le finanze della Sede apostolica: Vam, acronimo che sta per «Vatican Asset Management». Un organismo di nevralgica e centrale collocazione, «in cui spostare gradualmente la gestione del patrimonio, al fine di superare la duplicazione degli sforzi in questo campo tra le istituzioni vaticane». Analogamente ai prototipi che circolano mascherati, potenzialità e caratteristiche del Vam verranno scoperte un po’ alla volta e forse al presente non risultano del tutto chiare neppure ai piloti. Bastano tuttavia per indicare il segmento di appartenenza, riconducibile alla sfera dei fondi sovrani.
Su questa direttrice di marcia, la segreteria per l’Economia potrebbe diventare a breve un ministero ancor più pesante, avendo preso a bordo da subito il patrimonio immobiliare dell’Apsa, con un motu proprio dell’8 luglio. Aumentando così la propria stazza per concorrere a livello mondiale. Ci sembra questo il traguardo che si intravede all’orizzonte. Obiettivo ambizioso e incerto, per quanto suggestivo. Non solo la trasparenza, ma la testimonianza. Non solo l’applicazione degli standard di efficienza, ma la creazione di nuovi modelli, capaci di ridistribuire la ricchezza dentro e fuori la Chiesa, coniugando effetti strutturali e profitti congiunturali. Mettendo insieme un’improbabile alleanza clerico-laica di cardinali sindacalisti e imprenditori vescovi, consiglieri spirituali e consulenti finanziari, manager fantasiosi e inflessibili revisori. Per competere, allo stesso tempo, con Tsipras e con le agenzie di rating.