Vincenzo Chiorazzo, Limes: Moneta e impero 2/2015, 18 marzo 2015
CHI DETIENE IL DEBITO PUBBLICO DELL’ITALIA?
[Note alla fine; tabelle allegate]
1. PER MERCATI E OSSERVATORI DEI DEBITI pubblici non si può certo dire che questo primo scorcio di 2015 sia stato avaro di notizie. Da Lussemburgo, il 14 gennaio, la Corte di giustizia dell’Unione Europea ci ha informati che a parere dell’avvocato generale Cruz Villalón il programma di Omt (Outright Monetary Transactions), annunciato dalla Bce nell’autunno 2012, è compatibile con il Trattato e ha solide basi legali, essendo da considerare misura di politica monetaria e non economica. Da Francoforte, il 22 gennaio, Mario Draghi ha comunicato l’avvio da parte della Bce di un programma di acquisto di titoli pubblici e privati per complessivi 60 miliardi di euro al mese da effettuarsi tra marzo 2015 e settembre 2016 e in ogni caso fino a quando il tasso di inflazione non si riorienterà verso l’obiettivo del 2%. Da Atene, il 25 gennaio, sono arrivati risultati elettorali che pur non diradando la nebbia addensatasi negli ultimi mesi sul Partenone dovrebbero comunque contribuire a disegnare una prospettiva di maggiore chiarezza. Tanto la «questione Grecia» quanto la nuova fase della politica monetaria della Bce rendono oggi interessanti un’occhiata retrospettiva alle origini della tempesta «sovrana» e, soprattutto, un viaggio nel ventre profondo del debito pubblico del nostro paese per capirne struttura, dinamiche, conformazioni.
2. È ormai opinione condivisa che se la crisi greca non è stata generata dal resto dell’area dell’euro ma da un mancato risanamento non rilevato anche a motivo di falsificazioni dei dati macroeconomici, essa è stata tuttavia gestita in maniera inadeguata; tal che lungi dall’essere stata capace di circoscriverla, la core Europe ha finito per esacerbarla. Valga a proposito ricordare quanto avvenne nell’autunno 2010 in Normandia. Era il 20 ottobre di quell’anno, quando al vertice europeo di Deauville, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy decisero di prodursi in una congiunta esternazione in materia di gestione delle crisi sovrane, non immaginando, probabilmente, le devastanti unintended consequences che le loro dichiarazioni avrebbero prodotto. Con quelle esternazioni, i leader dei due maggiori paesi dell’area euro annunciavano un accordo in base al quale a partire dal 2013 anche i creditori privati sarebbero stati chiamati a contribuire alle perdite derivanti da eventuali crisi sovrane. Per gli investitori internazionali significò che il debito pubblico europeo, considerato fino ad allora sostanzialmente privo di rischio, avrebbe da allora in avanti potuto essere disconosciuto e/o ristrutturato in varia guisa e misura. Fu benzina sul fuoco che la crisi greca aveva già acceso nella primavera precedente. Di quell’incendio, poi rapidamente divampato, l’intera area dell’euro sconta ancora le conseguenze.
3. Ma della slavina che si produsse e che nell’autunno del 2011 avrebbe colpito violentemente i nostri titoli di Stato, nell’immaginario degli italiani è rimasto impresso soprattutto l’effetto sul differenziale tra i tassi di interesse sul debito italiano e tedesco, un delta che si impennò fin sui 575 punti base. Se da allora, dello spread quasi tutti hanno imparato a occuparsi, molto meno si è discusso su come è cambiata, nel passaggio della crisi, la platea dei sottoscrittori del nostro debito pubblico. Oggi alcune domande risultano quindi di interesse: a) chi detiene i titoli (e le altre passività) delle pubbliche amministrazioni che saranno oggetto, per la quota che ci compete, del programma di quantitative easing della Bce? Quanto importanti sono state le istituzioni finanziarie come shock absorbers? E dentro l’ampio spettro delle istituzioni finanziarie (banche centrali, banche, fondi di investimento eccetera) qual è stato in questi anni il ruolo giocato dalle banche? E infine: come è cambiato, se è cambiato, l’atteggiamento di famiglie e imprese residenti nei confronti dell’investimento in titoli di Stato? Per abbozzare stralci di risposta a questi interrogativi proviamo innanzitutto a scattare tre fotografie alla struttura del nostro debito in tre momenti diversi dell’ultimo lustro.
4. Il primo scatto va riferito, di necessità, a quella che potremmo definire la fase della «quiete prima della tempesta» (dicembre 2009-dicembre 2010). La seconda foto è opportuno scattarla nel momento più acuto della crisi, tra la fine del 2011, a governo Monti insediato, e la fine di giugno 2012, quando il colpo di reni del Consiglio europeo (con la decisione di dar vita, inter alia, all’Unione bancaria europea e avviare la rottura del circolo vizioso tra rischio sovrano e rischio bancario) e, soprattutto, il whatever it takes di Mario Draghi impedirono, nei fatti, il dissolvimento dell’euro [1]. Il terzo click è da riferire, infine, alla situazione odierna, così come osservabile tra la fine del 2013 e attraverso i dati più recenti disponibili (giugno 2014, mentre si va in stampa), segnata da una relativa normalizzazione dei mercati con lo spread Btp-Bund rientrato intorno ai 120 punti base.
5. Nella tabella 1 riportiamo alcune informazioni di interesse, con riferimento alle tre fasi menzionate («prima della crisi», «durante la crisi» e «dopo la crisi»). Per l’intanto notiamo che tra i due estremi considerati, fine 2009 e metà 2014, lo stock di debito è passato da 1.770 a 2.169 miliardi (sceso poi a 2.160, a novembre 2014) con una crescita di 400 miliardi, oltre 20 punti di prodotto interno lordo. La tabella 1 mostra che lo stock di passività è sostanzialmente costituito da tre tipi di strumenti: quelli più liquidi rappresentati da monete e depositi (principalmente raccolta postale), che oggi contano per circa 170 miliardi; i titoli, per gran parte a medio e lungo termine, che assommano a più di 1.800 miliardi; infine i prestiti delle istituzioni finanziarie e monetarie e altre passività tra cui buona parte dei 60 miliardi versati come aiuti europei sia sotto forma di prestiti bilaterali o tramite il Fondo europeo di stabilizzazione sia come apporto di capitale al Meccanismo europeo di stabilizzazione. È interessante notare come durante la traversata della crisi l’incidenza di queste tre grandi tipologie di strumenti non sia cambiata: la componente più liquida contava prima della crisi e conta ancora oggi intorno all’8%; le altre passività avevano e hanno tuttora un peso analogo; infine e quindi, poco meno dell’85% del totale del debito era ieri e resta oggi rappresentato da titoli (Bot, Cct, Btp, ma anche titoli obbligazionari emessi dalle amministrazioni locali eccetera).
6. La tabella 2 evidenzia il ruolo differenziato di operatori residenti e non residenti. Vi si osserva che con lo scoppio della crisi sovrana, nell’autunno del 2011, la quota di debito pubblico detenuta da non residenti, allora pari a circa il 40%, va incontro a una significativa caduta con la perdita di poco meno di 10 punti percentuali a fine 2013. In termini assoluti, tra dicembre 2009 e giugno 2012 lo smobilizzo netto di titoli da parte di non residenti si ragguaglia a circa 100 miliardi e solo dopo l’annuncio delle richiamate Omt l’ammontare detenuto da non residenti comincia a recuperare, fino a tornare recentemente intorno al valore medio pre-crisi (circa 730 miliardi). Al recupero in termini assoluti non ha peraltro corrisposto quello in termini relativi, restando oggi la quota di debito dei non residenti sul totale di circa 7-8 punti percentuali inferiore a quella pre-crisi (rispettivamente 32-33% contro 39-40% [2]).
7. Prima di cercare di capire qualcosa di più sul ruolo giocato da particolari investitori non residenti, come per esempio le banche estere, giova apprezzare i principali trend registrati tra i sottoscrittori residenti in Italia. Il fenomeno più macroscopico è costituito dal ruolo di rimpiazzo della domanda estera esercitato dal settore finanziario interno nel suo complesso, ma in particolare da parte delle istituzioni finanziarie e monetarie (di cui la parte prevalente è rappresentata dalle banche). Guardando ai valori assoluti si nota che la Banca d’Italia passa dai 65-70 miliardi del 2009-10 ai 90-100 durante la fase acuta della crisi, agli attuali 105/110, con un incremento in quota di debito complessivo dell’ordine di oltre 1 punto percentuale (da meno del 4 a circa il 5%). Ma la quota maggiore dei 400 miliardi di incremento di debito menzionata all’inizio viene assorbita dalle istituzioni finanziarie e monetarie diverse dalla Banca d’Italia che passano complessivamente da 450-500 miliardi prima della crisi a 550 in media durante la crisi, fino ai 650-660 miliardi detenuti attualmente. Le altre istituzioni finanziarie, che in questa disaggregazione includono imprese di assicurazioni, fondi comuni e fondi pensione, forniscono anch’esse un contributo importante: il loro stock di debito in portafoglio passa infatti dai 250-300 miliardi della fase 2009-10 ai 265-354 della fase di crisi, per arrivare agli attuali 400 miliardi circa, con un incremento anche di peso relativo. E il settore privato? Famiglie, imprese e altri operatori privati sembrano aver dato una mano nel passaggio più difficile (tra prima della crisi e durante la crisi il loro peso relativo aumenta di 1-2 punti percentuali: dai 250-260 miliardi ai 310-320 miliardi, pari a 13-15 punti percentuali di quota) per riposizionarsi intorno a una fetta del 12% nella fase post-crisi.
8. Fin qui non siamo stati in grado di separare le famiglie dalle imprese e abbiamo dovuto considerare il settore finanziario in forma piuttosto aggregata. La tabella 3 offre invece informazioni più minute, anche se si tratta di dati che a differenza dei precedenti valutano i titoli al loro valore di mercato e non al nominale e quindi presentano grandezze assolute superiori o inferiori al valore facciale a seconda che il mercato abbia sperimentato guadagni o perdite in conto capitale. Si può ad esempio notare che il complesso dei titoli della tabella 3 è maggiore di quello che si riscontra nella tabella 1 (2.030 contro 1.829 miliardi) proprio in ragione dell’apprezzamento dei corsi che si è registrato nella fase più recente. Come si vede nel pannello inferiore della tabella, la parte di gran lunga più considerevole del debito in titoli è detenuta dal settore finanziario, in primo luogo dalle istituzioni finanziarie e monetarie (costituite in prevalenza da banche) e in secondo luogo da assicurazioni e fondi pensione. I titoli di Stato delle banche rappresentavano il 10-12% dei titoli complessivi delle amministrazioni pubbliche prima della crisi, quota salita al 14,5% a fine 2011 e fino al 20% a fine giugno 2012, più o meno il livello attuale, he imprese hanno sperimentato una riduzione tendenzialmente modesta della propria quota durante la crisi e una successiva ricostituzione: dai 45 miliardi in media nella fase pre-crisi ai 40 della fase di crisi, ai 45-50 attuali. Il fenomeno opposto ha interessato le famiglie, che nel dicembre 2010 avevano in portafoglio circa 170 miliardi di titoli, consistenza che hanno accresciuto durante la crisi (fino a 200 miliardi) e che hanno poi a fasi alterne diminuito e aumentato (oggi sono intorno ai 240 miliardi, più o meno il 12% del totale, mentre erano al 13,6% nel picco di crisi e intorno all’11% prima della crisi).
9. I dati fin qui analizzati evidenziano il rilevante ruolo che il sistema finanziario e le banche in particolare giocano nella sottoscrizione del debito pubblico e l’importanza degli investitori non residenti. La quota di debito di tali investitori è un importante indicatore per diverse ragioni: evidenzia in primo luogo quanta parte degli effetti distributivi esercitati attraverso l’emissione di debito va a favore del resto del mondo e non è redistribuzione tra residenti; è in secondo luogo un indicatore di esposizione sull’esterno e quindi di potenziale fragilità dell’emittente in caso di perturbazioni di mercato; può essere considerato, infine, un indicatore dell’incentivo che il sovrano può avere a non onorare i propri impegni; infatti, minore è la quota di debito detenuta da non residenti, minore è l’incentivo dell’emittente a effettuare operazioni di ristrutturazione dal momento che ove realizzate esse si ritorcerebbero essenzialmente contro residenti con i conseguenti risvolti in termini di consenso.
Circa la composizione della platea degli investitori non residenti non esistono informazioni ufficiali esaustive, ma indicazioni interessanti possono trarsi dai dati della Bri (Banca dei regolamenti internazionali), i quali danno un’idea della misura in cui le banche estere sono esposte verso il settore pubblico italiano. Nella tabella 4 si riscontra come alla fine di giugno 2014 dei circa 700 miliardi di debito pubblico italiano detenuto da non residenti quasi 200 erano in mano alle banche dei 25 paesi riportanti alla Bri. Si tratta, per tre quarti, di esposizioni di banche europee. La lista include in prima posizione la Francia per circa 60-70 miliardi, poi la Germania con portafogli intorno ai 40 miliardi e a seguire Spagna e Giappone con 20 a testa, Usa con circa 15, Svizzera con 9, Belgio con 6 e Regno Unito con 4 [4]. La tabella mostra come rispetto alla fase pre-crisi [5] il calo delle esposizioni durante le turbolenze fu di quasi 100 miliardi: dai 212 di giugno 2011 ai 128 di giugno 2012. L’alleggerimento dei portafogli [6] coinvolse soprattutto le banche dell’Unione Europea e fu relativamente più marcato nel caso delle banche francesi. Tra giugno 2011 e giugno 2012 esse ridussero lo stock da 78 a 43 miliardi, quelle tedesche da 35 a 28, quelle inglesi da 13 a 5. Secondo le indicazioni della Bri, le banche statunitensi ridussero la loro esposizione a fine 2011, ma la ricostituirono già a fine giugno 2012. Altro elemento di interesse è la riduzione, oggi rispetto a prima della crisi, dell’esposizione delle banche belghe e il recente sensibile incremento delle esposizioni delle banche spagnole.
10. Il nostro viaggio tra i detentori del debito pubblico italiano evidenzia quali sono i soggetti che direttamente o indirettamente saranno interessati dal programma di acquisto sul mercato secondario annunciato dalla Bce il 22 gennaio 2015. Un tale programma accresce il grado di non convenzionalità della politica monetaria della Bce, ma rimane, è bene ricordarlo, un programma di politica monetaria e non può essere considerato qualche cosa che esime i governi dal prestare la giusta attenzione alla dinamica dei debiti pubblici. Perché possa avere la massima efficacia nel contrastare le tendenze deflazionistiche ora in atto, la manovra monetaria deve suggerire strategie opportune anche per la politica fiscale.
Come abbiamo fin qui visto, nella fase di crisi le banche hanno svolto un ruolo importante nel colmare vuoti di domanda di titoli e il quantitative easing della Bce aiuterà certamente il nostro debito pubblico, ma è evidente che la sua gestione potrà trarre l’alimento più vitale soltanto da una significativa inversione di tendenza del rapporto debito/pil. Perché questo accada continua a essere necessario, anche all’indomani della benvenute linee guida della Commissione europea in materia di margini di flessibilità del patto di stabilità e crescita, un ragionato e ragionevole rigore nella gestione dei conti pubblici. Tali margini devono spingere a dare qualità alla spesa pubblica nella consapevolezza che da essa può discendere maggiore crescita del reddito, condizione decisiva per la sostenibilità finanziaria di lungo periodo. Ma maggiore spesa in conto capitale e tendenziale riduzione della pressione fiscale implicano, per un paese che non può rinunciare a un congruo e perdurante avanzo primario, una gestione attenta della spesa corrente. È con un’equilibrata politica di bilancio e con la realizzazione delle programmate riforme strutturali che si potrà utilizzare adeguatamente il tempo prezioso che la nuova ondata di politica monetaria non convenzionale assicura. Non dimenticando che, ancora una volta, per tutti i governi dell’area dell’euro, è un tempo avuto in prestito.
1. Affermò Draghi, nel discorso del 26 luglio 2012 alla Global Investment Conferente di Londra: «When people talk about the fragility of the euro and the increasing fragility of the euro, and perhaps the crisis of the euro, very often non-euro area member states or leaders underestimate the amount of political capital that is being invested in the euro». E aggiunse, subito dopo: «Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes topreserve the euro. And believe me, it will be enough».
2. Tale quota scende di circa 5 punti percentuali se si tiene conto che alcuni operatori non residenti (fondi comuni eccetera) acquistano i titoli per conto di operatori residenti.
3. L’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie evidenzia che nel 2012 possedevano titoli di Stato in media il 6,9% delle famiglie italiane. Distinguendo in base a titolo di studio, condizione professionale e livello di reddito tale percentuale era più elevata tra i laureati (17,9%), tra i dirigenti di azienda (11,5%) e gli imprenditori e liberi professionisti (12,4%), tra i percettori del 20% più alto del reddito familiare (16,5%).
4. Solo a mo’ di esempio si può osservare che dalla base dati dell’Eba sugli ultimi stress test risulta che a fine 2013 le prime banche francesi e tedesche detentrici di esposizioni verso il sovrano italiano erano Bnp (19 miliardi) e Crédit Agricole (12) da un lato e Commerzbank (10,7) e Deutsche (9,8) dall’altro.
5. In questo caso rappresentata dalla situazione di fine 2010 e giugno 2011, dal momento che non si dispone dei dati di fine 2009.
6. Qui esaltato dal fatto che si tratta di valori di mercato e non nominali, che quindi inglobano un effetto di svalutazione/rivalutazione che si aggiunge alla dismissione o all’acquisizione dei titoli.