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 2015  marzo 18 Mercoledì calendario

LA GUERRA DELLE VALUTE


[Note alla fine]

1. LA RECENTE MOSSA DELLA BCE DI procedere all’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Eurozona e di istituzioni sovranazionali è stata descritta dagli organi di informazione come la decisione, da parte dell’istituto di Francoforte, di passare all’uso del bazooka dopo anni inutilmente spesi a combattere i rischi di deflazione a colpi di fioretto. L’analogia di stampo militare, per quanto forse enfatica, non è fuori luogo. L’immagine coglie un aspetto non secondario della mossa dell’istituto di emissione: la decisione di partecipare attivamente alla cosiddetta «guerra delle valute», con l’intenzione di cambiare il destino (masochisticamente scelto fino a oggi) dell’euro come moneta volutamente predestinata alla sconfitta.
Ma l’uso di una locuzione come «guerra delle valute» per descrivere operazioni puramente finanziarie e monetarie – quindi non strettamente legate all’economia reale – non rischia a sua volta di essere troppo enfatico? Non necessariamente, se si considera che quella che si è combattuta sulle piazze finanziarie del pianeta (in particolare da parte delle banche centrali, ma anche necessariamente degli operatori privati) «a colpi di bazooka» è stata una vera e propria battaglia con precise regole d’ingaggio, che ha prodotto pesanti danni all’economia reale dei paesi coinvolti, talvolta più gravi di quelli che avrebbe creato un vero conflitto bellico. Soprattutto, va ricordato che in passato alla guerra delle valute è spesso seguita la guerra guerreggiata, con morti e feriti.

2. La guerra delle valute non è infatti un fenomeno nuovo. Solo per rimanere al più recente passato, basti ricordare cosa accadde negli anni Venti del Novecento, quando vari paesi decisero di abbandonare il gold standard (un sistema di cambi fissi o comunque poco flessibili) appena riadottato dopo il temporaneo abbandono del periodo bellico. Obiettivo: consentire svalutazioni della moneta, con lo scopo di guadagnare competitività rispetto ai paesi vicini e riguadagnare così volumi di reddito nazionale decimati dalla Grande guerra.
L’effetto della strategia di guadagnare quote di reddito a scapito del vicino tramite svalutazioni competitive (da cui l’espressione «beggar-thy-neighbour»), con conseguente adozione di pratiche protezionistiche, fu quello di gettare i paesi perdenti in una spirale di svalutazioni e inflazione che avrebbe portato quegli Stati – al contempo afflitti dalla necessità di ripagare gli ingenti debiti di guerra – sull’orlo della bancarotta, se non proprio in bancarotta. Oppure di generare fenomeni di iperinflazione (di fatto, una bancarotta monetizzata) come quella tedesca, a cui la fragile repubblica di Weimar non seppe opporsi. Di qui anche l’ascesa di Hitler al potere e quindi, nel giro di pochi anni, la seconda guerra mondiale.

3. Memori di questi nefasti eventi, i principali leader mondiali si sono ripromessi di non commettere lo stesso errore all’indomani del crollo di Lehman Brothers, nel settembre 2008. Una crisi che aveva portato l’economia mondiale al collasso, con cadute del pil nel 2009 che in diversi casi superavano il 6-7% in un solo anno. Con gran solennità, in occasione del G20 di Londra [1], i capi delle maggiori potenze avevano firmato la seguente dichiarazione: «Condurremo tutte le nostre politiche economiche in modo cooperativo e responsabile riguardo all’impatto su altri paesi e ci asterremo dalla svalutazione competitiva delle nostre monete mentre promuovemmo un sistema monetario internazionale stabile e ben funzionante» (corsivi miei, n.d.a.).
Questo autorevole «mai più» derivava dalla piena consapevolezza che una crisi finanziaria derivante da eccesso di debiti come quella innescata dai mutui subprime americani, miscelata a un nuovo episodio di currency war; sarebbe ben presto sfociata in episodi di instabilità politica prima e militare poi. Come negli anni Venti.
Tutto questo però con una pericolosa postilla, aggiunta nei mesi successivi, che di fatto riapriva le porte alla guerra delle valute: se le politiche monetarie espansive (lo strumento tramite le quali la guerra si combatte) erano mirate al rinvigorimento delle economie nazionali – ed erano quindi condotte per fini puramente domestici, e non con l’intenzione di «fregare il vicino» – allora tali manovre erano consentite. E quand’anche l’effetto collaterale fosse stato quello dell’indebolimento della valuta nazionale, tali politiche non sarebbero state sanzionate dal G20 e dai suoi bracci operativi, come il Fondo monetario internazionale.

4. Ricordate la guerra fredda e le proxy wars? In piena guerra fredda, quando i due blocchi contendenti, guidati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, intendevano evitare l’escalation che avrebbe portato alla guerra calda (cioè al conflitto atomico) veniva fatta scoppiare una cosiddetta proxy war, ovvero un conflitto tra le due parti in causa ma su un terreno di battaglia diverso, tale da evitare lo scontro diretto tra le superpotenze. Possono classificarsi come proxy wars le guerre di Corea (1930-53), Congo (1960-65), Afghanistan (1979-89) eccetera.
Ebbene, con le currency wars vietate dagli accordi del G20 – in un certo senso equivalenti alle varie convenzioni di Ginevra sulle regole di ingaggio in guerra – i vari contraenti non hanno che potuto combattere su un terreno diverso, quello delle proxy currency wars. Lo strumento scelto per questa battaglia è stato l’espansione del bilancio (balance sheet) della Banca centrale. Cerchiamo di capire perché.
In fasi di forte contrazione economica, la Banca centrale cerca di rivitalizzare l’economia tramite il taglio dei tassi di interesse, in modo da riattivare il canale del credito. Ma quando i tassi di interesse sono giunti al loro limite inferiore (il cosiddetto zero lower bound), la Banca centrale può procedere all’acquisto di attività tramite operazioni di mercato aperto, con un duplice scopo. Acquistando attività rischiose o deteriorate, per esempio dalle banche, «ripulisce» i bilanci degli istituti di credito da attività che assorbono capitale e impediscono l’erogazione di nuovo credito. Inoltre, acquistando per esempio titoli di Stato, la Banca centrale aumenta il prezzo dei titoli a più lunga scadenza facendone cadere il rendimento, inversamente correlato al prezzo. Tale manovra ha lo stesso effetto desiderato di un taglio dei tassi, in quanto riduce i tassi di interesse a lunga scadenza.
Per finanziare questi acquisti di attività in misura massiccia, su larga scala la Banca centrale deve stampare moneta [4] in misura equivalente, in modo che i due lati del bilancio della Banca centrale aumentino della stessa misura.
Ma stampare moneta e così facendo stimolare l’inflazione interna non equivale forse a svalutare la moneta? [5]. Certamente non passerà inosservato agli agenti di cambio di tutto il mondo che maggiore quantità di una stessa valuta è stata messa in circolazione dalla Banca centrale. E come la banalissima equazione «eccesso di offerta=ribasso del prezzo» insegna, l’aumentata offerta di valuta si trasforma in una svalutazione della moneta stessa rispetto a tutte le altre, e quindi in una svalutazione del cambio. L’espansione del bilancio della Banca diventa pertanto strumento di svalutazione del cambio. Da cui la constatazione che l’incremento del bilancio della Banca centrale è di fatto la proxy war della vera e propria currency war che non si può legittimamente combattere. Una proxy war legittima e ammessa dal G20, in quanto mirata a obiettivi domestici, e che solo come effetto collaterale prevede la svalutazione del cambio.





5. I primi a procedere a un massiccio acquisto di attività del settore privato (mutui immobiliari cartolarizzati, di fatto) nel corso di questa crisi sono stati gli Stati Uniti, che nel dicembre 2008 hanno dato il via ad acquisti di titoli immobiliari su larga scala, poi allargati ai titoli del governo americano a fine marzo 2009, dopo che la Banca d’Inghilterra aveva lanciato il suo Qe (quantitative easing o allentamento monetario, ovvero l’acquisto di attività finanziato da emissioni di moneta), incentrato quasi esclusivamente sui titoli di Stato britannici (gilts).
Gli inglesi e gli americani sono stati pertanto i primi a sfoderare il cosiddetto bazooka. In tre round di Qe [6] hanno espanso il balance sheet delle loro banche centrali in modo notevole, così ottenendo un’immediata svalutazione del cambio verso le altre valute, mentre il tasso di cambio reciproco si è mosso nel senso di una svalutazione della sterlina rispetto al dollaro. Gli Stati Uniti ne hanno beneficiato enormemente, in quanto sono riusciti ben presto a ridare slancio all’economia anche tramite l’adozione di importanti politiche fiscali espansive da parte delle amministrazioni Bush prima e Obama poi. La Federal Reserve, acquistando titoli del Tesoro degli Stati Uniti ha di fatto finanziato il deficit del governo, che era balzato al 10% del pil a seguito degli interventi mirati al salvataggio delle banche e di altre istituzioni finanziarie e industriali, in particolare nel settore automobilistico. Grazie alla ripresa e poi all’espansione economica indotta dal combinato disposto di stimolo fiscale e allentamento monetario, gli Stati Uniti hanno di fatto riportato il deficit sotto la soglia del 3% del pil senza ricorrere a quelle misure di austerità che in Europa hanno ucciso il cavallo, invece di curarlo.
L’esperienza inglese invece è stata in chiaroscuro. La svalutazione della sterlina su dollaro ed euro (innescata da acquisti per 375 miliardi di sterline da parte della Bank of England) ha sicuramente scongiurato il pericolo di deflazione a cui il paese era esposto dopo il pauroso crollo di metà del suo sistema finanziario, salvato solo dal provvidenziale intervento statale. Ma non ha sortito quell’effetto di ribilanciamento dell’economia a favore delle esportazioni nette e a sfavore dei consumi interni che ci si sarebbe potuto aspettare e a cui aspiravano i decisori politici britannici [7]. In realtà, a seguito della svalutazione, la Banca centrale si è trovata a fronteggiare dopo un paio d’anni dall’avvio degli acquisti una situazione nient’affatto desiderabile, quale quella di un’inflazione molto superiore al target del 2% (ovvero, sopra il 5%), coniugata a bassa crescita economica e alto indebitamento pubblico. Avendo come unico mandato quello del raggiungimento del target di inflazione, la Bank of England avrebbe dovuto pertanto alzare i tassi di interesse, così peggiorando ulteriormente la dinamica economica e il servizio dell’alto debito pubblico e privato. La soluzione è consistita in due mosse: la Banca centrale ha smesso di acquistare titoli pubblici, così frenando la caduta del cambio; nel frattempo, il mandato della Banca centrale è stato leggermente modificato in modo da dare un maggior peso alla crescita economica nelle decisioni di politica monetaria. Sulla scorta di queste scelte, il nuovo governatore della Banca d’Inghilterra, il canadese Mark Carney, ha potuto dar avvio a una nuova fase della politica monetaria, caratterizzata dalla cosiddetta forward guidance [8] che, grazie al contemporaneo rafforzamento della sterlina su tutte le principali valute concorrenti – in particolare euro e dollaro – ha in poco tempo portato l’inflazione a scendere addirittura sotto il target, mentre la crescita si attestava sui tassi più alti dei paesi sviluppati [9].
Nonostante la compravendita di titoli pubblici sul mercato aperto sia da sempre stata un’arma nell’arsenale delle banche centrali, da quando è invalsa la tendenza ad attribuire a queste piena indipendenza operativa e discrezionale (tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento) l’uso del Qe è stato considerato altamente unconventional, per via dell’oggettivo offuscamento della separazione tra politica fiscale e politica monetaria da esso derivante.
Il Giappone fu il primo paese ad adottare il Qe, nei primi anni Novanta, per fronteggiare la deflazione. Nonostante siano stati gli inventori del Qe in senso moderno, i giapponesi sono arrivati tardi alla guerra delle valute scatenata durante questa crisi: gli acquisti da parte della Banca centrale nipponica di attività pubbliche e private nel periodo 2008-13 impallidivano di fronte all’arsenale sfoderato da americani e inglesi, con il risultato di un progressivo rafforzamento dello yen, in particolare rispetto al dollaro, e pertanto di un aggravamento della deflazione interna. Visto il ritardo accumulato nei primi anni della crisi, gli inventori del moderno Qe non potevano che sfoderare un’«arma fine di mondo» per recuperare il terreno perduto e ricominciare a combattere ad armi pari, soprattutto con gli americani. Tale poderosa arma ha preso il nome enfatico di Qqe (quantitative and qualitative easing), che consiste in acquisti illimitati di attività del settore pubblico e privato, compresi derivati azionari e immobiliari. La Banca centrale nipponica si è impegnata a monetizzare tutto il comprabile all’infinito fino a quando l’obiettivo di inflazione (crescita dell’indice dei prezzi al consumo al 2%) non fosse stato raggiunto in modo duraturo.
Questo poderoso piano di acquisti, incastonato in una più ampia strategia di politica economica e finanziaria chiamata Abenomics [11] – dal nome del primo ministro Shinzo Abe: che l’ha inventata – è avvenuto in due fasi. La prima è stata lanciata nell’aprile 2013 e ha impresso un’accelerazione notevole alla crescita del bilancio della Banca centrale, risultando inevitabilmente nella sensibile caduta dello yen sul dollaro e sulle altre principali valute a partire da quel momento. La seconda, lanciata nell’ottobre 2014 quando il Qqe ha definitivamente assunto il carattere open-ended (infinito), ha prodotto un ulteriore indebolimento dello yen verso il dollaro e l’euro. Ma soprattutto, è stata la mossa che – insieme alla vertiginosa caduta del prezzo del petrolio, a partire all’incirca dallo stesso periodo del 2014 – ha indotto tutte le altre banche centrali dei paesi sia avanzati sia emergenti ad adottare ulteriori misure di allentamento monetario, per evitare di perdere terreno rispetto ai giapponesi e, in misura minore, agli americani.
La seconda mossa dei giapponesi ha definitivamente spinto i tedeschi ad abbandonare la loro teutonica ritrosia a impegnare l’Europa nella guerra delle valute, in quanto l’eccessivo indebolimento dello yen minava la competitività delle esportazioni tedesche nei settori ad alta specializzazione (tecnologia e macchinari industriali di precisione), in cui l’unico vero concorrente mondiale della Germania è il Giappone.

6. Ed eccoci infine ai giorni nostri e al bazooka di Draghi. Cosa ha finalmente indotto la Banca centrale europea a ingaggiare la guerra delle valute e cosa l’aveva trattenuta fino a quel momento? Come in tutte le guerre, c’è chi vince e c’è chi perde. Nella guerra delle valute, per lungo tempo, l’Eurozona e la sua Banca centrale hanno avuto il ruolo di predestinate alla sconfitta, così agevolando il compito dei più temibili concorrenti (Stati Uniti, Giappone e Regno Unito). Visto che non tutte le valute si possono svalutare contemporaneamente e che almeno una si deve rivalutare verso le altre, l’euro ha per lungo tempo giocato il ruolo di moneta forte. Ci sono tre motivi dietro questo fenomeno, apparentemente masochistico.
Il primo motivo si riferisce al meccanismo di aggiustamento adottato dai paesi dell’Eurozona più colpiti dalla crisi, i cosiddetti Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), basato sulla cosiddetta svalutazione interna. Questi paesi si sono infatti ritrovati al centro della crisi a causa del loro alto debito pubblico o privato, che aveva consentito uno sviluppo dei consumi superiore a quello che si sarebbero potuti permettere, a scapito delle esportazioni. A questi paesi è stato chiesto di ribilanciare le loro economie a sfavore dei consumi interni e a favore delle esportazioni nette, così da trasformare i loro deficit di bilancia commerciale in surplus. Ciò che, con diversi gradi di intensità e di successo, è avvenuto. Al punto che quasi tutti i paesi dell’Eurozona (inclusi i suddetti Piigs) sono in avanzo commerciale.
Ma una delle più vecchie leggi dell’economia stabilisce che, in presenza di cambi flessibili, le valute dei paesi in surplus commerciale tendono a rafforzarsi per via della domanda di quella valuta da parte dei paesi importatori, così progressivamente diminuendo la competitività dei prodotti esportati e favorendo la diminuzione dell’avanzo commerciale fino al teorico pareggio. I cambi flessibili funzionano pertanto come uno stabilizzatore automatico del saldo delle partite correnti di un paese.
In una vasta area economica come l’Eiirozona, composta da paesi quasi tutti tendenzialmente in surplus di parte corrente, la valuta subisce pertanto una spinta formidabile al rafforzamento. Questa è la prima ragione della forza dell’euro nel dopo-Lehman.
Il secondo motivo risiede nei differenziali di espansione della politica monetaria – un’estensione dei differenziali dei tassi d’interesse di cui si parlava nei good old days in cui tali tassi erano ancora lontani dallo zero lower bound. Avendo la Bce adottato politiche monetarie meno espansive di quelle dei suoi concorrenti (in particolare in termini di espansione del bilancio), inevitabilmente l’euro ne risultava rafforzato.
Il terzo motivo risiede in un errore concettuale tutto tedesco, probabilmente retaggio dei disastri dell’iperinflazione degli anni Venti, che tende a legare la forza dell’economia con quella della valuta: un’economia forte produce, specialmente tramite esportazioni massicce, una valuta forte; una valuta forte è sintomo di un’economia forte. Guai dunque a svalutare l’euro: questo avrebbe mandato il segnale che l’Eurozona è un’area economica in difficoltà.
Il combinato disposto di questi tre fattori ha spinto l’euro alle stelle verso il dollaro – fino a quota 1,40 nel maggio 2014 – come pure in rapporto alla sterlina e allo yen.
Cosa ha finalmente indotto la Banca centrale europea a cambiare strategia? La constatazione che la strategia precedente aveva miseramente fallito, avendo spinto ampie parti dell’Eurozona in depressione economica e in deflazione. Con il rischio serio che la nostra area monetaria entrasse in una spirale deflazionistica che avrebbe alla fine attanagliato anche la Germania.
Da quando, nel maggio 2014, Draghi ha fatto capire che la Bce avrebbe finalmente intrapreso politiche monetarie volte all’incremento del bilancio, l’euro si è deprezzato di oltre il 30% verso il dollaro (viaggiando verso la parità), la sterlina e lo yen. L’annuncio del Qe, il 22 gennaio 2015, ha messo definitivamente il sigillo all’ingresso della Bce nella guerra mondiale delle valute.

7. Finora ci siamo concentrati sui quattro principali attori della partita monetaria internazionale: Stati Uniti, Regno Unito, Eurozona e Giappone. Ma la guerra delle valute è intrinsecamente globale perché tutti i paesi ne subiscono gli effetti. Certo, i Big Four si sono dovuti attenere alle regole d’ingaggio del G20, in quanto una violazione da parte loro – chiaramente visibile da tutti gli altri – avrebbe comportato una pericolosa rottura delle regole della convivenza economico-monetaria e condotto in poco tempo a ben altro tipo di guerre. Ma paesi più piccoli non si fanno di questi scrupoli, vuoi perché non appartenenti al G20 vuoi perché, con la giustificazione dell’intervento domestico, sono riusciti a convincere gli altri che l’intervento diretto sul mercato dei cambi sarebbe stato il modo più efficace di perseguire gli obiettivi interni di politica monetaria.
In questo contesto vanno intese le varie forme di intervento diretto sul mercato che caratterizzano un gran numero di paesi del mondo, a partire dal più popoloso, la Cina. Da anni Pechino pratica una politica di aggancio (peg) dello yuan a un paniere di monete che di fatto si riduce a un peg con il dollaro. Il reinvestimento dei proventi delle esportazioni in attività denominate in dollari (compresi buoni del Tesoro Usa e debiti immobiliari cartolarizzati) ha impedito allo yuan di rafforzarsi rispetto al dollaro come i suoi enormi attivi commerciali avrebbero suggerito. Tuttavia un progressivo ma limitato rafforzamento dello yuan sul dollaro è stato consentito per rispondere alle accuse di manipolazione del cambio partite a più riprese da ambienti dell’establishment americano, talvolta anche da circoli governativi.
Altre forme di peg meritano attenzione. Una di queste è l’aggancio del riyāl dell’Arabia Saudita al dollaro, un metodo per immunizzare i proventi della vendita del petrolio dalle fluttuazioni dei cambi, ma anche per creare un vincolo geofinanziario che tenga in qualche modo legati gli Stati Uniti alle vicende mediorientali, al di là delle mutevoli posizioni della diplomazia ufficiale.
Un altro peg interessante dal punto di vista geofinanziario è quello della corona danese verso l’euro, ultimamente entrato in fibrillazione a causa della svalutazione across the board dell’euro e del contemporaneo afflusso di capitali verso la Danimarca. Il paese nordico, infatti, a seguito di ripetuti referendum che hanno sancito la non adesione formale all’euro, ha adottato un peg talmente stretto tra corona danese ed euro da risultare in un’adesione di fatto alla moneta unica. Sicché il prossimo referendum sull’euro dovrebbe porre la domanda: «Considerando che negli ultimi 15 anni avete adottato l’euro senza saperlo, volete voi adottarlo sapendolo?». Tale referendum rischierebbe comunque di non passare, in quanto il danese medio – confortato da buone dosi di pragmatismo – risponderebbe che non c’è motivo di perdere quel residuo grado di flessibilità (per esempio in materia di politiche fiscali) derivante dalla non adesione formale all’euro, potendo nel frattempo godere di tutti i vantaggi legati all’adesione di fatto alla moneta unica.
Laddove il peg risulterebbe eccessivamente vincolante (o «inelegante» a vedersi), altri paesi hanno deciso di adottare il floor, ossia il pavimento sotto il quale non intendono far scendere il valore del tasso di cambio, così prevenendo l’eccessivo rafforzamento della valuta. Un esempio viene dalla Banca centrale ceca, che vuole prevenire l’eccessivo rafforzamento della corona verso l’euro.
Ma l’esempio di floor par excellence, anche a causa delle scosse telluriche provocate dal suo recente abbandono, è quello che la Banca centrale svizzera aveva istituito a settembre 2011 per evitare che il franco svizzero si rafforzasse troppo verso l’euro. Il floor a 1,20 tra franco ed euro aveva comportato nel tempo un tale accumulo di riserve valutarie da parte della Banca centrale di divenire insostenibile sotto tre profili. Anzitutto, la svalutazione dell’euro rispetto alle altre valute iniziava a produrre perdite in conto capitale che la Banca
centrale non intendeva sostenere, anche in considerazione della partecipazione dei Cantoni al capitale della Banca nazionale svizzera. In secondo luogo, il referendum fallito del novembre 2014 sulle riserve d’oro della Banca centrale iniziava a mostrare le prime crepe nel consenso della popolazione alla continua accumulazione di riserve in asset finanziari denominati in valuta straniera. Infine, un’eccessiva esposizione delle autorità monetarie svizzere verso l’euro iniziava a far perdere al franco svizzero quella caratteristica di incorrelazione verso le altre valute che da sempre lo rende bene rifugio.
La decisione di abbandonare il floor da parte degli svizzeri ha avuto ripercussioni in vari paesi, inclusi quelli (come Ungheria, Polonia eccetera) i cui sistemi bancari avevano generosamente elargito mutui immobiliari denominati in franchi svizzeri in quanto caratterizzati da tassi di interesse più vantaggiosi.

8. Infine, nell’esaminare il contesto della guerra delle valute una speciale attenzione merita il sistema di fluttuazione sporca (dirty float) adottato dalla Russia verso un paniere di monete, ma che tutti misurano tramite il tasso di cambio dollaro-rublo. A causa del crollo del prezzo del petrolio – su cui si basa l’economia russa, in particolare gli introiti fiscali con cui lo Stato finanzia le sue spese – e delle sanzioni comminatele dall’Occidente a seguito dell’annessione illegale della Crimea, la Russia è entrata in una perniciosa combinazione di contrazione economica e alta inflazione che ha portato il rublo a svalutarsi pesantemente verso il dollaro.
Lungi dall’essere un segnale positivo o addirittura un obiettivo diretto o indiretto di politica economica, l’indebolimento della divisa russa rappresenta un fattore geopolitico determinante. Laddove circoli conservatori statunitensi decidessero di procedere a un regime change in Russia, ossia a liquidare Vladimir Putin e il suo sistema di potere, potrebbero essere tentati di raggiungere questo obiettivo geopolitico tramite un attacco speculativo alla valuta russa. E contemporaneamente puntando sul crollo del prezzo del petrolio. Le sanzioni americane impediscono già alle grandi imprese russe di accedere al mercato internazionale dei capitali. Attacchi speculativi di breve durata e alta intensità potrebbero indurre Putin a più miti consigli nella gestione del conflitto armato nell’Ucraina orientale.
Il caso russo ci ricorda da vicino quanto labile sia il confine tra le guerre virtuali combattute sui monitor dei signori della finanza e quelle reali ingaggiate sui campi di battaglia. Ciò dovrebbe suggerire ai leader del mondo di non giocare con troppa disinvoltura alla guerra mondiale delle monete.


Note:
1. Il lettore attento e assiduo di Limes ricorderà come, in un volume precedente, si fosse scritto della piazza di Londra come la principale per gli scambi in valuta (B. ROSA, «La city sconta la fine dell’Europa», Limes, «L’impero è Londra», n. 10-14, pp. 27-33). Per cui la scelta di Londra come luogo dove impegnarsi a non darsi una guerra delle valute parrebbe non casuale.
2. Comunicato finale del G20 di Ondra, www.imf.org/external/np/sec/pr/2009/pdf/g20_040209.pdf
3. Da cui il nome ad esso conferito dalla Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, ossia Large-Scale Asset Purchases – Lsaps.
4. O, più propriamente, aumentare le riserve in valuta domestica delle banche commerciali presso la Banca centrale.
5. O, come si dice più correttamente, de-basare la valuta. In realtà esistono molti altri canali tramite cui un aumento del bilancio di una banca centrale porta alla svalutazione della moneta, ma qui ci siamo soffermati sul più esemplificativo.
6. La Federal Reserve, tra Qe2 e Qe3, ha anche fatto la cosiddetta «operation twist» con cui ha finanziato gli acquisti di titoli a lungo termine dal mercato secondario tramite la vendita di titoli a breve scadenza acquistati nei primi due round di Qe.
7. Il fenomeno è dovuto alla particolare composizione delle esportazioni e importazioni britanni­che, le prime sbilanciate sui servizi altamente specializzati (quali istruzione, finanza, servizi legali) caratterizzati da bassa elasticità di prezzo e quindi poco sensibili alla svalutazione del cambio; le se­conde sbilanciate su prodotti industriali e derrate alimentari, invece molto sensibili ai cambi di prez­zo indotti dalla svalutazione. Il risultato è stato quello di un progressivo peggioramento della bilan­cia commerciale, tuttora in corso.
8. La forward guidance consiste nel dichiarare in anticipo al mercato quali saranno le mosse future, così da far scontare agli operatori quelle mosse come se fossero già avvenute.
9. Il prezzo pagato è stato quello di non aver «sfruttato la crisi» per cambiare il modello di sviluppo, rimasto basato sulle solite leve (consumi, edilizia e finanza), esponendo la Gran Bretagna al pericolo di una ripetizione dell’episodio di instabilità finanziaria del 2008, ma su scala molto vasta.­
10. Come già osservato, gli inglesi si erano nel frattempo ritirati, visti gli effetti non graditi della svalutazione del cambio sia sull’inflazione sia sulla crescita.
11. L’Abenomics consiste in tre pilastri, chiamati arrows, «frecce»: espansione monetaria, consolidamento fiscale scaglionato nel tempo e riforme strutturali. Di queste arrows, solo la prima si può dire essere andata significativamente a segno.